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Forza Gabriele Del Grande, viva i suoi libri!

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C’è una cosa che possiamo fare davvero, e tutti, e subito, per Gabriele Del Grande.

Leggerlo.

Non è il momento per le polemiche, anche se fa impressione vederlo definito “documentarista” e blogger dalle testate che avrebbero dovuto contendersi il suo sguardo e la sua firma, negli anni in cui era palesemente il più attento e il più informato sul grande tema che avrebbe finito per sommergerci.

Non dev’essere un tipo che si perde d’animo, Gabriele, e nonostante le porte sbattute in faccia ha saputo tentare nuove strade e nuovi viaggi, per capire e raccontare ancora, in altre forme.

Non dev’essere nemmeno il tipo che si accanisce con i “ve l’avevo detto”, nonostante sia accaduto puntualmente tutto quello che già dieci anni fa lui andava scrivendo mentre navigava attorno ai muri della Fortress Europe, già assediata di assediati.

Ora si tratta di stargli accanto, si tratta di pronunciare e scrivere il suo nome. Vanno bene gli hashtag, gli #iostocongabriele (proprio come lui ci aveva insegnato a “stare con la Sposa”). Va bene tutto, ma va bene anche leggerlo.

I suoi libri si trovano ancora, gli scaffali online dicon “disponibilità immediata”.

Cosa aspettiamo a svuotarli?

Mamadou va a morire e Il mare di mezzo sono due fonti di inestimabile valore. Non saranno aggiornati sugli ultimissimi eventi, ma fanno luce su un fenomeno che – ahinoi – è rimasto lo stesso e scavano nei suoi tragici dettagli. Fanno di più: indagano il lessico delle migrazioni, componendone un utile glossario. Sono costruiti su testimonianze raccolte sul campo, sanno di deserto e mare, di prigione e di stiva.

Forza Gabriele Del Grande.

Ma anche: viva il suo lavoro!

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6 ragioni abbastanza originali per votare Sì il 4 dicembre

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Domenica 4 dicembre voterò convintamente “sì”.

Nel corso di questa estenuante campagna elettorale non ho mai cambiato idea, ma ho cercato di mettere in crisi il più possibile la mia posizione. Ho letto i libri di Zagrebelsky, di Onida e di Pertici: tutti e tre paladini del No. Mentana, Gruber, Floris, Semprini, Berlinguer, Vespa: ho dato. Quando ho cominciato ad addormentarmi nonostante gli ospiti dei dibattiti stessero litigando furiosamente, ho capito che ne sapevo abbastanza.

Credo che le differenti posizioni emerse in questi mesi siano tutte più o meno rispettabili: c’è chi ritiene salvifica la riforma costituzionale e chi la reputa una sciagura; tra gli equidistanti c’è chi ritiene brutta la Carta vigente e pessima quella che potrebbe nascere, ma c’è anche chi giudica ininfluenti per i destini dell’Italia entrambe le versioni, la vecchia e la nuova, perché i problemi starebbero altrove.

Quelle che seguono sono pertanto alcune considerazioni a margine, che tentano fondamentalmente di non ripetere troppo il già detto. Si tratta di pensieri che non fanno finta si tratti soltanto di faccende costituzionali, ma hanno ben chiaro come oggetto del contendere – tutto politico – siano pure l’alba del 5 dicembre e gli anni che ci aspettano.

Pensiero numero uno: la metafora della foresta

Ogni fautore del No ha sventolato i suoi spauracchi. Onida e Zagrebelsky non temono affatto gli stessi effetti nefasti derivanti dalla nuova Costituzione. Entrambi non sembrano dare tutto questo peso all’immunità parlamentare dei Senatori additata invece dal manettaro Travaglio. Alcuni invitano a considerare i rischi del combinato disposto, altri ne fanno una questione di forma (il nuovo testo sarebbe scritto in fretta e male). C’è chi vede derive autoritarie e chi premette con forza che derive autoritarie all’orizzonte non ce ne sono.

Se mi dicono che una buia foresta nordica è pericolosa, io mi spavento e arresto i miei passi. Qualcuno mi dice che è un ambiente gelido. Qualcun altro accenna a belve feroci pronte a sbranarmi. Un terzo consigliere non sa nulla di bestie e mi mette in guardia da certe bacche velenose. Arriva un tizio che mi sconsiglia di avventurarmi perché è in arrivo una tempesta, ma in compenso non ha notizia di frutti mortiferi. Insomma, continuo a considerare quel luogo un inferno oppure provo a proseguire con le precauzioni del caso contro gelo, animali, bacche, gocce di pioggia e altre cose che capitano normalmente nelle foreste?

Pensiero numero due: Maria Elena Boschi

Ormai ne ho fatto una ragione di approfondimento quotidiano, di studio, di analisi. Una piccola ossessione. Io devo capire perché la Ministra delle Riforme sarebbe inadeguata a ricoprire quel ruolo. Inadeguata, anche se quelli più tosti preferiscono “unfit”. Da subito, hanno cominciato a dirlo. Niente a che vedere con questa legge di riforma che ha preso il nome della giovane esponente del Pd: fior di Costituzionalisti  criticano aspramente la nuova Costituzione, ma molti loro colleghi altrettanto titolati la promuovono a pieni voti. Uno dei ritornelli più cantati in questa campagna elettorale è stato l’evergreen “entrare nel merito”. E io, nel merito fino al collo, non ho trovato uno straccetto di prova per l’inadeguatezza presunta della Ministra. Uno strafalcione, un qui pro quo, un capire fischi per fiaschi: nulla, zero pezze d’appoggio per la tesi “Boschi-unfit”, ma il paese sembra unanime: quella donna siede sulla poltrona sbagliata. In un paese (anche) di femministe agguerrite, la Boschi può diventare “la fatina delle riforme” senza che si levi una voce critica. Zero, inadeguata e priva di esperienza, punto. In un paese che in quel ruolo ha visto operare un dentista che se vede un’africana pensa subito (e solo) alle banane.

Posso immaginare un coro di voci pronte a smentirmi: c’è la frase sui Partigiani (che poi basta guardare il video…), c’è la Banca Etruria… Nulla che abbia qualcosa a che vedere con le competenze in materia di riforme, quelle che fin da subito han fatto dire ad una (ahimè) maggioranza di italiani che Maria Elena Boschi non era all’altezza.

Ecco, l’improbabile vittoria del Sì avrebbe di buono la sconfitta di un pregiudizio come quello.

Pensiero numero tre: la scuola

L’anno scolastico 2006-2007 si aprì con un annuncio dell’allora Ministro Fioroni (esponente della Margherita, oggi Pd), ai tempi del secondo governo Prodi. “Sarà un ministero-ponte, e io sarò un ministro-ponte”. Come a dire: “mi han messo qui e so che sarà per poco. Sappiate che non intendo rompervi le scatole”. Non accadde nulla e durò quel battito di ciglia, e nessuno nel mondo della scuola ha un ricordo cattivo di quell’esperienza. Nessuno ha nemmeno un ricordo qualsiasi, però. In buona sostanza, fu il contrario del renzismo furibondo e sgraziato applicato alla scuola. Dal 2014 più di centomila assunzioni, una gran bella botta al precariato storico (quella auspicata da tutti), un’iniezione di denari come non accadeva da decenni. Parole d’ordine roboanti, confusione ma anche idee e non solo idee confuse. Bandi sull’innovazione e bandi sull’inclusione. Una comunicazione sbagliata, un po’ di supponenza, chi lo può negare, ma soprattutto soldi, soldi, soldi. Piovuti sopra la scuola italiana che li chiedeva senza risposte da tanto, troppo tempo.

Vincerà il no e tornerà un ministro-ponte. Sarà comunque meglio di un Ministro dell’Istruzione grillino (ve lo immaginate?), che arriverà comunque a breve. Sarà quello dopo.

Pensiero numero quattro: la laicità

Il Governo di cui ci stiamo per liberare è il più laico della storia repubblicana. Vi viene da ridere, vero? Forse è perché non ci avete mai pensato. Il merito va equamente diviso con il Papato meno ingombrante e intrusivo per la vita civile della nazione, lo so. Ma tant’è. Le unioni civili sono lì a testimoniare questa verità: il “cattolico adulto” Prodi, con i suoi governi molto rimpianti, è riuscito solamente a dare un sacco di nomi – pure brutti – ad un diritto sacrosanto. La sinistra che più sinistra non si può ha definito la Cirinnà una legge che discrimina. Ottimo, intanto mille coppie di omosessuali si sono potute unire civilmente e la lingua italiana, libera dal capestro di commi e codicilli, ha fatto il resto: viva gli sposi!

Pensiero numero cinque: i migranti

Poche le critiche all’operato dell’esecutivo in materia di accoglienza. Il problema è enorme: imprevedibili e inquietanti sono i suoi sviluppi. Le istituzioni centrali, tuttavia, hanno gestito l’emergenza e in alcuni casi si sono distinte per slanci umanitari non certo scontati (…lo stesso non si può dire di moltissimi comuni). Abbiamo soccorso i vivi e anche recuperato i cadaveri dei morti. Di tanti morti. Era scontato? No, non lo era. Vent’anni fa, in epoca pre-crisi (i recuperi in mare aperto costano), il primo governo Prodi lasciò sul fondo del Mediterraneo i fantasmi di Portopalo, nonostante l’accorato appello di tutti i nostri premi Nobel.

Immaginate, quando ai comandi ci sarà un governo leghista o quando sul recupero di una nave di disperati si pronuncerà il web.

Pensiero numero sei: la lista

Mi sono allontanato dalla carta costituzionale da modificare o non modificare. Ci torno per l’ultima considerazione. Gira in rete quel meme, quella foto che campeggia sulla bacheca di un italiano su due. Ci son due colonne, il gioco è semplice: da una parte i Costituenti del ’46, dall’altra la banda di Matteo Renzi. Calamandrei contro Boschi, Croce contro Del Rio, Di Vittorio contro Scalfarotto, La Pira contro il Ministro Martina. Sfida impari, no? Volete mettere? Qualcuno ha risposto alla provocazione invitando ad immaginare una nuova colonna inserita a sinistra, dove iscrivere i nomi di Mazzini, Garibaldi, Cavour, ecc. Ci sarà sempre qualcuno di più grande e autorevole, qualcuno che sarà per forza venuto prima. Io provo invece ad immaginare una colonna inserita a destra, con i nomi tutti nuovi da inserire a partire da lunedì 5 dicembre 2016. Sono sicuro che molti di voi la stileranno in un lampo, con ottimismo. Io c’ho provato, mi sono intristito e ho cominciato a scrivere questo post.

 

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Nessuno tocchi Caino, e neanche Doina…

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Prendo un pugnetto di righe di Adriano Sofri a cui sono  molto affezionato, scritte pensando a Erich Priebke. Mi permetto di sostituire alcune parole, e al posto del vecchio nazista ci metto la trentenne Doina Matei. Il discorso fila lo stesso, limpido, con il surplus di pietà che una ex prostituta di trent’anni, madre a 14, carcerata da 9, merita rispetto a un vecchio camerata coerente fino all’ultimo con il suo passato di carnefice.

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Doina Matei fosse stata rimandata a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che donna sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali selfie posti o non posti su Facebook, di quali sorrisi si renda protagonista.  Riguardano lei. Forse riguardano i parenti della vittime, ammesso che diano peso a ciò che lei dice o tace, o fotografi: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che donna sia, ma che sia una donna.»

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La donna con il foulard giallo

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Vagavo smarrito nell’ala semideserta di centro commerciale semivuoto.

Attendevo il mio turno al bancone dei cellulari. La mia transazione sarebbe stata rapida, immediata, ma prima di me una signora logorroica chiedeva lumi su un nuovo modello di smartphone. Così, mi aggiravo tra gli scaffali consapevole che nessuno, almeno a quell’ora del pomeriggio, mi avrebbe scalzato nell’ordine gerarchico dei clienti.

All’improvviso mi sono ritrovato nell’angolo dedicato alle Tv, nonostante non mi servisse nessuna Tv. 50, 60 schermi accesi, grandi e piccoli, più o meno luminosi, più o meno costosi, più o meno in offerta, alcuni addirittura curvi, devono essere l’ultimo ritrovato di quel settore. Mi sono sempre chiesto cosa orienti la scelta dei titolari o dei commessi, in luoghi come quello. Ho spesso notato come oltre allo scontato calcio, vadano forte le partite di tennis proiettate in simultanea. I campi sono coloratissimi ed essenziali, geometrici; tennisti e tenniste capita siano ragazzi e ragazze avvenenti. Notevoli anche gli effetti di una moltiplicazione di surf a sfidare altissime onde, dei sorpassi al ralenty tra due moto, di una cucciolata di tigrotti.

Oggi pomeriggio, niente di tutto ciò

Mi ha sorpreso prima di tutto un colore. Quel giallo caldissimo moltiplicato su decine di schermi. Giallo Samsung, giallo Sony, giallo Philips, giallo… Era il colore di un velo, un foulard avvolto attorno al collo di una donna matura. Le Tv tacevano il suo nome, il destino l’ha proprio cancellato, il suo nome, sostituito a forza con quello di suo figlio. Ti chiami Paola ma non importa più a nessuno. Ora tutti ti chiamano mamma, la mamma, e il tuo cognome è diventato un nome proprio di ragazzo. Lo urlano, i sottopancia delle Tv, in quel grande negozio e in tutte le case, sugli schermi dei computer connessi.

Non ti ho potuta ascoltare, però, Mamma di G., eri ovunque, stavi parlando ma in sottofondo la tua voce non c’era. In quegli istanti mandavano una Rihanna di qualche anno fa. La tua faccia bianca era segnata, stanca. Parlavi lentamente, facevi delle pause. Finalmente davanti ai telefonini è toccato a me. Voglio quello, grazie. Pago laggiù? No, non mi serve niente, più o meno so come si fa, davvero, grazie. Bancomat. No, tengo in mano. La garanzia, certo. Grazie.

Poi è stata una corsa, forsennata, verso la macchina. Le scale di casa da salire volando, come da ragazzo quand’ero in ritardo. Accendere la Tv, ‘stavolta la mia, cercare la rete allnews, vedere quella donna alzarsi, salutare, ringraziare, c’è un volo da prendere, scusarsi.

Ho quindi raggiunto il computer, atteso che i siti mettessero ordine alle homepage. Ascoltato, chiuso il cerchio.

#VeritaPerGiulioRegeni

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Il Gioco del Rispetto

Ve lo ricordate il pornoasilo di Trieste?

Strillavano proprio così, i titoli sui giornali. Era l’inizio del 2015 e tutto ruotava attorno alle scuole dell’infanzia del capoluogo del Friuli Venezia Giulia, ad alcune maestre con i loro alunni, ad una scatolina rossa. E di che colore volevate che fosse, l’involucro di un gioco pornografico?

Immaginate ora dei marmocchi che corrono. Hanno poco più di 3 anni e tutto quel movimento fa parte del gioco. Si fermano e le maestre che li stanno guidando chiedono loro di appoggiarsi vicendevolmente una mano sul petto. Si tratta di rintracciare il battito del cuore, e non è difficile dopo quella corsa. Per riconoscersi uguali, vivi, energici, al di là delle forme e delle chiome, del colore dei vestiti, della forma degli occhiali. Un piccolo passo di consapevolezza, per chi conosce i bambini. Una sorta di precoce atto sessuale, per qualche sguardo esterno, lucidamente folle, pronto a denunciare.

Ma il gioco continua, perché la scatolina rossa è un vero serbatoio di idee e di attività. Adesso si gioca a carte: in una c’è un elefante col grembiule: è maschio o femmina? E quello con la valigetta ventiquattrore, pachiderma in affari? M o F? Scommetto che riuscite ad indovinare le risposte più frequentate, voi che vi dilettate di statistica. Sotto lo sguardo esterno, intanto, si storce il naso.

Sotto con altre carte: ci sono la casalinga e il casalingo, la maestra e il maestro, la muratrice e il muratore, la calciatrice e il calciatore. Si somigliano perché hanno gli stessi vestiti e gli stessi strumenti. Certo non per i tratti somatici, seppur stilizzati nel disegno. Non basta, lo sguardo esterno sente lontano un miglio la puzza di gender.

Non di gender gap, quella che uno dovrebbe sentire davvero, la puzza di teoria del gender. Il resto viene da sé, come in un triste cliché: gli articoli su “Libero”, i tweet di Salvini, le interrogazioni dei politici. Il tutto mentre le famiglie dei bambini che hanno giocato il Gioco del Rispetto esprimono unanimi consensi all’iniziativa didattica.

La bufala è facilmente smontabile, ma le leggende metropolitane sono difficili da estirpare, e il clima si fa più pesante. Quelli (che poi sarebbero Quelle) del Gioco del Rispetto hanno le spalle larghe e vanno avanti, non si fermano. Tant’è che oggi chiedono aiuto affinché la scatolina rossa della discordia possa essere prodotta e distribuita in un’edizione scolastica e in una domestica, da giocare direttamente in famiglia. Lo fanno con un crowdfunding, chiedendo quindi il contributo di tutti.

Pensateci, può dipendere da tutti noi il destino di un’elefante carina e ammodo, con il sogno proibito di cavalcare il suo skateboard.

Alla faccia degli sguardi esterni.

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Ci fosse ancora Alex Langer…

 

Si gioca così.

È facile.

Basta fare finta che non ci sia mai stato un lunedì di vent’anni fa, che non sia mai diventato famoso, suo malgrado, un albicocco di Pian de’ Giullari. Che certi pesi di cui non sappiamo si siano come per miracolo dissolti, evaporando nel caldo di quell’inizio di luglio, un attimo prima.

Alex Langer avrebbe oggi 69 anni.

Sarebbe ancora una figura importante per il nostro paese.

Sarebbe stato fatto anche il suo nome nei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica. Scettici avremmo commentato: “sì, magari…”. Infatti non lo avrebbero eletto.

Avrebbe un account su Twitter, risponderebbe a tutti e non si lamenterebbe per qualche troll. Più che per scriverci, lo userebbe per dare spazio agli altri e alle notizie dal mondo. E per promuovere le giuste cause.

Andrebbe poco in tv, dalla Gruber, forse da Floris, da Lerner ci fosse ancora Lerner.

Forse avrebbe con sé un iPad. Manderebbe milioni di mail, ma avrebbe conservato il vizio antico di scrivere una lettera.

Sarebbe a Lampedusa ogni 3 giorni, ma sarebbe di casa anche ad Erbil, tra i bambini siriani in fuga. Sarebbe tornato in Bosnia, va da sé.

Gioirebbe per i ponti in costruzione tra Washington e L’Avana.

Avrebbe simpatia per il Presidente Usa, nonostante quello stare sulla scena, sul pulpito (figaggine, la chiamano con termine tecnico), sarebbe la cosa più distante dal suo fare eternamente goffo, impacciato.

Amerebbe questo Pontefice, senza dubbio, e ne sarebbe ricambiato.

Si batterebbe per i diritti in pericolo, e per il raggiungimento di quelli che mancano. Camminerebbe sulla strada di un gay pride, incontrerebbe quotidianamente giovani e studenti. Non sarebbe “renziano”, ma nulla lo legherebbe alla sinistra radical-spocchiosa. Avrebbe in tasca la tessera dei Verdi, che probabilmente con lui non si sarebbero estinti. Sarebbe andato in Grecia spesso e da molto tempo, non ad urne aperte e a frittata fatta.

Avrebbe occhiali meno improbabili e lo sguardo dolcissimo.

(Continuate pure, il gioco è di tutti…)

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Quando il bagaglio a mano è un bagaglio umano

Il funzionamento di un bambino di 8 anni non è semplicissimo da capire. Un esemplare maschio mi si è avvicinato pochi giorni fa, durante una prova di evacuazione in comune tra la mia scuola e la dirimpettaia scuola primaria, casa sua. I volontari della protezione civile avevano acceso un piccolo fuoco nel prato vicino alla palestra, e si apprestavano a spegnerlo con gli appositi mezzi.

Il marmocchio mi tira per la felpa e mi fa scendere con la testa di qualche piano, dove mi aspettano la sua zazzera e la sua vocetta.

«Ma quello laggiù è un incendio vero o l’hanno fatto loro?».

Mi è ritornata in mente quella domanda mentre leggevo del suo coetaneo sbucato da un trolley, a Ceuta, alle porte della Fortezza Europa.

Ho pensato a cosa possano avergli detto, mentre lo aiutavano a farsi piccolo piccolo. Che tutto era un gioco, forse, di quelli con la quota di divertimento tutta sbilanciata verso il finale. Che era l’unico modo, più probabilmente, per rivedere la madre e rimanerci a fianco. Forse gli hanno suggerito un pensiero da pensare forte in quel tempo infinito, una canzoncina da cantare mentalmente, una conta di quelle che se vuoi non finiscono, annoiano ma vanno avanti finché ti pare. Forse lo hanno minacciato, hanno usato le cattive. Oppure sta tutta lì la differenza, tra loro che partono e noi che bene o male li accogliamo: nel non riuscire nemmeno ad immaginare, noi, il contenuto di quel dialogo adulto-bambino. Non basta un interprete, non esiste mediazione possibile. Il contenuto di quella comunicazione rimane per noi oscuro come lo sguardo d’intesa tra due gatti, come l’ululato di un cane solitario, come il canto di una balena nell’oceano.

Poi il trolley si è chiuso.

«Ma tutto questo buio è dentro al trolley o c’è anche di fuori?».

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Le cose cambiano, e la scuola è gay

Chissà che conclusioni avrebbero raggiunto, gli insegnanti sguinzagliati dalla curia milanese alla scoperta di come e quanto l’immaginario gay abbia invaso le classi, le file di banchi, i corridoi, le file davanti ai distributori di merendine.

Probabilmente al termine della loro “indagine informale” avrebbero tratto un bilancio confortante, dal loro punto di vista, ché i docenti italiani tutto sono fuorché un’avanguardia. In nessun campo, figuriamoci in quello.

Le cose, tuttavia, cambiano. Indipendentemente da chi sieda in cattedra.

“Prof., nel tema posso metterci un gay? In tutte le serie americane ce n’è almeno uno…”.

Rimasi stupito, ed era il 2003. Certo che si poteva.

Poi qualche anno dopo venne un tema cupo e di difficile lettura. Ma era colpa mia, non riuscivo a capacitarmi – aprendo e richiudendo il protocollo – che la protagonista fosse trans. Messa a fuoco la cosa, tutto scorreva liscio nel racconto di un’identità complessa e tormentata. Racconto che io non avrei saputo scrivere, figuriamoci in seconda media.

Molta strada rimane da percorrere, per gli insegnanti, per gli alunni e per gli 007 delle curie curiose.

Ma intanto non posso non pensare agli esami di stato di questo giugno, con una ragazza concentrata sulla brutta del suo tema: dentro c’è il suo futuro, il suo realizzarsi nel mondo della moda, tra collezioni da disegnare, sfilate da allestire, party e jet lag. Un futuro di fama e soldi a palate, ma anche di fatica e di stress. Tanto da rendere indispensabile la presenza costante di un assistente tuttofare. Ma i lettori non si facciano strane idee, tra la stilista e l’efficientissimo Andrew (in mio onore, NdR) non c’è niente. Quello è gay fino al midollo.

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Il mondo salvato (?) dai ragazzini

Abbiamo rischiato di avere un Ministro degli Esteri trentenne.

Peccato, avrei corso volentieri il rischio.

E pure donna, il cerchio del rischio era infuocato.

Nel pomeriggio dei lunghi manganelli ho immaginato un capo delle forze dell’ordine – unificate, con un occhio alla spending – con le medesime caratteristiche: fresco di laurea, con lo smalto sulle unghie.

Anche Paolo Gentiloni dovrà occuparsi di unghie smaltate, quelle che gridano vendetta dentro i dossier dall’Iran.

Nei giorni scorsi girava per Twitter, rimbalzando da un inviato speciale canadese a un politologo statunitense, da un’osservatorio sull’Asia ad un filosofo australiano, una carta tematica sull’età media della popolazione in Africa.

Solo la Tunisia si colloca appena sopra i 30 anni, comunque 14 meno dell’Italia.

In Niger, per dire, la media è 15. In Burkina Faso 17.

Siamo davanti ad un mondo ragazzino, un affare complicato per ministri al massimo trentenni.

Manca una foto, a corredo di questa disamina geopolitica (inutile, in quanto proveniente da un vecchio di quasi quarant’anni).

Eccola, è di oggi, massimo di ieri. Ritrae un giovane burchinabè dentro il suo paese in rivolta.

Chissà se l’ha vista anche il nuovo titolare della Farnesina…

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Il tuffo di Brittany

Brittany ha un appuntamento con la morte. È fissato per sabato. No, non si tratta di un tragico destino pronto a pioverle addosso, a sua insaputa. La data l’ha scelta lei, agenda alla mano, come si fa con la revisione dell’auto o la messa in piega dal parrucchiere.

Il cancro che ha nel cappello è troppo forte e cattivo, non si tratta di un portafortuna e Brittany è lì tranquilla mentre il mondo sta girando pieno di fretta.

Si è trasferita da San Francisco fino nell’Oregon, dove morire, in un caso come il suo, si può. Per me – ceo della Ignoranti Corporation – l’Oregon significa due cose soltanto: la storia di Brittany e lo scrittore Chuck Palahniuk, che a occhio ne saprebbe trarre un travolgente racconto.

In Italia in molti hanno scritto della scelta di Brittany, in maniera preziosa alcune donne (Chiara Lalli, Daria Bignardi e oggi Emanuela Audisio…) e chissà se è soltanto un caso.

Però dubito se ne parli granchè, nei tinelli italiani in questa fine ottobre di gettoni e manganelli. Peccato, perché ci riguarda un bel po’. Metti che un giorno s’arrivi anche noi sulla soglia di quel diritto…

Scrive oggi l’inviata di “Repubblica”:

«Sarebbe bello non giudicare Brittany, non dividersi, non polemizzare. Quanti di noi alle prese con un tuffo difficile da una scogliera, dicono all’amico: guardami. Perché se tu mi vedi io avrò meno paura. E oggi ci si può far tenere la mano anche online».

Assistere al tuffo di Brittany si può. Basta andare su questo sito e spedirle una sorta di “cartolina”. E pazienza per la retorica e la guerra sporca tra le associazioni pro e quelle contro.

Sulla scogliera si sente soltanto un gran rumore di onde e di vento.

Aggiornamento: Brittany sembra abbia deciso di rimandare il suo appuntamento. Un gesto di libertà che si somma a quello di cui ho parlato nel post.

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Zeza e Giorgia

Mica per buttarla in politica, ché non ha senso.

Svegliarmi ieri mattina, però, e scoprire da Facebook come due vecchi frequentatori delle mie classi (“diplomati” a Scuolamagia tra il 2007 e il 2008) hanno percorso le strade del loro paese nel giorno topico della sagra – storia e radici, tradizioni e gastronomia – mi ha messo proprio di buonumore.

L’ironia è sicuramente un tratto distintivo nella personalità dei due giovini, che già ai tempi delle Medie nelle ore di teatro gigioneggiavano spavaldi, ma non posso non pensare come il loro rimanga un piccolo paese di provincia, dentro una nazione che si spaventa e traballa perché qualcuno mette un tanga e un boa di struzzo attorno alle sue statue più mascoline e virili.

Ignoro se si trattasse per loro di saldare il debito di una scommessa, se fosse stato indetto (dubito) qualche concorso per maschere o gara di camuffamento, se abbiano semplicemente voluto giocare un gioco nuovo. Non importa, quello che importa è che: belli, belli, belli!

 

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Happy a Scuolamagia

 

Il piccolo festival del cinema indipendente di Forni Avoltri continua (e si conclude) con il cortometraggio delle ragazze: Irene, Nicole, Evelyn e Rebby.

Non chiamate “disimpegno” la cifra stilistica della loro opera. Vi assicuro che per raggiungere l’obiettivo di spassarsela al massimo ce l’hanno messa davvero tutta, sottoponendo il paese intero ad una sorta di invasione barbarica a colpi di balli, strilli e risate.

Buona visione.

(Piuttosto agghiacciante scoprire che nelle settimane di lavorazione analoga impresa di abbinare allegre movenze a quella musica così globalmente popolare era tentata anche da un gruppo di giovani adulti di Teheran, con la differenza che i malcapitati – in realtà molto più composti delle quattro tredicenni italiane – hanno scontato con il carcere la colpa di essersi dichiarati nientepopodimeno che felici).

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Se di alpina c’è solo la stella

Siamo d’accordo che ci sono tutta una serie di cause storiche.

Siamo d’accordo che ci sono a latere pure una serie infinita di azioni nobili e meritorie.

Siamo d’accordo che essere eccessivamente polemici nel giorno in cui un gruppo di persone, grande o piccolo, si riunisce per festeggiare se stesso senza recare danno a chicchessia è oltremodo sgarbato.

Siamo d’accordo che le cose capaci di unire in questo paese son talmente poche che forse è meglio tenercele strette.

Tutto ciò premesso, più li guardo sfilare e più penso che quelli sono soprattutto centinaia e centinaia e centinaia e centinaia di maschi.

 

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Fiu

 

Il braccio destro va su e giù, asimmetricamente, nervoso, sembra quello di una cantante gospel che si accompagna schioccando le dita.

Le labbra si muovono, si richiudono ermeticamente al termine di ogni frase. La bocca si arriccia.

Il corpo dondola – di qua, di là – come la lancetta di un metronomo.

La voce trema.

Il capo sale, il capo scende, il capo conferma: ebbenesì.

E poi c’è quel sospiro, alla fine, dopo il salto, il tuffo, il volo.

Fiu.

Ellen Page che dice al mondo di essere lesbica.

Americans do it better.

 

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Due come loro, due come noi

Bari, poliziotti scoprono due campioni al centro accoglienza

A quelli come loro di solito si impedisce di scappare.

In questa storia due di loro più veloce scappano e meglio è.

A quelli come loro di solito si dà un foglio di via.

In questa storia a due come loro si dà semplicemente il via.

A quelli come loro di solito si prendono le impronte digitali.

In questa storia a due come loro si prendono i tempi.

A quelli come loro di solito si tolgono i lacci delle scarpe, per il timore di atti di autolesionismo.

In questa storia a due come loro si fa il groppo alle Asics  e alle Nike nuove fiammanti, leggere e flessibili.

I due come loro, protagonisti di questa storia, si chiamano Abdul e Mussie: uno somalo e l’altro eritreo, rispettivamente 21 e 25 anni, sono rinchiusi nel Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Bari, nell’attesa infinita di un permesso di soggiorno.

I due come noi sono agenti di polizia, si chiamano entrambi Francesco ma per Abdul e Mussie sono più confidenzialmente “my big father” e “my big brother”.

I due colleghi, podisti per hobby, hanno visto la corsa dei due africani e hanno capito di non trovarsi davanti a due runner normali. Per dire, Abdul ha disputato un buon 5.000 metri a Daegu, Corea del Sud, ai mondiali di atletica del 2011. Un posto dove fai la fila per l’antidoping con Usain Bolt.

Poi la vita, soprattutto in certi paesi disgraziati, capita che prenda pieghe tremende e che tu finisca catapultato dai podii internazionali alle carrette che attraversano il Mediterraneo.

Si può storcere il naso, certo, e pensare che i migranti in Italia sono tanti e hanno bisogno di attenzioni più urgenti rispetto a quel borsone di capi tecnici messo a disposizione gratuitamente dai due agenti col pallino della corsa.

Intanto però le nostre forze dell’ordine hanno bisogno di riscatto, e una vicenda come questa rappresenta un esempio decisamente virtuoso. Riflettete, se vi sembra poco: tempo fa si è tenuto in quel centro di accoglienza un “Trofeo del Profugo”, il somalo e l’eritreo hanno stracciato tutti, giocoforza, ma il sovrintendente Francesco Leone, agente di polizia, è fiero di essere arrivato terzo. Per quanti italiani “profugo” è peggio che un insulto?

Francesco e Francesco vedono le cose senza fronzoli e retorica: se uno è nato per correre devi permettergli di correre. A loro sembra assurdo che il destino di Abdul sia così tanto diverso da quello di Bernard Lagat, keniota naturalizzato statunitense, star dell’atletica, soltanto pochi centesimi più veloce del somalo diciottenne, ai tempi di Daegu. Spiegano: “È come se nascosto in quel campo ci fosse stato uno che a 18 anni aveva perso con Federer. E non gli davi più una racchetta in mano”.

È come se in quel campo lavorassero due persone così e non gli dai il Ministero degli Interni. 

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Halloween? No, Natale

“Pensaci tu”, mi ha detto un giorno quella mamma. Aveva appena constatato come la sua bimba di paura non ne facesse nemmeno un grammo, e quello era un pomeriggio di fine ottobre da consacrare agli zombie e agli scheletrini, sotto la luce di una zucca vuota, un pomeriggio da mostriciattoli che sgranocchiano biscotti a forma di bara. In effetti, quella sposa cadavere era tutto fuorchè impressionante: la tradivano un sorriso raggiante e una scorza impenetrabile di dolcezza. “Pensaci tu”, una parola. Avere qualche dimestichezza con i fogli e le matite non significa sapersi trasformare alla bisogna in esperti di body painting.

Ho cominciato disegnandole un ragnetto sulla fronte, rompendo il ghiaccio tra quella pelle di latte e il nero di una matita per il trucco. La mano che tremava ha reso quella bestiola goffa e incerta, decisamente inefficace.

Registrate le dimissioni della mia fantasia, ho ripiegato mestamente sui consigli di Google, fino a scoprire un motivo evidentemente caro ai cultori della materia, con decine e decine di immagini: la bocca cucita.

Si squarcia qui il velo che separa un post simile a tanti altri su questo blog, del tipo “gustoso aneddoto dal mondo bambino e ragazzino”, da un tuffo nella realtà agghiacciante del medioevo che stiamo attraversando.

Un paio di mesi fa ho disegnato sorridendo quello che ieri è accaduto per davvero. Neanche per un secondo ho pensato che quel topos si potesse materializzare al di fuori di quel gotico immaginario.

Ho steso una base di rosso sangue sulle guance, e alla mia modella faceva il solletico. Ho tracciato in nero il percorso verticale del filo, ho aggiunto (male) sfumature bianche. Ho scattato una foto e l’ho pure piazzata sulla mia bacheca di Facebook. A scuola, il giorno dopo, un’alunna ha pure recensito schifata la mia opera, dicendomi come avrei dovuto fare, e cosa avrebbe fatto lei al mio posto.

Oggi Concita De Gregorio ha scritto un editoriale che rimette un po’ di cose al loro posto, nel giusto ordine. È per questo che si ripiomba nei medioevi, si perde l’ordine.

 

«Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva.

Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come?» 

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Trecento madonne in fondo al mare

mia-migrante

Non c’è il mare nella foto che non riesco a fare a meno di guardare. Il mare è delle balene, il mare è dei delfini, il mare è un contorno, è solo una cornice. I ragazzi a scuola non hanno neanche voglia di colorarlo, nelle cartine sui quaderni. Il mare non si addice certo alla ragazza della foto. È una ragazza di terra, di sabbia, di roccia, di prato. Ma non è nemmeno una creatura da desktop, il (non)luogo dove l’ho piazzata io da luglio, da quando è finita nell’obbiettivo di un reporter di stanza a Malta, inviato a raccontare gli sbarchi di eritrei e somali, e respingimenti ancora più violenti dei nostri. Ho voluto mi facesse da proMemoria, volevo che la mia giornata cominciasse dopo aver consultato i suoi occhi. Ogni tanto mi ha fatto tornare al secolo scorso e al mio  primo pc, un quattroottosei di seconda mano, e al suo sfondo affidato dal precedente proprietario a una seppur castissima Cindy Crawford in bianco e nero. Proprio un bel salto.

Oggi la ragazza ed io ci guardiamo e siamo più muti del solito. Il file con gli esercizi per domani, il logo del browser, l’ultima musica ancora da ascoltare: ho sempre avuto cura di spostare le icone sull’arancione dello sfondo, non violando mai la perfezione delle labbra, il viso disegnato col compasso e lo spazio di quegl’occhi traboccanti di pianto.

L’ho chiamata ragazza, penso che avrei dovuto scrivere donna. Ho scritto donna e mi convinco di poterla chiamare madonna. Una madonna contemporanea, senza bambino. 90 madonne così bruciate o affogate in mare, il mare senza colore dei miei alunni. 250 madonne così ancora disperse: leggi morte, coglione, ché il mare non è mica roba nostra, il mare è delle balene e dei delfini.

Oggi tutti parleranno, tutti diranno qualcosa. Chi regalerà un pensiero, chi scriverà un articolo, chi diramerà una nota, chi si affiderà ad un tweet. La Lega vomiterà la sua pochezza, Grillo dirà di chi è la colpa. Sarà scosso anche Berlusconi: vedrà la sua afflizione nella giusta proporzione, e scaccerà il cagnetto all’altro lato del divano. Telefonerà il Papa, porterà sincero conforto. Penserà anche lui che con trecento madonne morte in fondo al mare il numero da chiamare sarebbe un altro, ma che quel numero selezionato è inesistente.

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1, 10, 100 COSTECONCORDIE

Alang

Pronti? Allora: si va su Google, come immagino facciate altre 57 volte, chi nel corso dell’intera giornata, chi tra le 8.00 e le 8.30 del mattino. Infilate nel motore di ricerca queste cinque letterine: alang. Fatto? Cliccate ora su Maps. Alang è infatti un luogo. Finirete in India, nella regione del Gujarat, e quello che vedrete – sotto una nebbiolina che sembra messa lì apposta da un genio del male, o da me che vi sto guidando – vi farà rimanere di stucco. Altro che Costa Concordia. Altro che PARBUCKLING, benvenuti nel mondo dello SHIP BREAKING.

Niente martinetti, niente cassoni che si riempiono d’acqua. Solo fiamme ossidriche e martelli, tenaglie e forbicione. Niente commissari e superingegneri. Soltanto ragazzini seminudi con la pelle scura. Piccole termiti a scavare il ferro di navi provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Operazioni di dismissione clandestina vietatissime, ma realizzabili con la semplice manomissione di qualche documento, e un furbo cambio di bandiera all’imbarcazione da rottamare.

Me l’ha ricordato Adriano Sofri su Repubblica di oggi, che dopo gli umani stupori nella notte del Giglio era il caso di fare una capatina ad Alang, come abbiamo fatto spesso a scuola negli ultimi anni, per recuperare il senso delle (s)proporzioni.

Io metto la foto, ma voi andateci. Volare così non costa niente. Scendete col tastino + . Aspettate che l’immagine si metta a fuoco.

Oltre la spiaggia, oltre la nebbia, il mare è di un bell’azzurro anche lì. 

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