Imago, Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

La foto

Finché un giorno a Scuolamagia si catapultò un fotografo. Arrivò di notte, con un’auto astronave che non ostentava ricchezza, no, ma raccontava l’esigenza di raggiungere le cose in fretta e immortalarle, prima che svaniscano. Certe foto non aspettano, sembrava dirti quell’Audi parcheggiata davanti all’albergo. Io il fotografo l’ho incontrato in quella mattina di novembre mentre il campanile non aveva ancora battuto le sette. Un paio d’ore di sonno a quel professionista erano parse sufficienti, e si trattava di trovare il set giusto. Una minuscola scuola di montagna non la puoi mica fotografare all’interno, con il planisfero sulla parete, con la lavagna sullo sfondo. Ci siamo quindi ritrovati nei prati del paese, e io temevo ad ogni passo di aver invaso qualche proprietà privata. Lui, al contrario, era per mestiere incline a pensare che tutto appartenesse per diritto naturale alla sua macchina fotografica. Difficile spiegarlo a certi cani da guardia, però, mi diceva col sorriso sciorinando un’aneddotica da Indiana Jones.

Era entusiasta per la luce di quel giorno che stava nascendo. Una luce rarissima, lo confermavano anche gli specifici strumenti di misurazione, una luce da sfruttare il prima possibile. Poche ore più tardi, alle nove e mezza, per il fotografo sarebbe accaduto qualcosa di simile ad un dito che pigia su un interruttore. Una luce per tutti normale e benvenuta sarebbe stata per lui come un buio paralizzante, e addio foto di copertina. Bisognava fare presto e ingabbiare quel prodigio d’alta montagna.

Taccio i preparativi di quell’unico scatto, con i banchi e gli zaini e la lavagna portati a fatica nel prato indorato dall’autunno, sotto gli occhi dei boschi e delle vette. So di aver pensato che davanti agli alunni immortalati stava andando in scena una lezione unica e bellissima. Un lavoro, una passione, un’arte si mostravano ai loro occhi perfettamente fusi, compenetrati. Ed il livello dei tre ingredienti era altissimo. E quando ci sarebbe ricapitato!

L’uomo che aveva fotografato Capaci dall’alto a poche ore dalla strage ci diceva di sorridere, di guardare a sinistra piuttosto che in basso. Era simpatico, e sembravamo comunque interessargli, vai tu a capire il perché. Pochi anni dopo spezzava il cuore l’infinita fila di bare, a L’Aquila, in un’altra fotografia aerea, sulla prima pagina del “Corriere”, il giorno dopo i funerali. Rendeva davvero inutili le cronache e gli editoriali.

Scrivo oggi queste righe dopo essermi imbattuto casualmente in quest’enormità.

 

Sest

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