Soletta, Stream of consciousness

Chi ti manda, Chimamanda?

Che i due libri preferiti di questo mio 2014 siano entrambi scritti da donne certo non mi sorprende. Che le due autrici si chiamino Auður Ava Ólafsdóttir e Chimamanda Ngozi Adichie mi fa sorridere e ringraziare il presente dei libri acquistati on line, con un clic, senza dover passare per una libraia od un libraio davanti ai quali incartarsi: “avete mica l’ultimo di… ehm… ecco… l’ho scritto qui, sul bigliettino…”.

Americanah è un romanzo strepitoso. Riempie i giorni, e li cambia. Anche se lui è rimasto buono buono sul comodino, finisce che ti ritrovi a sorvolare la Nigeria con Google Earth mentre sei in un’altra stanza per fare altro. Il fatto è che vuoi vedere le strade polverose di Lagos e le automobili che le percorrono, i grattacieli, e le università. Anche se sei fuori casa e l’Einaudi bianco è a chilometri da te, ti ritrovi su YouTube, col telefono, ad ascoltare la canzone (stupidina) che sentono in macchina i due protagonisti appena si rincontrano dopo molti anni di lontananza.

Americanah è bellissimo perché ha tante facce come un diamante. Mille temi universali intrecciati ad arte che mai disturbano lo scorrere della storia d’amore, quella della canzone stupidina, al centro delle vicende narrate.

Dentro Americanah ci sono la Storia e la Geografia, il colonialismo e Barack Obama. Leggi Americanah e capisci il clima di Ferguson-Missouri, capisci perché un africano, anche benestante, non può non voler partire per qualche altrove.

E poi c’è l’amore, dentro Americanah, quello che fa rimanere due persone  unite nella distanza, invulnerabili dinanzi allo scorrere del tempo, “allacciate in un cerchio di completezza”.

 

 

«Le sue parole erano come musica, e si sentì respirare in modo sconnesso, inghiottendo l’aria. Non voleva piangere, era ridicolo piangere dopo tanto tempo, ma i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime e sentiva un macigno nel petto e la gola le pungeva. Le lacrime le facevano prudere il viso. Non fece rumore. Lui le prese la mano nella sua, entrambe strette sul tavolo, e tra loro crebbe il silenzio, un antico silenzio che antrambi conoscevano. Lei era dentro quel silenzio e stava al sicuro».

Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah

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Le storie di Scuolamagia, Piccola posta, Soletta, Stream of consciousness

Ho scritto a Scarlett Johansson

 

Cara Scarlett Johansson,

qualche giorno fa ho finito il romanzo di Grégoire Delacourt che ti ha fatta molto arrabbiare, o forse ha fatto molto arrabbiare i tuoi avvocati e coloro che si occupano della tua immagine.

La causa intentata verso l’editore francese del libro si è conclusa in tuo favore, nonostante la cifra del risarcimento che ti verrà corrisposto sia decisamente ridicola: 2.500 euro. Non ti accuso certo di aver voluto monetizzare la faccenda, lungi da me, e ti credo invece affezionata alla sottostante controversa questione di principio. Uno scrittore ha preso la tua vita, non la mia, e l’ha fatta diventare protagonista di una storia che poi prende certe sue affascinanti e autonome strade.

Io non ti conosco particolarmente bene, e i film in cui ti ho vista recitare si contano su una zampa di gallina. In Lost in Translation mi avevi colpito moltissimo, ma senza nulla voler togliere al tuo talento me l’ero spiegato più con la magia soffusa messa in piedi dalla regista e dal direttore della fotografia, con lo zampino della stessa Tokyo. A volte sei spuntata nelle chiacchiere serie e meno serie che si fanno a scuola. Mi è capitato di citarti in quanto donna ebrea, per allontanare dalle menti degli alunni qualche immagine datata e soprattutto stereotipata.

Per i ragazzini di oggi sei soprattutto l’emblema della bellezza, il paradigma della “diva”. Mica per niente l’autore di La prima cosa che guardo ha scelto te e non un’altra per il suo esperimento letterario.

Il fatto è che il romanzo gli è uscito davvero carino. Dentro ci sei tu, ma ci sono anche alcuni snodi di una dolcezza sfacciata, ci sono un sacco di dolori taglienti che si spingono molto oltre la problematica dell’ “essere/somigliare a Scarlett Johansonn”. Ci sono tematiche, nel libro, davanti alle quali anche tu, che sei tu, passi in secondo piano. C’è anche molta ironia e c’è tra i capitoli, a cucirli insieme, un’aria fresca e leggera. Leggera come l’allusione del titolo, chiaramente riferito ad una dote tua diciamo… non proprio spirituale. Una lunga scena di sesso accompagna il lettore per molte pagine verso il finale, ma sembra uscita dal genio di Jean Luc Godard: accadono molte cose su quel talamo, ma hanno più a che fare con la storia dell’arte, della letteratura e del cinema.

Ecco, arrivo al motivo di questa lettera.

Incassa i 2.500 euro. La legge è legge. Voi Star in genere devolvete in beneficienza i guadagni delle cause vinte e tu sarai impeccabile anche in questo. Poi, però: telefona a Delacourt e chiedigli di trasformare il suo romanzo nella sceneggiatura di un film. Una pellicola che altrimenti sarebbe irrealizzabile: dove la trovi un’attrice che impersoni Scarlett Johansson senza esserlo? Impossibile, finirebbe come coi i film sul ciclismo, con attori che nonostante le diete mai e poi mai avranno il fisico asciutto e spigoloso degli assi delle due ruote a pedali.

Tu, invece, saresti perfetta. Il lungometraggio risulterebbe raffinato, ma nel contempo sufficientemente pop.

Insomma, un trionfo al botteghino.

Senza contare – scusami se è poco – che ti leveresti di torno quella fastidiosa patina d’antipatia che unge le celebrità troppo permalose, trasformandola nel suo esatto contrario.

 

«Mia madre diceva che ero una neonata splendida. Poi una bambina incantevole. Il sindaco voleva creare un concorso di Miss solo per me. Una bambina incantevole. La cosa ha causato dei fastidi con il mio patrigno. Faccende sgradevoli. Che ti fanno venir voglia di andartene. Come Jean Seberg nella sua automobile. Poi mia madre ha smesso di trovarmi bella. Ha smesso di parlarmi. Non so che cosa ne sia stato di lei. Ho vissuto con mia zia. Setta anni fa il mondo ha scoperto il mio viso in Lost in Translation. Dal giorno in cui è uscito, il 29 agosto 2003, odio la mia faccia. La odio ogni minuto, ogni secondo. Tutte le volte che una ragazza mi guarda chiedendosi cos’ho io più di lei. Ogni volta che un tizio mi fissa e io mi domando se mi abborderà, mi toccherà, tirerà fuori un coltello, un taglierino, pretenderà un pompino o somplicemente mi chiederà un autografo. Forse solo un caffè. Soltanto un caffè. Ma non succede mai. Non è me che guarda. Non è me che reputa bella. Non sono io.

Il mio corpo è la mia prigione. Non ne uscirò mai da viva.»

 

Cara Scarlett,

nella speranza che tu non faccia causa anche a me (per così poco…), ti saluto e ti auguro tutto il bene possibile.

 

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Cineserie, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Non dirmi che hai paura

Preso da una strana euforia, l’8 agosto del 2008 ho pubblicato un post con un elenco di persone importanti, e mi ci sono infilato. In comune quegli umani avevano soltanto il fatto di trovarsi contemporaneamente nella stessa gigantesca città. L’8 agosto 2008 a Pechino cominciavano i giochi della XXIX Olimpiade. Ricordo le grandi manovre davanti a quello stadio pazzesco, a due giorni dal via. Ricordo i bambini cinesi che sbucavano dai vicoli per abbracciarti e augurarti il benvenuto in città. Ricordo la cerimonia d’apertura vista alla Tv cinese, accompagnata da un primitivo liveblogging. Ricordo tanto, è una mia caratteristica, ma non ricordo Samia. Eppure Samia c’era ed era bellissima, avvolta negli abiti tradizionali del suo paese, la Somalia, dentro una delegazione sparuta e spaurita. Da qualche giorno, da qualche ora, mangiava come mai aveva mangiato e come mai più avrebbe fatto, e dormiva per la prima volta su di un letto degno di quel nome.

La sua storia l’ho conosciuta per la prima volta nel 2012, in un pezzo della scrittrice Igiaba Sciego, ed ora – romanzata senza stravolgimenti – è finita nel libro di Giuseppe Catozzella. Si legge in un fiato, e il racconto di una vita finisce per somigliare al percorso dei 200 metri piani. Quei giorni a Beijing 2008 stanno sulla curva, prima del rettilineo delle lunghe falcate, prima di dare tutto.

C’eravamo io e George Bush, quel giorno a Pechino. Con noi c’erano Lula e Laure Manadou. C’era anche Putin, e lui ci sarà anche a Sochi, pensa un po’, venerdì. C’erano migliaia di atleti e c’era soprattutto Samia Yusuf Omar.

 

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Machiavelli, Tupac e la Principessa

 

Sta parlando di Machiavelli, Adriano Sofri nel suo ultimo libro, quando la mia matita ha un sussulto: standing sottolineation.

 

«E  infine, è povero, e deve arrabattarsi. Non vuole essere povero, ma poi rompe le righe, ed è il suo vanto: “che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere”.

I suoi interlocutori, anche quando la disgrazia li ha sfiorati, non sono poveri. È stato il loro privilegio. Sono attenti a non farlo pesare, i migliori, ma non ci riescono: i ricchi, anche quando hanno le migliori intenzioni, non riescono mai a non farti pesare la loro inferiorità».

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Soletta, Stream of consciousness

Non sapersi

Amore e guerra; amore è guerra. Incauta occupazione di territorio straniero. Dentro di te, nel giorno, nella notte, nelle cose da fare, in tutto. Essere invasa. La resistenza e la resa. Resa ovvero rendimento: si potesse misurare il frutto, il vantaggio, gettando sulla bilancia da una parte sé, dall’altra quanto si offre, quanto si perde e quel che rimane. L’unica certezza il consumo: del pensiero, della ragione, del tempo che evapora in congetture. Se fantastichi ciò che vuoi lo perdi, lo sciupi? O perfezioni e anticipi una possibilità? E poi? Resto o differenza: la differenza con l’altro, l’abisso che separa, attira e chiama, il vallo da colmare, il salto da sé. Lo prendo, mi faccio avanti e prendo ciò che è mio, ciò che non lo è ancora, quello che vorrei e non so, o aspetto che mi venga deposto tra le mani? Prendere o dare? Darsi? Si fa? Stare in punta di divano, le mani ferme in grembo, un vago sorriso in volto, il cuore che si contorce nell’attesa, o sporgersi dalla finestra di notte, indovinando l’ombra nell’ombra? Ciò che si deve e ciò che si vuole. Infine, ciò che si può. Posso qualcosa, io, sola, sola e femmina al mondo, o posso soltanto volere, sperare, e alfine dire sì? Si può dire anche no? Sì la freccia che conduce al futuro, no la pietra che ti trascina a fondo e lì ti lascia, tra le alghe, stordita come morta? Padre, padre, quante cose non mi avete insegnato; siete andato via troppo presto. Accanto a voi avrei saputo distinguere, valutare. Ascoltarmi e infine capire. No, avrei solo interpretato i vostri cenni, avida e curiosa, e mi sarei portata di conseguenza, rinunciando a pensare, a decidere, in facile pace. E sarei stata contenta così. Anche quello, anche il nostro era amore. Ma non è metro che si possa usare ora. O invece mi avreste aiutato a leggermi, con pazienza devota, come decifrando una lingua sconosciuta, in trepida anticipazione del messaggio? Voi, voi che già avevate deciso di lasciarmi andare, prima di tutto, prima di questo strazio. E io ora non so niente. Io non mi so.

 

Beatrice Masini, Tentativi di botanica degli affetti, Bompiani

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Aspettando chi non può tornare

A 24 anni scrivevo la tesi di laurea e in biblioteca stavo quartid’ora a fissare le “Opere di Piero Gobetti”, due metri e mezzo di libri nello scaffale in alto a sinistra. Da qualche tempo sapevo che lui era morto a 25. Di cose sue avevo letto praticamente nulla, ma due metri e mezzo di articoli e saggi cozzavano parecchio duro con le mie 250 pagine in corpo 12, margini generosi, interlinea estrema.

Un piccolo romanzo racconta gli ultimi giorni del mio mito con gli occhialini e il ciuffo ribelle. Da un mese lo leggo e rileggo, aprendo a caso, come si fa – almeno credo – con una bibbia.  

 

«…la lettera di una moglie che non ha raggiunto in tempo Parigi, c’era una foto di lei con il bambino, è la prima, Non lasciarla troppo alla luce, perché non è ancora fissata e svanisce; e sentire di non avere fatto abbastanza per evitare ciò che comunque non è possibile evitare, avere per un minuto, all’improvviso, la sensazione che non sia accaduto niente, che si può aspettare anche chi non può tornare, che si possa fare soltanto questo: aspettare, nelle stanze rimaste vuote, intoccabili, congelate, fino a che piomba in un’ora del pomeriggio tutto insieme il peso dell’assenza – devastante, lugubre, senza speranza – o dentro notti infinite, tormentate e nere come questo inchiostro, fino a che con ogni atomo di noi, a una profondità che ci toglie il respiro, sentiamo l’irrimediabile, e che tutto questo è reale, reale come la vita che continua, mentre di un uomo si è costretti a dire che era, è scomparso – e una parte di noi con lui.»

 

Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli.

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Soletta, Stream of consciousness

Andrea e Antonio

Ho letto il libro che Andrea Bajani ha dedicato alla memoria di Antonio Tabucchi.

Oggi comanda la matita che sottolinea mentre leggo. A lei la parola, a lei le parole.

 

Il mappamondo svirgolato dei tuoi affetti. (pag. 17)

 

La tua voce saliva su come fumo da un camino,… / … come se non fosse ormai troppo tardi per ogni colpo di tosse già tossito… (pag. 23)

 

Se l’ignoranza fosse un vuoto, mi dicevi, sarebbe facile riempirlo di cose, di cultura, di civiltà. Ma l’ignoranza, caro mio, è un pieno. È un muro, e i muri si possono solo abbattere, oppure scavalcare. (pag. 35)

 

E dentro al telefono la tua voce slabbrata, prossima a sparire. (pag. 39)

 

Era come se mi stessi consegnando le parole, come se mi stessi facendo scivolare attraverso il telefono, dall’altra parte dell’Europa, tutto il vocabolario, per poi dirmi una frase molto semplice Qui dentro c’è tutto quello che ti serve. (pag. 40)

 

Avevo fischiato per chiamarti, in maniera maldestra, troppo forte per quella notte, per qualsiasi notte. (pag. 75)

 

E così eravate rimasti lì, insieme, tuo figlio con in braccio la tua morte appena nata… (pag. 122)

 

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Il capitolo che non c’è

Oh, boy! Che gran bel libro. So che avrei dovuto già averlo letto, mi par di aver capito sia una specie di classico. E io niente, l’avrò preso in mano cinquanta volte, riponendolo regolarmente sullo scaffale. La copertina, va detto, non viene propriamente incontro ad abbracciarti.

C’è voluta una citazione di Lella Costa nel suo saggetto delizioso sull’ironia, a convincermi di avere un conto in sospeso con quel leccalecca.

Il capitolo migliore, senza dubbio, è il tredicesimo. Non sono scaramantico e invito le gatte nere ad attraversare la strada prima del mio passaggio perché sono galante, tuttavia ho trovato di una dolcezza unica il cap. 13, mentre la vita di uno dei protagonisti è appesa ad un filo e quella degli altri non va proprio a gonfie vele.

 

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…ed è l’odore dei Limonov

E alla fine nella Pozzanghera è finito anche Limonov, il libro alla moda, il libro che spacca, il libro politicamente scorretto. Letto d’un fiato, e ora il fiato sa di limone, anche se quel “nome d’arte” in russo ha poco a che fare con gli agrumi e più con le armi. Granata, non granita.

Una lettura da cui credo di aver imparato un sacco di cose utili per capire certi snodi del presente e per immergermi in fatti più o meno remoti del secolo scorso. Ma il fascino di Limonov quello no, quello non l’ho captato, respirato, subodorato. Non avrò nulla di eroico e dannunziano, prevarrà in me un fondo di banalità e di buonismo, ma quando leggendo e sottolineando non pensavo che il protagonista fosse un fascista era perché stavo pensando che fosse un idiota, e quando non pensavo che fosse un idiota era perché riflettevo sul fatto che fosse disumano, e quando non pensavo che fosse disumano era perché lo consideravo maschilista, e quando non pensavo che fosse maschilista era perché pensavo che fosse – più semplicemente – una merda.

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A titolo di premessa

Alla Pozzanghera piacciono da matti i romanzi di Ugo Riccarelli.

Ancora una volta lo scrittore ha scelto una fotografia di Édouard Boubat per la sua copertina.

Il titolo del libro è bellissimo.

Dentro c’è un personaggio, la protagonista, che si chiama “Signorina”. Il nome proprio: Signorina. Che a un certo punto immagino qualcuno dirà: “Signorina Signorina…”. Si chiama così per omaggiare un’omonima locomotiva.

Il romanzo è dedicato ad “Antonio, che è andato appena un attimo di là”. (Qualcosa mi fa pensare a Tabucchi…)

C’è anche un verso di Garcìa Lorca, prima che tutto cominci: MUOIONO D’AMORE I RAMI.

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Sfumature di grigio

Quest’estate i libri di Cristiano Cavina sono stati una grande scoperta. Che bisognasse leggerli lo sapevo da un pezzo, ma poi va da sé che si rimanda al futuro, come per certi caffè che ci si prefigge di bere con questa o con quella persona.

Pubblicato nel 2010, Scavare una buca è un romanzo duro e spigoloso, esattamente come i suoi personaggi, minatori che da decenni scendono i gradini della terra e trovano la loro piccola porzione di senso in quel ripetitivo fare il solletico alla montagna. La trama è essenziale, scarna; succede poco, pochissimo. Gli eventi il lettore li vede accadere negl’animi dei protagonisti, ma anche in quel caso tutto è mediato da un pudore e da una dignità più veri del vero.

Anche la matita sottolineatrice, di conseguenza, non ha trovato il suo pane. Nessuna frase si staglia sulle altre, si distingue, spicca; la forza del libro sta nel collettivo, nel gioco di squadra che fanno le parole.

Unica eccezione, marchiata dalla mia grafite e da un sorriso, a pag. 132, dove si descrive l’ambiente della miniera.

 

«Il mondo ha un sacco di colori, ma se passi un po’ di tempo nel bacino di coltivazione puoi stare sicuro che te ne resta uno solo.

Polvere di gesso, con una gamma infinita di sfumature di grigio».

 

Saranno mica 50?

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Rosa Candida

Questo è poco ma sicuro: nonostante sia un libro molto di moda, nessuno è mai entrato in una libreria chiedendo “buongiorno, mi servirebbe l’ultimo libro di…”.

I vulcani islandesi hanno nomi ostici, si sapeva, ma anche le scrittrici non è che ti vengano incontro.

Più probabile che quel lettore abbia intercettato un cinguettio di Daria Bignardi, oppure si sia imbattuto in un post di Pippo Civati. Oppure è stato trafitto al cuore da una copertina einaudiana ammiccante e sontuosa. Oppure vai a sapere.

Poi però i libri vanno letti e Rosa Candida è davvero capace di portarti nei suoi luoghi, tra i suoi muschi e le sue foreste, nel suo monastero e nel suo giardino.

Ti fa incontrare i suoi personaggi stranissimi mentre fanno cose normalissime: spezzatini e figli, ma con la stessa indole meditabonda e sospesa. Un racconto di vite vissute in punta di piedi, nel tempo prezioso che si incastra tra un momento di felicità ed un altro di tristezza inguaribile.

 

«Si toglie gli occhiali e li posa sul comodino. Questo significa che non ha intenzione di leggere per prendere sonno. Io invece ho ancora il mio tomo in mano, con il dito a fare da segnalibro tra le pagine  del capitolo sulle modificazioni genetiche vegetali.

Ma una cosa mi sorprende più delle altre: osservare per la prima volta la mia amica senza occhiali, guardaree i suoi occhi senza che tra me e loro si frapponga uno spesso vetro. È come se non fossero mai stati all’aria aperta, è come assistere a una prima: la prima dei suoi occhi. Se non avesse i vestiti addosso, sarebbe meno nuda di quanto lo è adesso».

***

«Avanziamo lentamente verso il coro, dove il sole rosso arancio apparirà all’alba. A poco a poco la luce delicata si apre un varco tra le vetrate variopinte, e si spande dentro la chiesa come un velo leggero di cotone bianco. Mia figlia è immobile sulle mie spalle. Mi faccio schermo con la mano e fisso lo sguardo direttamente nello splendore accecante. È allora che la vedo, lassú, nella vetrata del coro: la rosa purpurea a otto petali. Nello stesso momento in cui il primo raggio trafigge la corolla e va a posarsi sulla guancia della bimba».

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#ilnegativodell’amore

Succede, ogni tanto. Arriva un libro, con la sua bella copertina, e si mette lì a disposizione di tutti. Un libro popolare, sì, niente di settoriale o specialistico, un romanzo dalla scrittura scorrevole, nessun rimando ipercolto, cose che accadono ai protagonisti e niente più. Un’operazione commerciale, partita da un autore o da un’autrice e passata attraverso meccanismi editoriali furbi e cinici, puzzolenti di pecunia. Tutto normale, purchè non si esageri: in fondo è così che funziona. Il meccanismo che si mette in moto, a pensarci bene, è lo stesso del Festival di Sanremo, anche se in piccolo. Fateci caso. Qualcuno impazzirà per quella storia, qualcuno la troverà ingenua ma interessante. Tutti diranno se hanno preferito Cica oppure Walker, i due protagonisti, e perché. I più acuti penseranno già agli attori idonei ad impersonare questo e quello: perché è ovvio che ne trarranno un film. Ci sarà chi vedrà in uno dei personaggi che popolano quelle 327 pagine se stesso o un suo familiare o un suo conoscente. Ci sarà chi impazzirà per quel cane spettacolare. E che dire del cavallo?, chioserà qualche altro lettore. La copertina, poi, azzeccatissima. Ti dirò, un po’ inquietante, e poi Cica me l’immaginavo diversa. Le somiglianze, gli echi, poi: come non pensare alla Solitudine dei numeri primi. Si chiamava così, no? Ecco, appunto. Verranno altri libri che cancelleranno la memoria di questo. E prima di farlo la ridimensioneranno. “Sì, carino, ma non so se è il regalo più adatto per tua sorella…”. Verranno altri fugaci successi, con altri titoli indovinati e altri occhi a guardarti dagli scaffali delle librerie. Arrivato a pag. 327, però, oggi gioisco per questa specie di Sanremo letterario che distoglierà tanti italiani dal loro presente per proiettarli verso il viso di una bambina che emerge dall’acqua.

 

«Io lo so cos’hai» dice Walker quando stanno già per arrivare al cancello.

«Sentiamo», Angelo volta la faccia a guardarlo.

«Sei innamorato» dice Walker, la bocca impastata di briciole. Pare scappato da un manicomio, così, in pigiama, in mezzo alle pozze a buttare pezzi di cornetto agli uccelli.

«Che stronzata», Angelo si schermisce, e gli tira un cazzotto alla spalla.

«Invece è vero» insiste Walker.

«Va bene, è vero.» La verità è che gli brucia la bocca, di dirlo a qualcuno.

Walker gli si ferma davanti. Lo guarda. Poi alza le braccia e se lo stringe al petto. Gli strofina contro la guancia la sua guancia di barba texana.

«Ma mi sa che a lei non piaccio affatto» precisa Angelo, dondolando la testa.

«Capisco», Walker gli stringe un braccio. «Succede anche a me.»

«Maddai» ironizza Angelo, «persino a te.»

«Però non importa», Walker si illumina: «Io amo lo stesso».

 

Maria Paola Colombo, Il negativo dell’amore

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