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Ragazze davvero pronte alla vita

 

Non era male, l’idea di esser “pronti alla vita”. Ci si poteva quasi credere. Poi basta mezzo pomeriggio di strade milanesi in fiamme con il più prevedibile dibattito che ne potesse sorgere (infiltrazioni, manganelli, Alfano, figlidipapà, Genova, la Diaz, Bolzaneto, i cappucci, i servizidordine, Fedez, i tatuaggidiFedez, gli errori di grammatica di Fedez, arrestiamolitutti, arrestiamoFedez, il manifestante intervistato a TGcom24 che voleva fare “bordello”, la mamma di Baltimora, la mamma di Fedez, la mamma di quello che voleva fare bordello ma qualcuno ci pensa a quella povera mamma?, gli hashtag di Severgnini, le ragioni della protesta, la tipa in posa davanti alla macchina bruciata, quelli che “erano solo 500”, …) e tutto si ridimensiona, a cominciare proprio dai i sogni.

Non siam per niente pronti. Alla vita, s’intende.

Non è detto che non lo sia qualcun altro, però.

Come ad esempio le Skate Girls of Kabul fotografate da Jessica Fulford-Dobson, che con i loro colori sono riuscite a strapparmi dal nero dei cappucci e dal grigio delle parole, le nostre parole, in questo strambo primomaggio.

Nessun riassunto, ché si capisce tutto al volo. Quei visi sono più che sufficienti.

La prontezza alla vita, insomma, spiegata bene bene.

Per quando magari decidiamo di riprovarci.

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Il mondo salvato (?) dai ragazzini

Abbiamo rischiato di avere un Ministro degli Esteri trentenne.

Peccato, avrei corso volentieri il rischio.

E pure donna, il cerchio del rischio era infuocato.

Nel pomeriggio dei lunghi manganelli ho immaginato un capo delle forze dell’ordine – unificate, con un occhio alla spending – con le medesime caratteristiche: fresco di laurea, con lo smalto sulle unghie.

Anche Paolo Gentiloni dovrà occuparsi di unghie smaltate, quelle che gridano vendetta dentro i dossier dall’Iran.

Nei giorni scorsi girava per Twitter, rimbalzando da un inviato speciale canadese a un politologo statunitense, da un’osservatorio sull’Asia ad un filosofo australiano, una carta tematica sull’età media della popolazione in Africa.

Solo la Tunisia si colloca appena sopra i 30 anni, comunque 14 meno dell’Italia.

In Niger, per dire, la media è 15. In Burkina Faso 17.

Siamo davanti ad un mondo ragazzino, un affare complicato per ministri al massimo trentenni.

Manca una foto, a corredo di questa disamina geopolitica (inutile, in quanto proveniente da un vecchio di quasi quarant’anni).

Eccola, è di oggi, massimo di ieri. Ritrae un giovane burchinabè dentro il suo paese in rivolta.

Chissà se l’ha vista anche il nuovo titolare della Farnesina…

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La foto

Finché un giorno a Scuolamagia si catapultò un fotografo. Arrivò di notte, con un’auto astronave che non ostentava ricchezza, no, ma raccontava l’esigenza di raggiungere le cose in fretta e immortalarle, prima che svaniscano. Certe foto non aspettano, sembrava dirti quell’Audi parcheggiata davanti all’albergo. Io il fotografo l’ho incontrato in quella mattina di novembre mentre il campanile non aveva ancora battuto le sette. Un paio d’ore di sonno a quel professionista erano parse sufficienti, e si trattava di trovare il set giusto. Una minuscola scuola di montagna non la puoi mica fotografare all’interno, con il planisfero sulla parete, con la lavagna sullo sfondo. Ci siamo quindi ritrovati nei prati del paese, e io temevo ad ogni passo di aver invaso qualche proprietà privata. Lui, al contrario, era per mestiere incline a pensare che tutto appartenesse per diritto naturale alla sua macchina fotografica. Difficile spiegarlo a certi cani da guardia, però, mi diceva col sorriso sciorinando un’aneddotica da Indiana Jones.

Era entusiasta per la luce di quel giorno che stava nascendo. Una luce rarissima, lo confermavano anche gli specifici strumenti di misurazione, una luce da sfruttare il prima possibile. Poche ore più tardi, alle nove e mezza, per il fotografo sarebbe accaduto qualcosa di simile ad un dito che pigia su un interruttore. Una luce per tutti normale e benvenuta sarebbe stata per lui come un buio paralizzante, e addio foto di copertina. Bisognava fare presto e ingabbiare quel prodigio d’alta montagna.

Taccio i preparativi di quell’unico scatto, con i banchi e gli zaini e la lavagna portati a fatica nel prato indorato dall’autunno, sotto gli occhi dei boschi e delle vette. So di aver pensato che davanti agli alunni immortalati stava andando in scena una lezione unica e bellissima. Un lavoro, una passione, un’arte si mostravano ai loro occhi perfettamente fusi, compenetrati. Ed il livello dei tre ingredienti era altissimo. E quando ci sarebbe ricapitato!

L’uomo che aveva fotografato Capaci dall’alto a poche ore dalla strage ci diceva di sorridere, di guardare a sinistra piuttosto che in basso. Era simpatico, e sembravamo comunque interessargli, vai tu a capire il perché. Pochi anni dopo spezzava il cuore l’infinita fila di bare, a L’Aquila, in un’altra fotografia aerea, sulla prima pagina del “Corriere”, il giorno dopo i funerali. Rendeva davvero inutili le cronache e gli editoriali.

Scrivo oggi queste righe dopo essermi imbattuto casualmente in quest’enormità.

 

Sest

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