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L’amore che c’è dentro, l’amore che c’è fuori

A volte, magari proprio di domenica, capita di leggere quasi integralmente tre quotidiani e un inserto e che la tua sete di storie rimanga a bocca asciutta. Poi a mettere le cose a posto ci pensa una piccola lettera, in quello spazio che spesso e volentieri sorvoli diretto altrove, ché in quelle pagine ci son prima di tutto gli editoriali ed i commenti autorevoli. Ci pensa un lettore con un pensiero controcorrente, con un’osservazione limpida quanto spiazzante.

Amnistia per tutti coloro che – fatti i conti con ovvie e sensate limitazioni – possono beneficiarne, pazienza se ci finisce in mezzo uno che non la meriterebbe.

Amnistia perché l’amore che è dentro possa incontrare l’amore che è fuori.

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Pronto, Yelena? Ti ricordi di me?

La campionessa russa Yelena Isinbayeva ha almeno in parte smentito le atroci dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi a sostegno della legislazione anti gay varata da Mosca. Mi sono esercitato ad immaginare le ragioni del suo dietrofront.

 

Magari è arrivata una telefonata dallo sponsor, timoroso di perdere una fettona di mercato.

 

Magari ha telefonato proprio Putin, dicendo lascia stare Yelena, non son cose per signore, lascia che me le sbrighi io, certe sporche faccende. Tu pensa a portare sempre più in alto il nome della Russia.

 

Magari ha telefonato Silvio, l’amico personale di Putin: “Consentimi di darti un consiglio, Yelenona, fai come faccio sempre io, smentisci tutto, dichiara di essere stata fraintesa… di’ che è tutto un misander… un misundestunting, com’è che dite, voi giramondo… ah, te l’ho raccontata la barzelletta quella dell’asta?”

 

Magari sono state le meravigliose, tante tantissime cacche (con la tastiera :poop: ) che da ventiquattrore hanno cominciato a depositare sulla pagina pubblica dell’atleta russa centinaia di utenti di Facebook. Uno sconfinato tappetone di merda su cui atterrare dopo un salto tutto storto.

 

Magari tutto è partito proprio da una telefonata. Inaspettata. Pronto, Yelena? Ciao, sono Ekaterina, ti ricordi di me? Sì, al liceo. Quella in ultima fila, con la lunga coda di cavallo. No, non eravamo amiche per la pelle, ma qualche bella risata insieme ce la siamo fatta. Eri così bella, non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Una volta ti ho anche scritto una lunga lettera, ma il coraggio di fartela leggere non sono proprio riuscita a trovarlo. No, non vivo più a Volgograd; adesso la mia casa è a Stoccolma. Ci vivo con Anna. Ci siamo conosciute a Londra, cinque anni fa, eravamo lì per lavoro… E tu? Dimmi di te… Ma no, dei salti so tutto… dimmi il resto… sei felice?

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I numeri del Barcellona (anche lasciando Messi e Neymar in panchina)

Stavo annaspando nella calura agostana. Il mouse era sudaticcio come le news su cui cliccavo. Poi all’improvviso ho guardato l’immagine di un calciatore di spalle. La notizia era quella del suo debutto nella formazione che l’ha acquistato a peso d’oro. A colpirmi, però, è stato il numero sulla maglia. Un undici particolare, strano, vagamente a sghimbescio, somigliante al profilo stilizzato di due montagne, o al muso appuntito di due cavalli. Non ho pensato “bello”, ma mi ha incuriosito come sanno fare tutte le cose un po’ fuori posto, e tutti i frutti del pensiero divergente. Sono quindi finito su Twitter, digitando le parole chiave “numeri” e “Barcellona”, ed ho trovato reazioni di marca italiana estremamente severe: quanto sono brutti, fanno schifo, che roba è? Fino ad un emblematico: li ha disegnati uno spastico?

Fuochino (…e figura di merda).

I numeri li ha disegnati Anna Vives, che non ha lesioni di nessun tipo al cervello ma è una giovane donna con la sindrome di Down. Dopo una prima esperienza lavorativa in un supermercato, ha deciso di dedicarsi con successo al disegno e alla grafica. Probabilmente nelle partite ufficiali (quello di ieri sera era “calcio d’estate…”) la squadra catalana tornerà a sfoggiare i numeri “tradizionali” pensati dalla Nike; tuttavia, l’idea del calciatore Iniesta rimane molto dolce e suggestiva. Come lui, anche altre star dello sport spagnolo, il motociclista Lorenzo e il cestista Gasol, hanno voluto regalare notorietà al lavoro di Anna. Perché di lavoro si tratta.

 

Nel prossimo anno scolastico mi sa che a Scuolamagia scriveremo con Anna.

 

(Il font Anna, comprensivo di numeri e segni di interpunzione, si può scaricare gratuitamente, ma sul sito è possibile effettuare una donazione…) 

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Lettera a Erich Priebke

Gent.mo Erich Priebke (!!??!!??),

 

vede com’è difficile già soltanto cominciarla, questa lettera? Capirà come non avrei mai potuto scrivere “caro,”, ma anche il “gentile” quello delle lettere formali, quello che non si nega a nessuno, quello che si scrive anche quando poi nella missiva si va al sodo di contestazioni critiche e reprimende, ammetterà che suoni strano, davanti alla palese non gentilezza di alcune sue prese di posizione e più in generale della sua condotta da quando nel 1995 è stato estradato in Italia.

La notizia è che lei sta per compiere 100 anni e soprattutto che qualche italiano sembrerebbe intenzionato a festeggiare il suo genetliaco e di farlo spudoratamente in un luogo pubblico. Non è di questo che le voglio parlare, tuttavia. Esistono i mezzi per evitare quello scempio e mi auguro che chi è nelle condizioni di utilizzarli lo faccia prontamente.

Ieri tutti i siti dei giornali hanno pubblicato un video in cui lei sta camminando su un marciapiede romano accompagnato dalla sua badante. Una scena come se ne vedono tante in giro per le città e per i paesi. Abbiamo infatti riscoperto la sua esistenza. Quel 100 tondo tondo ci ha ridestati dal sonno e abbiamo di nuovo incrociato quel suo corpo possente, certo invecchiato, ma ancora in grado di deambulare, seppur sostenuto, in maniera sostanzialmente dignitosa. Mi sono chiesto cosa volessero i nostri occhi da quelle immagini. Che lei incespicasse e sbattesse la faccia sull’asfalto? Che lei provasse vergogna nel veder catturata ed esibita la sua fragilità di vecchio? Pensi che lo showman Fiorello, su Twitter, ha appena associato la sua condizione di centenario alla morte di quel giovane motociclista avvenuta a Mosca pochi giorni fa. Sottinteso: come sono ingiuste le cose del mondo, un venticinquenne innocente ci saluta tanto presto e invece Priebke… Pochi istanti fa, invece, lo scrittore Erri De Luca sullo stesso social media le ha augurato di viverne altri 100, di anni: “possa trascinarsi per un altro secolo il suo nome maledetto…”.

Il suo caso ci interroga sul significato profondo della Giustizia. Lei è stato dichiarato – seppur dopo un iter giudiziario rocambolesco – colpevole per crimini orribili. Una giuria ha fatto i conti con prove certe, con riscontri oggettivi. La sua difesa ha avuto modo di giocare le proprie carte. Il verdetto nel condannarla ha tenuto presente la sua età avanzata, così come prevedono ordinamenti “uguali per tutti”, dal ladruncolo al boia nazista. Un difficile esercizio di ricerca della verità è stato portato a termine. Funziona così, in democrazia. Noi siamo “i buoni” e con i nostri strumenti da “buoni” abbiamo messo sotto la lente un tempo lontano in cui erano prassi le azioni di “cattivi” come lei. “Cattività” da cui, a quel che mi risulta, lei non ha mai preso le distanze.

Nei prossimi giorni si eserciteranno in tanti sul tema del suo compleanno. La immagino impermeabile agli insulti che nel tempo le saranno piovuti addosso in quantità, magari anche nel corso delle sue normalissime passeggiate colla badante. Ci saranno gli editoriali e le battute sagaci. Ci saranno le volgarità e le minacce. Ecco il punto: forse noi “buoni” non dovremmo cadere in questa trappola. Proprio perché non siamo come lei, proprio perché noi gli istinti li dobbiamo frenare, dobbiamo aiutarci vicendevolmente a farlo. Può capitare che qualcuno non si trattenga, è umano, ma ci dev’essere qualcun altro vicino che lo quieta indicandogli battaglie più urgenti su cui concentrare le energie.

C’è un vecchio criminale nazista che non schioda dalla vita e gode invece di ottima salute. Ma è stato condannato. La Giustizia si è pronunciata. La sua infamia è scritta, e può essere raccontata a chi verrà. Dovrebbe essere sufficiente. Perché, altrimenti, rischiamo di diventare al solito paradossali, noi italiani: prendere lei come facile obiettivo – lo sanno tutti cos’è un nazista – e gettare la spugna sul fatto che ormai moltissimi giovani ignorano che gente della sua risma, trent’anni dopo la guerra, faceva saltare le stazioni ferroviarie stracolme di innocenti. C’è talmente tanta Giustizia da fare, in questo paese e in questo mondo, per sprecare la propria rabbia e la propria indignazione su quella che – al netto dell’orrore che rimane e deve rimanere – è già stata fatta. Io la sua faccia, Signor. Priebke, me la ricorderò finché campo, e anche certi suoi infimi sorrisetti, ma la sua pratica mi devo sforzare di metterla in un’altra cartella. Io gioco coi “Buoni”, e i “Buoni” non stappano una bottiglia nemmeno quando muore un “Cattivo”. Se no che “Buoni” sono? Se tra buoni e cattivi non ci sono più differenze, o sono marginali, allora tanto vale che ci si definisca “i verdi” e “i blu”.

Qualche anno fa, l’allora responsabile della comunità ebraica italiana Tullia Zevi ebbe a dire, con riferimento al suo ergastolo: “noi teniamo al principio della imprescrittibilità dei crimini di guerra nazisti, dunque al processo e alla condanna all’ergastolo; non teniamo che il condannato resti in galera e ci muoia”.

Oltre a riportare questa citazione della Zevi, Adriano Sofri ha scritto nel suo Chi è il mio prossimo:

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Priebke fosse stato rimandato a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che uomo sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali condoglianze o perdoni accetti o rifiuti di pronunciare. Riguarda lui. Forse riguarda i parenti delle vittime, ammesso che diano peso a ciò che lui dice o tace: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che uomo sia, ma che sia un uomo: un vecchio uomo innocuo e superfluo per chiunque, se non per la propria vecchia donna e per sé.»       

La vecchia donna, sua moglie, è nel frattempo mancata in quel di Bariloche, Argentina. Del suo video a spasso per Roma non mi ha colpito la sua fiera fragilità di vecchio, bensì la dedizione e l’amorevole cura della sua badante. Un’altra donna. Italiana? Ispanica (in fondo lei ha trascorso decenni in Sudamerica…)? Originaria dell’Europa dell’est come capita spesso? Chi lo sa e cosa importa. I malpensanti avranno buon gioco nell’immaginare questa signora avidamente attratta dai beni che le rimangono, e dal fatto di poter “alzare il prezzo” davanti ad un utente così fuori dal comune. A me, invece, piace pensarla come una donna che ha ben chiaro un concetto: un uomo rimane un uomo, molto prima della feccia delle sue idee e delle sue azioni. Una che gioca tra “i Buoni”, insomma, quelli di cui ho voluto parlarle in questa lettera. Me la saluti.

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To Be Continued

Anche se non c’è un doodle a ricordarcelo, il 24 marzo cade la giornata mondiale per la lotta alla tubercolosi. Sarei disonesto se vi dicessi che intendo sensibilizzarvi in tal senso. Ne so poco o nulla e, anzi, necessito di urgenti interventi di sensibilizzazione.

Da qualche anno, però, io il 24 marzo spero che piova e che sia domenica. Per 24 ore filate, quel giorno, quelli della Stazione di Topolò radunano il villaggio globale e offrono in streaming audio un ricchissimo menù di musiche, un variegatissimo banchetto con suoni da tutto il mondo. Per dire, mi sono connesso e la musica che mi ha accolto proveniva dalla Nuova Zelanda: un vero concerto con tastiere, altri ammennicoli tecnologici e – soprattutto – il suono che fa la festa di compleanno di una bambina di 5 anni.

Sono uscito cinque minuti per comprare i giornali e ora mi accoglie un bel tappeto sonoro tessuto a Città del Capo, Sudafrica. Un sottofondo di pioggia e il canto di quelli che direi sono pennuti di quelle parti. Alle 9.30 farò un salto in Giappone, dove immagino (adesso: 9.21) si staranno preparando. La Cina me la sono persa, peccato, avrei dovuto svegliarmi alle 4.00. Alle 12.00, per dire, gioca l’Italia con la pianista Alessandra Celletti.

Morale della favola, la mia, in soldoni. Da giorni ci sorbiamo le omelie di quelli che hanno capito il Web, che sanno usare la rete, che con i computer fanno la democrazia come ad Atene. Quelli che erano così connessi che manco si conoscevano. Quella rivoluzione lì, se esiste davvero, se ne sta racchiusa dentro queste 24 ore di arte e creatività dolcemente invadenti, meravigliosamente gratuite.

Mi fermo qui: prima vi connettete meglio è. Buon ascolto!

Cliccate su…

 

ToBe Continued

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La voglia di Wadjda

Ne sono convinto: si finisce di essere bambini quando si smette di volere, o quando si vuole a metà, o quando si vuole soltanto quello che vogliono altri.

Wadjda, dodicenne saudita, è viva e libera perché vuole, vuole tutto. Ha voluto le sue All Star che rompono la monotonia di quella sorta di tunica che è costretta a mettere a scuola. Quando la sgrideranno intimandole di indossare delle calzature nere come le altre ragazze, colorerà le sue scarpe da ginnastica col pennarello indelebile. E sarà fatta la sua volontà. Wadjda vuole essere amica di un maschio, e con lui vuole fare giochi da maschio. Quando il bambino si ripromette di sposarla, da grande, lei decide che vuole canzonarlo con uno sguardo e così fa. Wadjda vuole lo smalto blu elettrico sulle dita dei piedi e vuole partecipare a una “gara di Corano”. Vuole restare nel punto esatto dove non può restare soltanto perché sono arrivati degli uomini che potrebbero guardarla. Vuole essere guardata, Wadjda, e vuole ridere quando le fanno sapere che una donna con le mestruazioni non può sfogliare il libro sacro se non usa un fazzoletto per proteggerlo. Vuole che il suo nome sia scritto nell’albero genealogico del padre, rigorosamente declinato al maschile. Vuole e aggiorna quell’elenco di maschi con un foglietto e una forcina per capelli. Il genitore non vorrà e deciderà di estirpare il nome della figlia, ma quella sarà una volontà spuria da adulto, decisa da altri chissà dove e chissà quando.

Wadjda vuole soprattutto una bicicletta verde, e attorno a questo desiderio proibito ruota forse il più bel film che ho visto nel 2012, pochi istanti prima che il 2012 sgocciolasse via.   

 

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Non possiamo non dirci gay

Ancora su @Pontifex, mica sana sta cosa.

Sembra abbia detto:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

No, spetta, rileggo:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

No spetta, ingrandisco:

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Provo col grassetto.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Forse con un po’ di colore.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Poco? Vediamo così.

 

“I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalenti a forme radicalmente diverse di unione sono un’offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Chiedo a Google di mostrarmi la frase in un’altra lingua, più elastica, più moderna. Non sia mai ch’io mi sia sprovincializzato troppo.

 

“Attempts to make marriage between a man and a woman legally equivalent to radically different forms of union are an offense against the truth of the human person and a grave wound inflicted onto justice and peace”.

 

Mescolo un po’ le parole…

 

“I tentativi equivalenti di rendere il matrimonio radicalmente fra un uomo e una unione giuridicamente a forme diverse di donna sono un’offesa contro la ferita della persona umana e una verità grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

 

Lo stampatello maiuscolo non tradisce mai.

  

“I TENTATIVI DI RENDERE IL MATRIMONIO FRA UN UOMO E UNA DONNA GIURIDICAMENTE EQUIVALENTI A FORME RADICALMENTE DIVERSE DI UNIONE SONO UN’OFFESA CONTRO LA VERITA’ DELLA PERSONA UMANA E UNA FERITA GRAVE INFLITTA ALLA GIUSTIZIA E ALLA PACE”.

 

Cambiamo il punto di vista.

 

˙”ǝɔɐd ɐllɐ ǝ ɐızıʇsnıƃ ɐllɐ ɐʇʇılɟuı ǝʌɐɹƃ ɐʇıɹǝɟ ɐun ǝ ɐuɐɯn ɐuosɹǝd ɐllǝp àʇıɹǝʌ ɐl oɹʇuoɔ ɐsǝɟɟo,un ouos ǝuoıun ıp ǝsɹǝʌıp ǝʇuǝɯlɐɔıpɐɹ ǝɯɹoɟ ɐ ıʇuǝlɐʌınbǝ ǝʇuǝɯɐɔıpıɹnıƃ ɐuuop ɐun ǝ oɯon un ɐɹɟ oıuoɯıɹʇɐɯ lı ǝɹǝpuǝɹ ıp ıʌıʇɐʇuǝʇ ı”

 

Niente da fare. Mi sento in colpa, mi sogno migliore di così, mica mi basta essere migliore di @Pontifex…

Ma il mio cervello è inchiodato lì. Si è come inceppato. Non ragiona e continua a proiettare soltanto una vignetta di Andrea Pazienza. Schiaccio CTRL ALT CANC e non si sblocca. Non riesco a riavviarlo. AIUTO.

Mi arrendo: ragioneremo la prossima volta.

  

(Dove dovevano andare i Papi secondo Paz)

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Quando gli omofobi fanno oh…

Al netto della retorica.

Metti di possedere una cosa, grande ed appariscente. Cammini per strada ed incroci un gruppo di persone che scandiscono slogan in cui si sostiene che quella cosa, la tua cosa, non possa esistere, non faccia parte della natura, sia fuori dal mondo. A quel punto, se quella cosa guarda caso ce l’hai appresso, lì con te… A quel punto, con fare quasi didascalico, didattico, oserei dire scientifico… A quel punto, ecco, quella cosa la tiri fuori e gliela mostri.

Soprattutto se quella cosa è l’amore, soprattutto.

  

!!! Aggiornamento: bello scoprire, dopo aver scritto e postato, come non fosse poi l’amore, la cosa da mostrare… Era qualcosa di più: l’amore degli altri, dei miei fratelli con meno voce e meno diritti. Ancora meglio, via…

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Con una finestra aperta sulla morte

Le immagini di Francesco Mastrogiovanni mentre muore legato ad un letto d’ospedale non sono inedite. In passato le tv le hanno già mostrate e discusse. La novità di questa iniziativa dell’Espresso e dell’associazione “A buon diritto” (guidata da Luigi Manconi) sta nel proporle integralmente. Quattro giorni di streaming sul sito del settimanale, con un orologio gigante a scandire il tempo infinito di quell’orrore. Una scelta forte, un pugno nello stomaco, a suo modo un esperimento che ho prima di tutto testato su me stesso. Ieri ho lasciato quella pagina aperta, mentre scrivevo e lavoravo al pc. Ogni tanto buttavo un occhio, il tempo per rabbrividire di vergogna. Quello che ho pensato, al momento di spegnere tutto e andare a dormire, è che non dovrebbero servire le immagini. Una storia così dovrebbe pugnalarci anche se raccontata da un trafiletto minimo, anche se letta da un mezzobusto in un Tg della notte. Invece, e forse non basta ancora, abbiamo bisogno di quella dose da cavalli, e di entrare in un meccanismo mediatico che sembra un gioco. Seppur terribile, un gioco.

Piccola chiosa moralista, destinatari quelli dell’Espresso.

I dubbi sull’operazione mediatica li avete avuti pure voi, immagino. Sapevate che era un azzardo. Se servirà a qualcosa bisognerà dirvi grazie. Su quella pagina web, però, almeno su quella, per il tempo di quelle 82 ore, la finestra pop up che si apre sovrapponendosi a quel corpo nudo e abbandonato per pubblicizzare la nuova Audi A3, ecco, quella no.

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