Soletta, Stream of consciousness

Aspettando chi non può tornare

A 24 anni scrivevo la tesi di laurea e in biblioteca stavo quartid’ora a fissare le “Opere di Piero Gobetti”, due metri e mezzo di libri nello scaffale in alto a sinistra. Da qualche tempo sapevo che lui era morto a 25. Di cose sue avevo letto praticamente nulla, ma due metri e mezzo di articoli e saggi cozzavano parecchio duro con le mie 250 pagine in corpo 12, margini generosi, interlinea estrema.

Un piccolo romanzo racconta gli ultimi giorni del mio mito con gli occhialini e il ciuffo ribelle. Da un mese lo leggo e rileggo, aprendo a caso, come si fa – almeno credo – con una bibbia.  

 

«…la lettera di una moglie che non ha raggiunto in tempo Parigi, c’era una foto di lei con il bambino, è la prima, Non lasciarla troppo alla luce, perché non è ancora fissata e svanisce; e sentire di non avere fatto abbastanza per evitare ciò che comunque non è possibile evitare, avere per un minuto, all’improvviso, la sensazione che non sia accaduto niente, che si può aspettare anche chi non può tornare, che si possa fare soltanto questo: aspettare, nelle stanze rimaste vuote, intoccabili, congelate, fino a che piomba in un’ora del pomeriggio tutto insieme il peso dell’assenza – devastante, lugubre, senza speranza – o dentro notti infinite, tormentate e nere come questo inchiostro, fino a che con ogni atomo di noi, a una profondità che ci toglie il respiro, sentiamo l’irrimediabile, e che tutto questo è reale, reale come la vita che continua, mentre di un uomo si è costretti a dire che era, è scomparso – e una parte di noi con lui.»

 

Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli.

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Soletta, Stream of consciousness

Coi più sfrenati voli, con la più austera passione

È domenica mattina e mi prende il panico. Mi compare davanti agli occhi la pagina del giornale con la foto virata seppia. Era nel giornale di martedì, di mercoledì, o di giovedì? Non ricordo. Ricordo soltanto di essermi ripromesso di leggere a sera quell’inedito nelle pagine culturali.

Al panico segue la ricerca spasmodica. Parte dei quotidiani finisce in un cassetto, carta pronta per accendere il fuoco, al mattino presto. Non è lì. Rovisto quindi nel bidone sul terrazzo – sia lodata la differenziata – e trovo la copia di “Repubblica” del 7 marzo. E pagina 43, quella che cerco.

 

Il mio Avatar sui social network aveva una moglie, bellissima.

Ed ecco il suo inedito, un testo scritto dopo 6 anni di vedovanza. Con tante grazie al fascismobuono

 

«Se la vita non mi avesse ridotta a trent’anni così disperatamente vecchia e sola, se nel mio domani ci fosse ancora la possibilità di una speranza o di un sorriso, oggi vorrei fabbricare, per la mia gioia, qualche impossibile sogno. Ho aperto la finestra: il vicolo era pieno d’ombra ma una diritta lama di sole scintillava sui vetri della casa di fronte: fuori dallo stretto intrico delle viuzze nel viale che porta al mare, indovinavo diffusa la calda luce del novembre; forse sulla spiaggia le donne dei pescatori cantavano riaggiustando le reti, certo sciami di bimbi giocando si sorridevano. Ho desiderato uscire, scuotere dalle spalle questo grigio torpore, ancora cercare ansiosamente un brivido nuovo, ancora tendere le mani. Verso che cosa? Queste mie mani che da troppo tempo non hanno carezze, non sanno più stringersi nel gesto sovrano del prendere, non sanno più schiudersi alla soavità del dare. Ho visto nello specchio il mio volto opaco, senza risalto: ho abbassato gli occhi sul vestituccio di cotonina bigia, ho sentito la disadorna povertà del mio corpo: oh, senza imprecare. Ancora una volta ho piegato la fronte.

Poiché non c’era più sole ho richiuso la finestra: mi sono seduta sulla coperta di cotone a scacchetti bianchi e rossi, sul letto gelido e duro. Ho guardato le cose intorno: la catinella di ferro scrostata, le tendine sudicie sui vetri polverosi, il tavolo consunto e roso dai tarli, le sedie impagliate.

Un piccolo ragno si inerpicava lentamente lungo il muro: l’ho lasciato salire e nascondersi in un angolo, sotto la tappezzeria lacera. Senza ribrezzo, senza timore: perché questa è la realtà.

L’ho tanto cercata la mia realtà: coi più sfrenati voli, con la più austera passione. Senza mai appagarmi. E la realtà è questa: vita che non è vita, morte che non è morte. Grigio che dilaga, dilaga, che non ha fine, che resiste, che dura, che sarà ancora oltre il pulsare malato del mio cuore e delle mie vene.

La stanza è quasi buia: e c’è il silenzio intorno. Presto sarà la notte: e torneranno anche gli altri e dovrò alzarmi, sedere al mio posto nella umiliante promiscuità della tavola comune, aprire la bocca, rispondere alle domande, mangiare.

E poi? Non piango: non debbo pensare a nulla. Domani sarà come oggi. E un altro giorno ancora.

Nulla oltre questo, nulla di diverso da questo. Non chiedo perché. Non mi ribello. Mi piego con [……] anche se la ragione mi è ignota. C’è tanta pace in questa disfatta: me ne lascio penetrare, inerte. Accetto il mio destino, con umiltà».

 

Ada Prospero Gobetti

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