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Enrico e Matteo come Tina e Dominique

 

Voglio dimenticarmi per qualche istante di essere quel fine politologo che sono. Voglio mettere tra parentesi il mio lucido sguardo sulla situazione economica, le mie idee sul futuro del paese, financo il mio bagaglio pesantissimo di studi sulle dottrine politiche e sulle forme di governo.

Voglio ragionare con il candore di un bambino.

Voglio alzare il ditino e suggerire a Renzi & Letta, a Letta & Renzi, di trarre ispirazione da un fatto accaduto oggi alle Olimpiadi di Sochi.

E se la risolvessero così anche loro?

Facile, no?

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Non dirmi che hai paura

Preso da una strana euforia, l’8 agosto del 2008 ho pubblicato un post con un elenco di persone importanti, e mi ci sono infilato. In comune quegli umani avevano soltanto il fatto di trovarsi contemporaneamente nella stessa gigantesca città. L’8 agosto 2008 a Pechino cominciavano i giochi della XXIX Olimpiade. Ricordo le grandi manovre davanti a quello stadio pazzesco, a due giorni dal via. Ricordo i bambini cinesi che sbucavano dai vicoli per abbracciarti e augurarti il benvenuto in città. Ricordo la cerimonia d’apertura vista alla Tv cinese, accompagnata da un primitivo liveblogging. Ricordo tanto, è una mia caratteristica, ma non ricordo Samia. Eppure Samia c’era ed era bellissima, avvolta negli abiti tradizionali del suo paese, la Somalia, dentro una delegazione sparuta e spaurita. Da qualche giorno, da qualche ora, mangiava come mai aveva mangiato e come mai più avrebbe fatto, e dormiva per la prima volta su di un letto degno di quel nome.

La sua storia l’ho conosciuta per la prima volta nel 2012, in un pezzo della scrittrice Igiaba Sciego, ed ora – romanzata senza stravolgimenti – è finita nel libro di Giuseppe Catozzella. Si legge in un fiato, e il racconto di una vita finisce per somigliare al percorso dei 200 metri piani. Quei giorni a Beijing 2008 stanno sulla curva, prima del rettilineo delle lunghe falcate, prima di dare tutto.

C’eravamo io e George Bush, quel giorno a Pechino. Con noi c’erano Lula e Laure Manadou. C’era anche Putin, e lui ci sarà anche a Sochi, pensa un po’, venerdì. C’erano migliaia di atleti e c’era soprattutto Samia Yusuf Omar.

 

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Pronto, Yelena? Ti ricordi di me?

La campionessa russa Yelena Isinbayeva ha almeno in parte smentito le atroci dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi a sostegno della legislazione anti gay varata da Mosca. Mi sono esercitato ad immaginare le ragioni del suo dietrofront.

 

Magari è arrivata una telefonata dallo sponsor, timoroso di perdere una fettona di mercato.

 

Magari ha telefonato proprio Putin, dicendo lascia stare Yelena, non son cose per signore, lascia che me le sbrighi io, certe sporche faccende. Tu pensa a portare sempre più in alto il nome della Russia.

 

Magari ha telefonato Silvio, l’amico personale di Putin: “Consentimi di darti un consiglio, Yelenona, fai come faccio sempre io, smentisci tutto, dichiara di essere stata fraintesa… di’ che è tutto un misander… un misundestunting, com’è che dite, voi giramondo… ah, te l’ho raccontata la barzelletta quella dell’asta?”

 

Magari sono state le meravigliose, tante tantissime cacche (con la tastiera :poop: ) che da ventiquattrore hanno cominciato a depositare sulla pagina pubblica dell’atleta russa centinaia di utenti di Facebook. Uno sconfinato tappetone di merda su cui atterrare dopo un salto tutto storto.

 

Magari tutto è partito proprio da una telefonata. Inaspettata. Pronto, Yelena? Ciao, sono Ekaterina, ti ricordi di me? Sì, al liceo. Quella in ultima fila, con la lunga coda di cavallo. No, non eravamo amiche per la pelle, ma qualche bella risata insieme ce la siamo fatta. Eri così bella, non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Una volta ti ho anche scritto una lunga lettera, ma il coraggio di fartela leggere non sono proprio riuscita a trovarlo. No, non vivo più a Volgograd; adesso la mia casa è a Stoccolma. Ci vivo con Anna. Ci siamo conosciute a Londra, cinque anni fa, eravamo lì per lavoro… E tu? Dimmi di te… Ma no, dei salti so tutto… dimmi il resto… sei felice?

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Town of runners

A Bekoji gli abitanti aspettano che i cinesi portino a termine i lavori di costruzione della strada. Nel frattempo, si accontentano di quella che in sostanza è una pista di terra – rossa e infuocata sotto il sole cocente, marrone di fango nei giorni della pioggia. Le vie della città vedono sprofondare nelle pozzanghere i carretti trainati dagli asini, oppure scappare le galline inseguite dalla polvere nei giorni secchi del vento. Nel piccolo bazar un ragazzino orfano vende sigarette sfuse e caramelle. Davanti ai suoi occhi ad ogni ora del giorno mulinano decine di gambe svelte, passa il treno di quelli che corrono, scorre il futuro della Town of runners.

Bekoji, Etiopia. Città senza strada, raggiunta a fatica da una piccola corriera stipata di corpi e bagagli e colori. Bekoji, fucina di medaglie olimpiche: 8 ori in una quindicina d’anni. È come se a Wimbledon avessero vinto per 8 volte e in poco tempo tennisti di Bergamo. Di una Bergamo minuscola e senza vie di comunicazione, però. Un assurdo statistico.

Nella Town of runners non esiste una pista di atletica. C’è solo un circuito scavato in una collina, che ogni anno ragazzi e ragazze risistemano sradicando zolle d’erba a mani nude. Arrivassero i cinesi con la strada d’asfalto, pensano, almeno potremmo chiedere loro in prestito gli attrezzi giusti, ed evitarci la faticaccia di inizio stagione. Però intanto ridono, nelle loro coloratissime tute da ginnastica con le ginocchia bucate. Alcuni indossano scarpe, altri corrono scalzi. I 1500 metri in cui competono sono misurati a spanne, sulla pista le corsie vengono tracciate con il gesso, soltanto la campana dell’ultimo giro non ha nulla da invidiare a quella delle Olimpiadi.

Tra i giovani che si allenano, dopo aver aiutato le famiglie nei campi, agli ordini di un maestro e allenatore dai modi bruschi ma paterni, spiccano Hawii e Alemii, due ragazzine molto promettenti. Allegre e spiritose, sulla linea di partenza si trasformano, fanno la faccia seria e il segno della croce, poi il vuoto.

I genitori di Alemii non hanno mai visto correre la figlia. La loro vita finisce a sera davanti al piatto di grano abbrustolito e diviso meticolosamente tra la numerosa prole. Non sanno cosa racchiudano i quaderni che la giovane runner sfoglia quando non si allena e non lavora, importanti per prepararsi ad un futuro di viaggi, per cavarsela anche fuori dall’ovale dell’atletica leggera. L’allenatore spiega alla madre, giovanissima vecchia, che Alemii potrà rendere onore alla città e all’intera patria, proprio come ha fatto Tirunesh, nata a Bekoji nel 1985. “Ah, la figlia dei Dibaba”. È estraneo a quella donna lo splendore delle medaglie d’oro, ma brilla il ricordo di un’altra madre, una persona per bene, di grande onestà.

Hawii e Alemii lasceranno Bekoji. Le vere società sportive hanno sede in città più grandi, consegnano ai loro membri tute di un unico colore e se va bene un pasto al giorno. Spesso i soldi scarseggiano, lo stato punta sui giovani runners ma la corruzione dilaga e la disorganizzazione la fa da padrona. Poche e pochi ce la faranno davvero, avranno testa oltre che gambe, solcheranno con le loro falcate la gomma e le resine poliuretaniche, negli stadi delle grandi capitali dell’atletica.

Era una storia che mi mancava, questa, e mi ero ripromesso di scovarla. Non è stato facile. Ho dovuto farmi spedire un dvd da oltremanica, sull’onda dei Giochi appena conclusi. Il documentario finisce con l’arrivo dei cinesi. Con loro il nero dell’asfalto, nuovi negozi e un’antenna per i cellulari, oggetti che ancora nessuno a Bekoji possiede.

Possiedono solo sogni, a Bekoji, e questa storia.

 

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Il badminton spiegato a Gramellini

«E quelle che prendono a racchettate un volano come bambini sulla spiaggia. Perché il volano sì e il calciobalilla no? E il flipper? E il vecchio caro ruba-bandiera?».

Massimo Gramellini, il Buongiorno, 10 agosto 2012

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Gramellini, vieni con me. Sì, è lontano, lo so. Fa pure caldo, ma giuro: facciamo presto. Ecco, siamo arrivati. No, non guardare in su. Lo so che quel grattacielo sembra non finire mai e conficcarsi direttamente nelle nuvole, ma non siamo qui per quello. Giriamoci attorno, al bestione di vetro, cemento e acciaio. Proprio qui, ecco, dove quasi nascosti brulicano di vite questi palazzoni metropolitani. Veri e propri formicai, con migliaia di magliette colorate a stendere e le biciclette a riposo sui terrazzi. No, non fare quella faccia, non è un postaccio come sembra. C’è un sacco di vita. Guarda laggiù, c’è qualcuno che frigge spiedini sul marciapiedi. Quasi tutti si fanno aria con il ventaglio mentre ciabattano nei cortili. Ci sono anche gli anziani, quelli che non osano affrontare lo stradone grande, quello del grattacielo; ci sono pezzi di città a cui hanno rinunciato: troppe auto, troppa fretta, e i riflessi non son più quelli di una volta. Ma lo senti quel rumore, Gramellini? No? Allora sbircia laggiù. Sì, esatto: volani. Volani e racchette. Tanti? Sicuro, guarda da quella parte, altre 4 coppie di atleti. Li chiamo “atleti”, sì, anche se quel signore avrà 70 anni e sua moglie è molto distante dal peso forma. Però hai notato lo stile? I passetti all’indietro, la rotazione del braccio. Immagina una massaia di Voghera fare 10 palleggi con un pallone da calcio; fidati, il paragone ci sta. E quella coppia, saranno due giovani fidanzati o saranno fratello e sorella? A Gramelli’, dico a te, non facevi “la posta del cuore” sui giornali, una volta?

Ovvio che ci sono anche i bambini: quello laggiù gioca col nonno, quei due invece sembra che si stiano sfidando all’ultimo sangue. E la bimba: ha i capelli tagliati come Xie Xingfang, una star del badminton cinese, la moglie del campionissimo Lin Dan… Sì, bravo, i Pellegrini-Magnini del Celeste Impero. Ottima sintesi da giornalista paludato. Insomma, volani a destra e sinistra, mentre fa buio e la scarsa illuminazione decisamente non aiuta i giocatori. Né noi che li spiamo. Ma li senti come ridono e se la spassano, Gramellini? Prova ad ascoltarli tutti, adesso. TUTTI. Perché in tutta l’Asia, mica solo qui a Pechino, sono milioni. Centinaia di volte il numero di quelli che ogni giorno, sulla terra, salgono su una pedana per praticare la scherma, lo sport che fa battere forte il tuo italico cuore.

Ecco perché ci sono anche loro alle Olimpiadi. Ma occorreva venire fin qui? Dai, raccogli quella racchetta che facciam due tiri. Col volano, sì, con cosa se no? Cosa vuol dire non son capace. Io invece mi chiamo Lin Dan, vero?

Sì, Gramellini, ridono. Di noi. Bonariamente, ma ci stanno sfottendo. Siamo ridicoli, come due bambinoni sulla spiaggia.  

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Solo FORZA PURA, nessuna FORZATURA

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Il giornale su cui scrive Aldo Cazzullo è lo stesso su cui scriveva Pier Paolo Pasolini. Uno che amava le posizioni scomode, uno che capovolgeva i punti di vista. Facile dire oggi quanto vedesse lontano, quanto le sue parole fossero profetiche. A quelli che c’erano già, probabilmente gli editoriali del poeta facevano venire la gastrite, o dei gran giramenti di balle.

Aldo Cazzullo, turbato forse dagli eccessi retorici di qualche collega, ha detto la sua sulla partecipazione di Oscar Pistorius alle Olimpiadi londinesi provando a pasolineggiare. Risultando decisamente più cinico che profetico.

Già dall’incipit è evidentemente “in posa”.

«Vi è parso che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi fosse una bella storia innestata su una forzatura? Non siete gli unici. Sono d’accordo con voi».

Sa di mentire, il giornalista. Sa che l’opinione pubblica – più o meno a conoscenza della vicenda sportiva dell’atleta sudafricano – non ha affatto maldigerito quella presenza sulla pista, sa che certi dubbi da tempo non li solleva più nessuno e che forse può convenire a lui, risollevarli, sul giornale della domenica.

Fin qui tutto lecito, è compito della stampa pungolare i lettori e non grattar loro sempre e puntualmente il pancino. Sono le argomentazioni messe in campo nelle righe successive, a rendere pessimo il pezzo di Cazzullo.

Sulle questioni “tecniche”, sulle presunte distorisioni ai regolamenti di gara che la partecipazione di Pistorius provocherebbe, ha fatto per l’ennesima volta chiarezza Claudio Arrigoni

Ma c’è dell’altro: l’inviato del “Corriere” sente puzza di marketing. Pistorius ha degli sponsor che in questi giorni più del solito lucrano sulla vicenda umana del quattrocentista. Buongiorno Cazzullo! Benvenuto sul pianeta terra. Il giornalista pochi giorni fa ha elogiato con enfasi (e a ragione!) le gesta di Velentina Vezzali; se tuttavia applicasse lo stesso arido cinismo al caso della schermitrice jesina, giungerebbe alla conclusione che la nascita del celebrerrimo piccolo Pietro, 7 anni fa, fosse finalizzata alla creazione del mito dell’atleta-mamma, funzionale all’immagine della barretta ai cereali, leggera e nutriente, del marchio Kinder. A noi piccoli pasolini non la si fa. Sia dunque vietato agli atleti disabili di firmare contratti di sponsorizzazione (vade retro, Satana!) con chicchesia, e già che ci siamo alle madri spadaccine di figliare.

Sfugge inoltre a Cazzullo, il messaggio che Pistorius lancia quotidianamente al mondo dei disabili (sommati “la terza nazione del mondo”, per citare la suggestiva metafora di un bel libro), e invita tutti a guardare piuttosto all’esempio del ministro tedesco Schaeuble. Il giorno che un ministro dell’economia disabile si affaccerà sulla scena politica italiana, tuttavia, Cazzullo-Pasolini ci dirà che stiamo cedendo a qualche misteriosa forzatura.

Il perché secondo me Oscar Pistorius avesse diritto di partecipare alle Olimpiadi l’ho scritto 4 anni fa, alla vigilia di Pechino 2008. Non ho cambiato idea.

Come segnala Arrigoni, sulle pagine dei social network con cui l’atleta sudafricano comunica con i suoi tanti fan e follower non campeggiano soltanto i baffetti dello sponsor e nemmeno i suoi slogan ammiccanti. (Altra furbata di Cazzullo: “nothing is impossible”, usato nel suo articolo, non appartiene alla Nike di Pistorius, bensì, come sanno i ragazzini, all’Adidas. Ma all’autore serviva la parola “impossible”, e quindi l’unica soluzione era imbrogliare, operare – lui sì – una piccola forzatura: Just do it).

C’è una foto. Che la dice lunga. Lunghissima.

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Once upon a time, Tirunesh Dibaba

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Tirunesh Dibaba sta sul palmo di una mano.

Il problema, dopo averla raccolta, sulla linea del traguardo, è che ricomincerebbe a correre, risalendo l’avanbraccio e il braccio come fossero altipiani.

Tirunesh Dibaba quello fa, corre. Anche dopo aver trionfato, abbraccia qualche collega – senza trasporto,  di corsa – riceve una bandiera dell’Etiopia e ricomincia a mulinare le gambe. Il volto è impassibile, sta volando sulla prima corsia, ma l’espressione è quella di una bambola antica appoggiata sopra un letto.

Tirunesh ieri sera ha fatto qualcosa di straordinario, ma non se l’è filata nessuno. Solo qualche lancio d’agenzia. Nessuno che raccolga la sua storia. La poesia l’ho vista solo io e confesso di sentirmi solo.

Tirunesh Dibaba forse non esiste, forse è una fata che compare solo a me, come in un sogno, tra uno scampanìo da ultimo giro di pista e un “c’era una volta” con la voce di Franco Bragagna. 

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Wallenberg medaglia d’oro

Ci sono medaglie che arrivano subito, il tempo di indossare una tuta, detergere il sudore, darsi una sistemata ai capelli e approssimarsi al podio. Così presto che spesso gli atleti dichiarano: “sono andato a dormire con la medaglia, e solo il giorno dopo mi sono reso conto di avere vinto”.

Ci sono medaglie che arrivano con quasi 70 anni di ritardo. Così tardi che i premiati non possono più chinare il collo, stringere i fiori nel pugno, storcere il naso per le lacrime che spingono come piene di fiume.

Ci sono le medaglie olimpiche e in uno strano cortocircuito lessical-metaforico, nel luglio di London 2012, ci sono le medaglie al valore e alla memotia come quella che gli Usa, dopo la firma apposta da Obama, hanno deciso di dedicare a Raoul Wallenberg nel centenario della nascita.

Wallenberg, svedese, campione mondiale di filantropia, salvò dallo sterminio 100.000 ebrei ungheresi. Le enciclopedie arrotondano, va da sé, e “centomila” è il risultato di un arrotondamento che quasi banalizza il significato di un record difficilmente eguagliabile.

Si perderà in questi giorni la notizia, tra i tanti titoli dei giornali piovuti direttamente dalle piste, dai campi, dalle pedane, dai tatami. “Oro per Wallenberg” e chi lo conosce? Sarà un arciere svedese, al massimo un pesista danese, peccato per gli italiani…

Strano, ripeto, il cortocircuito. Tuttavia, portandolo alle estreme conseguenze, si può forse immaginare “quell’uomo dall’aspetto serio e ordinato, la riga di lato e un po’ di riporto: una fisionomia difficile da trasferire nel bronzo delle statue”* salire il gradino più alto di un podio speciale.

La tuta gialla e blu della Svezia e gli occhi ad ammirare i bei colori delle bandiere degli avversari, ché i filantropi son fatti inguaribilmente così.

 

*: qui da noi un ricco racconto dell’avventurosa vita di Wallenberg l’ha fatto pochi mesi fa Adriano Sofri, nell’inserto domenicale di “Repubblica”. 

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