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Nessuno tocchi Caino, e neanche Doina…

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Prendo un pugnetto di righe di Adriano Sofri a cui sono  molto affezionato, scritte pensando a Erich Priebke. Mi permetto di sostituire alcune parole, e al posto del vecchio nazista ci metto la trentenne Doina Matei. Il discorso fila lo stesso, limpido, con il surplus di pietà che una ex prostituta di trent’anni, madre a 14, carcerata da 9, merita rispetto a un vecchio camerata coerente fino all’ultimo con il suo passato di carnefice.

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Doina Matei fosse stata rimandata a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che donna sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali selfie posti o non posti su Facebook, di quali sorrisi si renda protagonista.  Riguardano lei. Forse riguardano i parenti della vittime, ammesso che diano peso a ciò che lei dice o tace, o fotografi: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che donna sia, ma che sia una donna.»

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Ci fosse ancora Alex Langer…

 

Si gioca così.

È facile.

Basta fare finta che non ci sia mai stato un lunedì di vent’anni fa, che non sia mai diventato famoso, suo malgrado, un albicocco di Pian de’ Giullari. Che certi pesi di cui non sappiamo si siano come per miracolo dissolti, evaporando nel caldo di quell’inizio di luglio, un attimo prima.

Alex Langer avrebbe oggi 69 anni.

Sarebbe ancora una figura importante per il nostro paese.

Sarebbe stato fatto anche il suo nome nei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica. Scettici avremmo commentato: “sì, magari…”. Infatti non lo avrebbero eletto.

Avrebbe un account su Twitter, risponderebbe a tutti e non si lamenterebbe per qualche troll. Più che per scriverci, lo userebbe per dare spazio agli altri e alle notizie dal mondo. E per promuovere le giuste cause.

Andrebbe poco in tv, dalla Gruber, forse da Floris, da Lerner ci fosse ancora Lerner.

Forse avrebbe con sé un iPad. Manderebbe milioni di mail, ma avrebbe conservato il vizio antico di scrivere una lettera.

Sarebbe a Lampedusa ogni 3 giorni, ma sarebbe di casa anche ad Erbil, tra i bambini siriani in fuga. Sarebbe tornato in Bosnia, va da sé.

Gioirebbe per i ponti in costruzione tra Washington e L’Avana.

Avrebbe simpatia per il Presidente Usa, nonostante quello stare sulla scena, sul pulpito (figaggine, la chiamano con termine tecnico), sarebbe la cosa più distante dal suo fare eternamente goffo, impacciato.

Amerebbe questo Pontefice, senza dubbio, e ne sarebbe ricambiato.

Si batterebbe per i diritti in pericolo, e per il raggiungimento di quelli che mancano. Camminerebbe sulla strada di un gay pride, incontrerebbe quotidianamente giovani e studenti. Non sarebbe “renziano”, ma nulla lo legherebbe alla sinistra radical-spocchiosa. Avrebbe in tasca la tessera dei Verdi, che probabilmente con lui non si sarebbero estinti. Sarebbe andato in Grecia spesso e da molto tempo, non ad urne aperte e a frittata fatta.

Avrebbe occhiali meno improbabili e lo sguardo dolcissimo.

(Continuate pure, il gioco è di tutti…)

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I miei magnifici 11

Raccolgo la sfida lanciatami su Facebook e stilo la mia personale formazione di libri che cambiano la vita. L’espediente calcistico mi permette l’aggiunta di un undicesimo titolo, dopo che fin troppo dolorosa è stata l’esclusione del dodicesmo, del tredicesimo, del quattordicesimo, ecc.

Il numero di maglia corrisponde al ruolo da interpretare sul campo, secondo l’antica scienza numerologica calcistica, per chi la conosca e ne sappia svelare gli arcani.

Pronti, attenti, via.

1. Portiere

Alexander Langer, Il viaggiatore leggero

Perché se anche solo un uomo politico su dieci perseguisse le sue idee, il mondo avrebbe risolto ogni suo problema. Perché Alex aveva irrimediabilmente sempre ragione.

2. Terzino destro

Domenico Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso

Perché il primo giorno che sono entrato in classe mi sono comportato come sta scritto lì dentro, e forse anche nei giorni successivi…

3. Terzino sinistro

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia

La storia di una donna, che tutte le donne dovrebbero aver letto…

4. Mediano di spinta

Luigi Meneghello, Libera nos a malo

Il libro meno provinciale che ci sia, scritto in provincia della provincia della provincia che sta più in provincia.

5. Stopper

Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto

La scrittura più limpida, rotonda, perfetta. Un punto fermo.

 

6. Libero

Adriano Sofri, Piccola Posta

Perché di uomini più liberi di lui non ne conosco.

 

7. Ala destra

Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Portopalo

Mi ha fatto capire qual è LA questione del tempo in cui mi è capitato di vivere. Non solo, mi ha fatto capire anche di aver avuto un amico che si chiamava Anpalagan Ganeshu.

 

8. Mezzala destra

Elsa Morante, La Storia

Perché il bambino Useppe da solo meriterebbe la maglia da titolare. Poi ci sono tutti gli altri personaggi.

 

9. Centravanti

Antonia Pozzi, Parole

La poesia segna più della prosa. Antonia è anche il capitano della squadra.

 

10. Mezzala sinistra (regista)

Andrea Pazienza, Perché Pippo sembra uno sballato

In quel ruolo ci vuole per forza un genio.

 

11. Ala sinistra

Arundhati Roy, Il dio delle piccole cose

Perché l’autrice, tra le mille invenzioni, s’inventa il plurale di pelle d’oca (“6 pelledoche”). E poi ti porta in India, e ti ci fa accomodare.

 

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Machiavelli, Tupac e la Principessa

 

Sta parlando di Machiavelli, Adriano Sofri nel suo ultimo libro, quando la mia matita ha un sussulto: standing sottolineation.

 

«E  infine, è povero, e deve arrabattarsi. Non vuole essere povero, ma poi rompe le righe, ed è il suo vanto: “che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere”.

I suoi interlocutori, anche quando la disgrazia li ha sfiorati, non sono poveri. È stato il loro privilegio. Sono attenti a non farlo pesare, i migliori, ma non ci riescono: i ricchi, anche quando hanno le migliori intenzioni, non riescono mai a non farti pesare la loro inferiorità».

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Baby box. Quello che metterei nella scatola di un bimbo italiano

Äitiyspakkaus. Letta da qui la parola ha il suono aggressivo di una minaccia. In realtà si tratta soltanto di una scatola, quella che lo stato finlandese , per tramite del suo ente di previdenza sociale, fa recapitare a tutte le donne in dolce attesa.

Äitiyspakkaus ospita trapuntine e cuffiette, forbicine per le unghie e bavaglini, giochi, libri ed altro ancora. Svuotata del suo contenuto si trasforma in una culla, spartana ma accogliente. Dal 1938 i finlandesi ci dormono e ci fanno allegramente pupù. Anche oggi, nell’epoca delle scelte funzionali e della personalizzazione di ogni oggetto, solo un’esigua minoranza rinuncia alla babybox e richiede il corrispettivo in denaro: 140 euro. A testimonianza del fatto che il cadeau dello stato, etico e ostetrico, conserva la sua forte carica simbolica.

Quando va bene una mamma italiana riceve un molto meno poetico “bonus bebè”, comunque meglio di un pugno sul naso; quando va benissimo non le è toccato di firmare una lettera di dimissioni in bianco.

Enrica, la blogger finita nella pozzanghera qualche post fa, si è divertita a stilare il suo elenco di cosucce da infilare nella scatola in versione Made in Italy, ad uso dei vari Matteorenzi (oh, babbo, piglia la s’atola del sinda’o), Beppegrillo (un pacco vuoto, all’interno soltanto l’eco di un vaffanculoooo…), ecc…, invitando i visitatori del suo diario a fare altrettanto.

Dopo lunghe riflessioni ho ammucchiato per ora questi accessori destinati ad un neonato italiano da attrezzare in vista della felicità, venuto al mondo oggi, 17 dicembre 2013.

  

Le Favole di Andrea Pazienza, per imparare prima possibile che al Gran Maestro dei Grigi bisogna fare Perepè.

 

Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante.

 

Tutte le bandiere del mondo, in una sorta di mazzo di carte, tranne quella Italiana.

 

Una matita 2B, giusto compromesso tra precisione e tenerezza.

 

Una chiave a brugola n° 5 (la bici per ogni nuovo nato condurrebbe la nazione al default, ma fornire lo strumento che manca ogni qual volta si tratta di alzare una sella o un manubrio mi pare un trionfo della realpolitik).

 

Un planisfero “down under”, quello con l’Australia al posto del Mediterraneo, lo stivale a testa in giù e le Falkland al posto dell’Alaska. Un’individualità egocentrica si sviluppa anche a partire dalla geografia.

 

L’uovo di legno per rammendare le calze. (Confesso, l’ha citato una volta Adriano Sofri in una lista neanche troppo differente da questa e ho sempre sognato di poterlo scrivere anch’io…).

 

Una scatola di pennarelli di qualità.

 

Un plettro morbido (idem come per la brugola… una chitarra a cranio farebbe sforare il budget).

 

Una chiavetta USB, un pezzo di antiquariato non stona.

 

Una puntata di Giatrus e una di Astroboy.

 

Una confezione di Lego (generalista, però, non “costruisci il Burj Khalifa di Dubai”…).

 

Un poster di Rémy écoutant la mer di Boubat.

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1, 10, 100 COSTECONCORDIE

Alang

Pronti? Allora: si va su Google, come immagino facciate altre 57 volte, chi nel corso dell’intera giornata, chi tra le 8.00 e le 8.30 del mattino. Infilate nel motore di ricerca queste cinque letterine: alang. Fatto? Cliccate ora su Maps. Alang è infatti un luogo. Finirete in India, nella regione del Gujarat, e quello che vedrete – sotto una nebbiolina che sembra messa lì apposta da un genio del male, o da me che vi sto guidando – vi farà rimanere di stucco. Altro che Costa Concordia. Altro che PARBUCKLING, benvenuti nel mondo dello SHIP BREAKING.

Niente martinetti, niente cassoni che si riempiono d’acqua. Solo fiamme ossidriche e martelli, tenaglie e forbicione. Niente commissari e superingegneri. Soltanto ragazzini seminudi con la pelle scura. Piccole termiti a scavare il ferro di navi provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Operazioni di dismissione clandestina vietatissime, ma realizzabili con la semplice manomissione di qualche documento, e un furbo cambio di bandiera all’imbarcazione da rottamare.

Me l’ha ricordato Adriano Sofri su Repubblica di oggi, che dopo gli umani stupori nella notte del Giglio era il caso di fare una capatina ad Alang, come abbiamo fatto spesso a scuola negli ultimi anni, per recuperare il senso delle (s)proporzioni.

Io metto la foto, ma voi andateci. Volare così non costa niente. Scendete col tastino + . Aspettate che l’immagine si metta a fuoco.

Oltre la spiaggia, oltre la nebbia, il mare è di un bell’azzurro anche lì. 

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L’amore che c’è dentro, l’amore che c’è fuori

A volte, magari proprio di domenica, capita di leggere quasi integralmente tre quotidiani e un inserto e che la tua sete di storie rimanga a bocca asciutta. Poi a mettere le cose a posto ci pensa una piccola lettera, in quello spazio che spesso e volentieri sorvoli diretto altrove, ché in quelle pagine ci son prima di tutto gli editoriali ed i commenti autorevoli. Ci pensa un lettore con un pensiero controcorrente, con un’osservazione limpida quanto spiazzante.

Amnistia per tutti coloro che – fatti i conti con ovvie e sensate limitazioni – possono beneficiarne, pazienza se ci finisce in mezzo uno che non la meriterebbe.

Amnistia perché l’amore che è dentro possa incontrare l’amore che è fuori.

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Lettera a Erich Priebke

Gent.mo Erich Priebke (!!??!!??),

 

vede com’è difficile già soltanto cominciarla, questa lettera? Capirà come non avrei mai potuto scrivere “caro,”, ma anche il “gentile” quello delle lettere formali, quello che non si nega a nessuno, quello che si scrive anche quando poi nella missiva si va al sodo di contestazioni critiche e reprimende, ammetterà che suoni strano, davanti alla palese non gentilezza di alcune sue prese di posizione e più in generale della sua condotta da quando nel 1995 è stato estradato in Italia.

La notizia è che lei sta per compiere 100 anni e soprattutto che qualche italiano sembrerebbe intenzionato a festeggiare il suo genetliaco e di farlo spudoratamente in un luogo pubblico. Non è di questo che le voglio parlare, tuttavia. Esistono i mezzi per evitare quello scempio e mi auguro che chi è nelle condizioni di utilizzarli lo faccia prontamente.

Ieri tutti i siti dei giornali hanno pubblicato un video in cui lei sta camminando su un marciapiede romano accompagnato dalla sua badante. Una scena come se ne vedono tante in giro per le città e per i paesi. Abbiamo infatti riscoperto la sua esistenza. Quel 100 tondo tondo ci ha ridestati dal sonno e abbiamo di nuovo incrociato quel suo corpo possente, certo invecchiato, ma ancora in grado di deambulare, seppur sostenuto, in maniera sostanzialmente dignitosa. Mi sono chiesto cosa volessero i nostri occhi da quelle immagini. Che lei incespicasse e sbattesse la faccia sull’asfalto? Che lei provasse vergogna nel veder catturata ed esibita la sua fragilità di vecchio? Pensi che lo showman Fiorello, su Twitter, ha appena associato la sua condizione di centenario alla morte di quel giovane motociclista avvenuta a Mosca pochi giorni fa. Sottinteso: come sono ingiuste le cose del mondo, un venticinquenne innocente ci saluta tanto presto e invece Priebke… Pochi istanti fa, invece, lo scrittore Erri De Luca sullo stesso social media le ha augurato di viverne altri 100, di anni: “possa trascinarsi per un altro secolo il suo nome maledetto…”.

Il suo caso ci interroga sul significato profondo della Giustizia. Lei è stato dichiarato – seppur dopo un iter giudiziario rocambolesco – colpevole per crimini orribili. Una giuria ha fatto i conti con prove certe, con riscontri oggettivi. La sua difesa ha avuto modo di giocare le proprie carte. Il verdetto nel condannarla ha tenuto presente la sua età avanzata, così come prevedono ordinamenti “uguali per tutti”, dal ladruncolo al boia nazista. Un difficile esercizio di ricerca della verità è stato portato a termine. Funziona così, in democrazia. Noi siamo “i buoni” e con i nostri strumenti da “buoni” abbiamo messo sotto la lente un tempo lontano in cui erano prassi le azioni di “cattivi” come lei. “Cattività” da cui, a quel che mi risulta, lei non ha mai preso le distanze.

Nei prossimi giorni si eserciteranno in tanti sul tema del suo compleanno. La immagino impermeabile agli insulti che nel tempo le saranno piovuti addosso in quantità, magari anche nel corso delle sue normalissime passeggiate colla badante. Ci saranno gli editoriali e le battute sagaci. Ci saranno le volgarità e le minacce. Ecco il punto: forse noi “buoni” non dovremmo cadere in questa trappola. Proprio perché non siamo come lei, proprio perché noi gli istinti li dobbiamo frenare, dobbiamo aiutarci vicendevolmente a farlo. Può capitare che qualcuno non si trattenga, è umano, ma ci dev’essere qualcun altro vicino che lo quieta indicandogli battaglie più urgenti su cui concentrare le energie.

C’è un vecchio criminale nazista che non schioda dalla vita e gode invece di ottima salute. Ma è stato condannato. La Giustizia si è pronunciata. La sua infamia è scritta, e può essere raccontata a chi verrà. Dovrebbe essere sufficiente. Perché, altrimenti, rischiamo di diventare al solito paradossali, noi italiani: prendere lei come facile obiettivo – lo sanno tutti cos’è un nazista – e gettare la spugna sul fatto che ormai moltissimi giovani ignorano che gente della sua risma, trent’anni dopo la guerra, faceva saltare le stazioni ferroviarie stracolme di innocenti. C’è talmente tanta Giustizia da fare, in questo paese e in questo mondo, per sprecare la propria rabbia e la propria indignazione su quella che – al netto dell’orrore che rimane e deve rimanere – è già stata fatta. Io la sua faccia, Signor. Priebke, me la ricorderò finché campo, e anche certi suoi infimi sorrisetti, ma la sua pratica mi devo sforzare di metterla in un’altra cartella. Io gioco coi “Buoni”, e i “Buoni” non stappano una bottiglia nemmeno quando muore un “Cattivo”. Se no che “Buoni” sono? Se tra buoni e cattivi non ci sono più differenze, o sono marginali, allora tanto vale che ci si definisca “i verdi” e “i blu”.

Qualche anno fa, l’allora responsabile della comunità ebraica italiana Tullia Zevi ebbe a dire, con riferimento al suo ergastolo: “noi teniamo al principio della imprescrittibilità dei crimini di guerra nazisti, dunque al processo e alla condanna all’ergastolo; non teniamo che il condannato resti in galera e ci muoia”.

Oltre a riportare questa citazione della Zevi, Adriano Sofri ha scritto nel suo Chi è il mio prossimo:

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Priebke fosse stato rimandato a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che uomo sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali condoglianze o perdoni accetti o rifiuti di pronunciare. Riguarda lui. Forse riguarda i parenti delle vittime, ammesso che diano peso a ciò che lui dice o tace: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che uomo sia, ma che sia un uomo: un vecchio uomo innocuo e superfluo per chiunque, se non per la propria vecchia donna e per sé.»       

La vecchia donna, sua moglie, è nel frattempo mancata in quel di Bariloche, Argentina. Del suo video a spasso per Roma non mi ha colpito la sua fiera fragilità di vecchio, bensì la dedizione e l’amorevole cura della sua badante. Un’altra donna. Italiana? Ispanica (in fondo lei ha trascorso decenni in Sudamerica…)? Originaria dell’Europa dell’est come capita spesso? Chi lo sa e cosa importa. I malpensanti avranno buon gioco nell’immaginare questa signora avidamente attratta dai beni che le rimangono, e dal fatto di poter “alzare il prezzo” davanti ad un utente così fuori dal comune. A me, invece, piace pensarla come una donna che ha ben chiaro un concetto: un uomo rimane un uomo, molto prima della feccia delle sue idee e delle sue azioni. Una che gioca tra “i Buoni”, insomma, quelli di cui ho voluto parlarle in questa lettera. Me la saluti.

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Venute al mondo

 

 Penso a dove sono finite, ventiquattrore dopo.

Copie di giornale, allegato al quotidiano del sabato.

Quelle lasciate sui sedili di un Frecciarossa o di uno sgangherato treno locale.

Quelle appoggiate sul termosifone del bagno, a fianco del water, sfogliate fino a pagina 10, ché magari era un falso allarme.

Quelle cestinate all’istante: roba da donne, solo pubblicità, vestiti e creme antirughe.

Quelle lette avidamente, sì, ma soltanto l’oroscopo, in una delle ultime pagine.

Quelle che qualunque fine facciano, sono 50 centesimi caricati sul prezzo già alto del giornale.

Quelle inzuppate di pioggia, abbandonate nel cestino dei rifiuti a quattro passi dall’edicola.

Quelle già stivate nel bidone giallo dei bravi cittadini, carta con carta, insieme ai depliant pubblicitari e al cartone delle merendine.

 

Per tutte le altre, forse c’è ancora una speranza.

Che qualcuno le trovi, le prenda in mano e vada, e corra a pag. 60.

Per leggere storie vere di donne, nella Sarajevo assediata. Storie di vent’anni fa, anche se sembra ieri.

Storie così:

 

In un altro ufficio postale, a Marindvor, in cui la gente entrava solo per trovare riparo, una donnetta anziana parlava a un telefono, parlava e piangeva, si rivolgeva a una figlia, le raccontava delle cose confuse, poi ricominciava a piangere. Durò a lungo, nessuno le badava. Quando finì, si rassettò il soprabito sdrucito e uscì, vidi che il telefono, restato sulla sua mensola, non aveva fili.

 

A raccoglierle – ma tra i propri ricordi: sono storie di prima mano – è stato Adriano Sofri.

Se la vostra copia è rimasta davvero sul sedile del treno, non disperate. Copio il pezzo nei commenti del blog.

Ma la prossima volta state più attenti. 

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Wallenberg medaglia d’oro

Ci sono medaglie che arrivano subito, il tempo di indossare una tuta, detergere il sudore, darsi una sistemata ai capelli e approssimarsi al podio. Così presto che spesso gli atleti dichiarano: “sono andato a dormire con la medaglia, e solo il giorno dopo mi sono reso conto di avere vinto”.

Ci sono medaglie che arrivano con quasi 70 anni di ritardo. Così tardi che i premiati non possono più chinare il collo, stringere i fiori nel pugno, storcere il naso per le lacrime che spingono come piene di fiume.

Ci sono le medaglie olimpiche e in uno strano cortocircuito lessical-metaforico, nel luglio di London 2012, ci sono le medaglie al valore e alla memotia come quella che gli Usa, dopo la firma apposta da Obama, hanno deciso di dedicare a Raoul Wallenberg nel centenario della nascita.

Wallenberg, svedese, campione mondiale di filantropia, salvò dallo sterminio 100.000 ebrei ungheresi. Le enciclopedie arrotondano, va da sé, e “centomila” è il risultato di un arrotondamento che quasi banalizza il significato di un record difficilmente eguagliabile.

Si perderà in questi giorni la notizia, tra i tanti titoli dei giornali piovuti direttamente dalle piste, dai campi, dalle pedane, dai tatami. “Oro per Wallenberg” e chi lo conosce? Sarà un arciere svedese, al massimo un pesista danese, peccato per gli italiani…

Strano, ripeto, il cortocircuito. Tuttavia, portandolo alle estreme conseguenze, si può forse immaginare “quell’uomo dall’aspetto serio e ordinato, la riga di lato e un po’ di riporto: una fisionomia difficile da trasferire nel bronzo delle statue”* salire il gradino più alto di un podio speciale.

La tuta gialla e blu della Svezia e gli occhi ad ammirare i bei colori delle bandiere degli avversari, ché i filantropi son fatti inguaribilmente così.

 

*: qui da noi un ricco racconto dell’avventurosa vita di Wallenberg l’ha fatto pochi mesi fa Adriano Sofri, nell’inserto domenicale di “Repubblica”. 

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La prova INVALSI e la piccola rohingya

Non c’è mai la scuola aperta quando serve. Domani sarebbe servito. Invece la scuola sarà chiusa. Non letteralmente, perché i cancelli e i portoni si apriranno puntualissimi. Nella sostanza, sì. Chiusa, sbarrata, sprangata. “CHIUSA PER PROVA NAZIONALE INVALSI”, potrebbe recitare un cartello. Se ne starà nel suo bozzolo di meritocrazia posticcia, di oggettività un tanto al chilo. Rigorosamente con gli occhi chiusi,  allegramente al buio. Invece, anche se è giugno e fa molto caldo, avremmo dovuto esserci, insegnanti ed alunni, per parlare di una bambina.

Le cronache – quasi esclusivamente in inglese, in italiano ne accenna oggi Adriano Sofri nel suo pezzo da Oslo su Aung San Suu Kyi – dicono abbia un mese e mezzo di vita. È stata ritrovata alla deriva, a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Sembrava vuota, non lo era. Proprio come le scuole medie domani mattina: sembreranno aperte, non lo saranno. È riuscita a superare il muro eretto dalle autorità del Bangladesh al flusso di profughi rohingya (una minoranza musulmana) in fuga dalla Birmania. Centinaia di disperati che tentano da giorni di attraversare il fiume Naf, confine naturale tra i due paesi asiatici.

Raccolta dall’imbarcazione – involontaria ruota degli esposti – la bambina è stata affidata a una generosa famiglia di pescatori, che le ha prestato le prime cure.

Non ci sarebbe stato molto altro da aggiungere, domani a scuola. Le belle favole bastano a se stesse. I ragazzi sarebbero tornati a casa gonfi di pensieri da cullare, e il prof. si sarebbe chiesto – immaginandoli sdraiati su un prato o smarriti davanti a una finesta: “non avrò mica dato troppi compiti?”.

(Vecchie “battaglie” contro l’Invalsi…: qui, qui e qui)

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