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Insegnanti per la cittadinanza

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Il 7 settembre ho avuto l’onore di intervistare il maestro Franco Lorenzoni nel corso di un convegno di insegnanti. Negli ultimi anni, da quando mi sono interessato alla sua figura e alle sue idee, ho potuto notare che parlare di lui come “il Maestro”, da parte di un buon numero di docenti, non ha nulla di diverso dal modo in cui per mezzo secolo abbondante gli italiani si sono riferiti ad un uomo, ricco di rughe e molto altro, chiamandolo “L’Avvocato”. Con la differenza non irrilevante che Lorenzoni il maestro lo fa per davvero, da un sacco di anni, tanto che dopo un minuto di chiacchierata con lui hai già davanti agli occhi la faccia di quel tal bambino Lorenzo che non riesce a stare fermo (beato lui) e quell’arguta bimba marocchina che non ama la matematica. Dopo un minuto, forse anche meno.

Al termine della conversazione pubblica, riferendomi ad un’intervista in cui dichiarava di non essere stato molto bravo, a inizio carriera, nel calmare i bambini e nell’aver avuto successo piuttosto nella missione di agitarli, gli ho chiesto cortesemente di provare ad “agitare” la platea che gli sedeva davanti. Non aveva molte pretese, quella domanda. Confesso che mi sarebbe bastato, dopo avergli fatto toccare altri temi alti e spinosi, un riferimento scherzoso su quell’episodio biografico.

E invece no.

Probabilmente per agitare qualcuno è necessario prima agitarsi. E Lorenzoni si è agitato. Non riusciva a stare composto, si contorceva sulla sedia. Ha quindi detto di essere in difficoltà davanti a un particolare momento della vita scolastica, quello in cui lo Stato italiano gli chiede per legge sacrosanta di insegnare agli alunni la disciplina “Cittadinanza e Costituzione” e lui davanti ha sempre più spesso bambini nati in Italia che quella cittadinanza non la possono esercitare, in quanto stranieri. La lezione diventa a quel punto una sorta di ora di religione da cui gli studenti di altre confessioni non possono, meno ipocritamente, essere esentati. Una situazione assurda, come impartire lezioni di alta cucina a chi non possa per legge esercitare il mestiere di cuoco. Come insegnare il rinnovato piano per la mobilità di una grande città (metropolitana, piste ciclabili, zone pedonali) agli inquilini del suo carcere di massima sicurezza.

Il Maestro ha quindi accennato ad un appello che aveva in mente di scrivere e diffondere. Un appello rivolto agli insegnanti, quelli che ogni giorno misurano concretamente la necessità di un provvedimento come quello arenato presso il Senato della Repubblica.

QUI il testo dell’appello.

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Prendete gli iPhone ché vi detto i compiti (quando il dibattito sugli smartphone smette di essere smart)

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Prima ora, due ragazzine stanno lavorando attorno ad alcune fotografie d’autore. Sfogliano le pagine di un volume patinato, discutono, fanno alcune scelte, selezionano e scartano. Una si chiede se dietro quel nome straniero scritto in copertina si celi un fotografo maschio o una fotografa femmina. Il prof, che conosce quegli scatti a memoria, confessa di non saperlo, prende l’iPhone, googla e risponde: è un maschio. I capelli sono da femmina, però, chiosa l’alunna. Il mondo è complicato.

Terza ora, nei dintorni della grammatica. Tra soggetti di verbi attivi e passivi, complementi oggetto e di luogo, piove in classe un nome una coppia di nomi un po’ insolita: Diabolik e Eva Kant. Le idee sono confuse, qualcuno è convinto c’entrino con Wonder Woman, altri ne sanno tantissimo, così tanto che con loro nei panni di Ginko i due personaggi marcirebbero in galera. Il prof. è democratico, tutti devono sapere. IPhone, Google, Ok abbiamo capito.

Quarta ora, italiano. La ragazza ha letto un libro, quest’estate. Lo cita ma non le viene il titolo, soltanto qualcosa di somigliante, perciò si contorce insoddisfatta, mette a ferro e fuoco la punta della lingua ma niente da fare. Probabilmente un iPhone X interverrebbe anche da solo, quello presente in classe ha bisogno del suo padrone, ma in 10 secondi titolo e autore sono lì, belli e squadernati. Un altro ragazzino annota curioso, rigorosamente a mano. Leggerà anche lui, forse.

Il dibattito sullo smartphone in classe nasce già esausto. Pensosi editoriali mettono in guardia e annunciano più o meno prossime fini di mondo e elencano le competenze tecniche e umane che perderemo delegando alle infernali macchine.

Nella mia scuola media i telefonini sono da sempre proibiti. Quello che questa mattina ha in qualche modo sbloccato virtuosamente tre situazioni è il mio. Mi si dirà: i ragazzi avrebbero potuto tenersi il dubbio sul sesso del fotografo, avrebbero potuto rintracciare un’immagine di Diabolik nel corso del pomeriggio. Ok, ma perché? Se un giorno con un Pc mostro ai ragazzi un quadro esposto al Louvre, devo per caso censurarmi pensando che un domani potranno recarsi fisicamente nel museo parigino?

Alcuni commentatori chiamano in causa la scomparsa delle competenze calligrafiche e di mille altre imprescindibili abilità manuali. Ma sono davvero convinti che in una scuola che non demonizza i cellulari siano bandite altre forme di didattica? I ragazzi di questo post, nel corso della stessa mattinata di Diabolik e Eva, hanno redatto e corretto brutte copie, ricopiato in bella copia, impostato, realizzato e colorato infografiche, hanno discusso e verbalizzato il frutto del loro dibattito, hanno intrecciato spaghi, piantato chiodi e restaurato carte geografiche. Cosa si sarebbero persi se avessero googlato al posto mio?

Hanno presente, i paladini della scrittura non digitale, che se gli alunni italiani hanno nel corso degli anni almeno dimezzato la quantità (e di conseguenza la qualità) della loro scrittura è a causa del proliferare delle prove di verifica “a crocette”, nella rincorsa estasiata al mito originario della valutazione oggettiva (o della correzione rapida, secondo altre scuole)? Lo sanno che ci sono più parole e frasi in italiano in due chat del Samsung scassato di un ragazzino di prima media che in tutti i suoi quaderni delle elementari ricolmi di fotocopie appiccicate?

Oggi su “Repubblica” lo scrittore Marco Lodoli chiede sarcastico la fine dell’accanimento terapeutico nei confronti dei libri e scrive: “…lo smartphone riluce trionfante; il libro è un reperto, un coccio etrusco, un capitello scheggiato dai secoli…”. Ma quando mai i ragazzi hanno posto i due oggetti in una prospettiva di aut aut! Preferire il telefono è un conto, essere scemi un altro paio di maniche.

Un tempo da un dibattito così il buon insegnante di lettere avrebbe tratto la traccia di un tema da assegnare alla sua classe. Gli smartphone e il futuro della scuola, la cultura a un bivio, opportunità e rischi. Uno studente del 2017 consegnerebbe in fretta il suo foglio a righe.

“Svolgimento.

Prof, ma lo sa di cosa parla?”.

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