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Quando Vittorio Zucconi disse addio a sua madre


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Detesto i giornalisti che parlano di loro stessi e dunque questa settimana dovrò detestare me stesso.

In un ospedale milanese, il Policlinico, è successo qualcosa di molto banale e ordinario.

È morto qualcuno, e capirai che storia sensazionale.

Già la scomparsa di un giornalista non è un evento più importante della morte, per esempio, di un idraulico. Anzi semmai è il contrario perché nessuno ha mai sentito il disperato bisogno di chiamare un editorialista quando lo sciacquone si inchioda o di telefonare a un inviato speciale quando l’acqua della doccia schizza dal lampadario. Figuriamoci quanto può essere importante la morte della mamma di un giornalista.

Se ne parlo, detestandomi  e violando la volontà di quella signora di andarsene “passando inosservata” come aveva scritto, è soltanto perché lei, la madre, era una scontrosa, difficile, incontentabile, ma affettuosa lettrice di questo magazine e di questa pagina, probabilmente – sospetto – anche a causa del fatto che ci scriveva sopra il figlio. Ogni volta che il figlio aveva voglia di smettere, lei lo ricattava, come soltanto le madri sanno fare: “No, dai, non essere il solito pigro, visto che non mi telefoni e non mi scrivi mai dall’America, almeno scrivi un’altra puntata che io la leggo come una lettera”. Una vigliaccata. Vera, va bene, ma una vigliaccata.

E io, scemo con la coda di paglia, ci cascavo, illudendomi che poi, un giorno, mi avrebbe ricompensato, come si fa con i bambini. Sei stato diligente, eccoti la caramellina.

Invece niente caramellina, niente ricompensa. Ciccia. Solo un tracciato elettrocardiografico piatto. Quando è venuto il turno del figlio di chiedere a lei, in una sera di fine giugno, il favore di restare ancora un giorno o anche soltanto una notte con noi, nel letto della magnifica Unità Coronarica del Policlinico di Milano (a proposito: ma in Italia ci si rende conto di quale fragile miracolo quotidiano sia quella famigerata “malasanità” pubblica che ora tanti idioti e tanti furbacchioni vorrebbero demolire per correre dietro alle lucciole americane?) lei mica mi ha accontentato.

Macché. Annamaria, che sarebbe poi la madre, ha chiuso il giornale e non leggerà mai più una riga. Ha donato la cornea degli occhi e li ha chiusi.

Dunque il figlio ha perduto in un battito solo, una madre e una lettrice, che per un figlio giornalista è un dolore doppio e neppure può consolarsi andando a riparare un impianto di aria condizionata o facendo qualche cosa di utile.

Ma perché non hai messo al mondo un idraulico, mamma?

Vittorio Zucconi

12.07.2003

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Leoni da tastiera, però buoni, che fanno #RoarForJess

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Premessa indispensabile: si tratta di un post buonista.

Contiene tracce di umanità ed empatia, frammenti di cura per gli altri e bontà gratuita. Si astengano pure i cinici, gli odiatori seriali, gli svelatori di complotti e i fustigatori di migranti invasori.

Non so voi, ma io ogni tanto ho bisogno di pensare che in queste pagine che scorriamo con il dito, che commentiamo, cuoriciniamo o non cuoriciniamo, ci sia ancora qualcosa di buono che ci avvicina invece che dividerci. Ho bisogno di trovarci il contrario di quel buco nero rappresentato da un mio simile che legge di un incidente con 12 vittime con la pelle di un altro colore e ci scrive sotto “meno 12”. E non lo fa come si può fare di notte con un secchio di vernice a macchiare un muro in maniera anonima. Lo fa con la sua faccia, con il suo nome ed il suo cognome, e poi si mette lì tranquillo a contare i like e gli improperi di quelli che s’incazzano, felice per l’esistenza di entrambi.

Ecco, a me serve il contrario di quella cosa lì.

E ieri l’ho trovato.

Complice del ritrovamento, il leader laburista britannico Jeremy Corbyn.

(“Comunista!”, diranno i miei 25 lettori di destra. Proprio lui, ma la politica questa volta non c’entra).

Il tweet di Corbyn che metto a fuoco sul mio telefono è una sorta di messaggio per qualcuno che non conosco. Si apre con un saluto (Hi!) e continua con un gran bel complimento (you are a shining star) e contiene una lode decisamente impegnativa: sei una fonte di ispirazione per tutti noi.

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Destinataria: Jess.

E chi è Jess?

Clicco sull’hashtag riportato dal capo del Labour e tutto diventa subito più chiaro.

DcIZvYCWkAElUYHJess è una bambina di 10 anni. Gli ultimi 7 li ha trascorsi lottando contro un male brutto, un male osceno che mi si conficca negli occhi appena clicco su qualche foto e lui sta proprio lì, a pochi centimetri da quel musetto allegro e intelligente. Un male che si vede con la stessa evidenza con cui è possibile inquadrare la dolcezza, la simpatia, la luce di quegli occhi bambini.

Il mondo dei social conosce già Jess, in passato sono esistite raccolte di fondi per permetterle di affrontare cure nuove e particolarmente costose. Questa volta, però, i familiari della piccola hanno lanciato un altro tipo di appello.

Pare, infatti, che non ci sia proprio più nulla da fare. Che le speranze di guarigione siano tramontate. Si tratta vivere il tempo che manca e la cosa che deve essere sembrata chiara e lampante a quelle persone devastate ma inclini al pragmatismo è che una giornata trascorsa attendendo il messaggio di un tuo idolo di bambina possa essere migliore di una giornata priva di quell’elemento emotivo.

Tra i primi messaggi giunti al capezzale di Jess, quello della popstar Katy Perry. Sua la canzone preferita dalla bimba, entrata di prepotenza nell’hashtag ufficiale di questa strana missione: #RoarForJess. L’idea del ruggito forse è appartenuta ad una fase in cui la medicina nutriva ancora qualche speranza per la giovane londinese, ma chi può negare che i prossimi giorni non richiedano comunque un coraggio da leonessa?

Così, rincorrendo l’hashtag di Jess ci si imbatte in attori britannici che ruggiscono in video o per iscritto, in giovani cantanti che hanno composto per l’occasione allegri ruggenti ritornelli, squadre professionistiche di pallavolo che fanno 1, 2, 3 ROOOOAR in favore di telecamera. Ho scoperto grazie a Jess che esiste ancora la cantante Belinda Carlisle: in prima liceo mi avevano regalato una sua audiocassetta.

La protagonista di un talent show britannico, il format per bimbi di “The Voice”, tale @astridsingsjazz. ha preso talmente a cuore la faccenda da riempire le sue giornate con pensieri e opere rivolti alla coetanea costretta a letto. La talentuosa cantante in erba rende un aereo e costringe il pilota a registrare un videomessaggio pieno di coccole, al quale si associa con loghi, livree e profili social ufficiali l’intera compagnia aerea.

Esistono in rete tutta una serie di bizzarri account Twitter di animali: eccoli accorrere in massa, la volpe, il gufo e l’elefante. Ognuno ha un messaggio carino, la gif di un unicorno o qualche emoticon da lasciare in dono. Ti distrai un attimo ed ecco un tweet dello zoo di Edimburgo: con gli auguri celebra l’odierna e mai più azzeccata giornata del leone: roarrrr!

Io di star system britannico capisco poco, ma piovono messaggi di cantanti, attori, dj, ballerine e disegnatori, tutte celebrità rigorosamente certificate dal social network con la sua “v” azzurra a fianco del nome. Perché i Personaggi conoscano la storia di Jess, però, è indispensabile il lavorio incessante dei mille taggatori sconosciuti che invitano i propri beniamini ad unirsi alla causa, stanando calciatori milionari e primi ministri. Messaggi hanno già raggiunto Justin Bieber e Paul McCartney, J. K. Rowling e Theresa May. Nei prossimi giorni per Jess potrebbero esserci altre sorprese.

Ogni sera, i familiari stilano un tweet per relazionare il mondo sulla giornata appena trascorsa dalla bambina. Al mattino abbastanza bene, al pomeriggio abbiamo dovuto aumentare la dose di morfina. Oggi Jess ha riso molto, ieri è andata un po’ peggio.

Jeremy Corbyn, Belinda Carlisle ed io aspettiamo quel tweet, ci sentiamo un po’ buonisti ma non certo scemi. Poi ruggiamo piano, quasi in silenzio, perché forse Jess si è già addormentata.

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Josefa salvata dal mare mentre i grillini ci salvano dai frigoriferi

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Fateci caso. Arriva Josefa – col suo corpo, coi suoi occhi – e puff, i grillini spariscono.

Una foto che è un fatto, al di là delle responsabilità dei libici e delle accuse del Viminale alla ONG Open Arms, produce un effetto inaspettato: riduce al silenzio il più rumoroso dei movimenti, quella minoranza per nulla silenziosa fattasi col tempo maggioranza roboante. Invece ieri niente: tacciono i ministri, i portavoce, i parlamentari semplici, i sindaci. Non dice nulla Di Battista, massimo esperto pentastellato di migrazioni, continua a specchiarsi negli occhi di un bambino nero che oggi gli sputerebbe. Muti i giornalisti simpatizzanti. Zitta la base degli attivisti, anche quelli capaci di paragonare le immagini di quella tragedia ad un set costruito ad hoc dai soccorritori spagnoli sembrano tutti ascrivibili all’elettorato leghista. Parla solo Grillo, a un certo punto. Anzi scrive: di frigoriferi americani che emettono troppo carbonio. Frigoriferi, capite?

 

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La ragazza del risciò

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C’era una volta una ragazza che aveva un sogno. Si trattava di un sogno fragile e prezioso, da pronunciare quasi come un sussurro. “Voglio raccontare la Cina”, diceva.

Da quel paese avevano cominciato ad arrivare, in effetti, un sacco di notizie. Sarà stato il botto di quel boom economico, saranno stati gli articoli e i libri di quel Rampini che ci dava dentro con l’informazione, ma raccontare no, raccontare era un’altra cosa. La ragazza intanto aveva preso casa in affitto a Pechino ed era certa che la cosa giusta da fare, prima di mettere mano al suo sogno, fosse osservare e capire, farsi formica tra quei milioni di formiche, farsi bicicletta tra tutte quelle biciclette. No, i cinesi non erano soltanto soldi nelle mani e sputi per terra, e quella società – al netto delle spinose questioni aperte – non andava rinchiusa nel luogo comune della dittatura. L’aria era frizzante, nella capitale si respirava un’energia estranea al vecchio continente. La ragazza che voleva raccontare non ha smesso per un attimo di guardare, di impicciarsi con gli occhi di quelle faccende che stavano cambiando il mondo e prima ancora, la vita di centinaia di migliaia di esseri umani.

È salita sui grattacieli, la ragazza, ma prima ha passeggiato tra gli ultimi hutong. Della Cina ha visto tutto: i circuiti automobilistici e gli impianti sportivi dell’Olimpiade, le rare chiese cristiane e gli ospedali psichiatrici, le dighe chilometriche e gli hangar giganteschi dove milioni di babbinatale imparano ad arrampicarsi come l’uomo ragno sulle facciate delle case d’Occidente. Con tutto si è spostata dentro quel “continente”: aerei e treni, autobus, metropolitane e barche, fino agli immancabili taxi. All’occorrenza, quando certe piogge estive esagerano e allagano le vie di Pechino, ha detto sì al traino umano di un risciò.

La ragazza ha incontrato cinesi di ogni sorta, gettando nella mischia del dialogo quotidiano il suo cinese d’università. Strana faccenda anche quella della lingua: trovi lo scrittore di grido che ti rivolge sentiti complimenti per la tua pronuncia e dopo un paio d’ore la vecchietta che ti vende 2 pesche dal carretto ti abbruttisce come se stessi parlando in coreano. Un capitolo a parte, i bambini. Li ha fotografati spesso, la ragazza. Di nascosto, acquattandosi a margine di un gioco o di una fragola succhiata piano come un piccolo rosso tesoro. Scopro in questo istante che Flickr non è morto come pensavo, e allora andate a verificare se non dicono qualcosa di bello anche a voi, i bambini immortalati dalla ragazza.

Un giorno la ragazza è entrata in un ospedale di Pechino. C’era già stata qualche giorno prima con una troupe della Rai, per raccontare la storia di Li Yue, rimasta sepolta tra le macerie del terremoto in Sichuan, e rivelatasi stella, ballerina senza una gamba, nel corso della cerimonia d’apertura delle Paralimpiadi 2008. La ragazza cercava Li Yue per consegnarle un regalo da parte di sua sorella bambina, prima tra gli italiani a ricevere quel racconto.

La vita in Cina della ragazza è durata sei lunghi anni, nel corso dei quali ha assaggiato ogni aspetto di quel mondo. Raccontare, tuttavia, non è mai stato semplice. Dopo i Giochi l’interesse per quel paese è vagamente scemato, la crisi dei giornali si è giorno per giorno acuita e l’idea di qualcuno che documenta il presente appoggiandoci sopra le suole è parsa a molti direttori eccessivamente costosa. Per vedersi concessa una pagina, servivano storie pazzesche, e la ragazza non si è fatta mancare neanche quelle. Basti pensare alla volta che si è infilata in un’assurda città ai confini con la Mongolia, celebre per i ritrovamenti paleontologici (celebrati da riproduzioni gigantesche di dinosauri in giro per le strade) e per la vivacissima vita dei suoi bordelli. Scambiata per una prostituta russa, ha raccontato la vita dei papponi e, soprattutto, delle vittime del traffico, in uno degli ultimi numeri del glorioso “Diario”.

Tornata in Italia, la ragazza ha fatto altro. Radio e Tv, soprattutto. Il sogno è rimasto lì, sottotraccia. Ogni tanto ha forse pensato di averlo perso, o che si fosse giocoforza prosciugato, estinto. Non è accaduto, invece.

Da oggi la ragazza ci riprova. Unite le forze con uno dei più attenti osservatori di quel mondo (dopo averlo anche lui lungamente percorso), si è inventata un Risciò parlante. Nel suo podcast la ragazza vi racconterà il presente del paese probabilmente già oggi più influente, ma lo farà alla luce di quegli anni di studio matto e disperato.

Lo farà come a qualcuno – a pochi – riesce di dare corpo ai propri sogni.

 

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Whish you were here a Kabul

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Quando si trovarono uno davanti all’altro, Don Lorenzo Milani e Alexander Langer discussero animatamente di molte cose. Tra le tante, del raggio d’azione che può avere la propensione umana verso il bene altrui. Per Milani esistevano precisi limiti: si può volere il bene di 300-400 persone al massimo, non di più. Langer non era d’accordo, per lui quell’orizzonte non doveva porsi limiti, l’umanità è una sola e va amata al gran completo.

Ripenso a quella discussione mentre leggo la storia e guardo le foto di Lanny Cordola, chitarrista californiano che ha lasciato una carriera di successo per trasferirsi in Afghanistan e insegnare la pratica del suo strumento ai ragazzini e – soprattutto – alle ragazzine di quello sfortunato paese.

Colpiscono le dimensioni del progetto. Piccolo, limitato: coinvolge un numero quasi ridicolo di ragazzini e porta loro una competenza minima. Nonostante i chitarristi in erba dicano di sognare ambiziose carriere, difficilmente da quelle parti le sei corde potranno sciogliere da sole i nodi delle loro esistenze.

Ma Lanny questo sa fare. Ti fa sedere per terra, ti accorda lo strumento, ti dice dove mettere le dita della mano sinistra che all’inizio sono blocchi di cemento, ti fa sentire un ritmo e comincia a battere, a levare. Come si fa negli oratori, nei campeggi o nelle ore di musica a scuola. Soltanto che lui prima batteva e levava a Los Angeles e in tutti gli Stati Uniti, batteva e levava nei dischi (batte e leva ancora su Spotify, se qualcuno ha voglia di ascoltare…). Lanny non è volato in Asia per cambiare le sorti dell’Afghanistan, a lui stava a cuore la sorte di Mursal, sopravvissuta all’esplosione che ha condannato a morte le due sorelle maggiori, le cui fotografie giganti ora addobbano la scuola per chitarristi di Kabul. Dopo Mursal sono arrivati altri studenti, non più di 50. Un po’ alla volta, come con gli accordi che si imparano. Si comincia con un MI-, ché bastan due dita più o meno nello stesso angolino di chitarra. Le canzoni spesso sono musiche popolari afghane, ma Lanny non disdegna i grandi classici di ogni strimpellatore occidentale.

In questo video, Lanny & Mursal eseguono Wish you were here. Pazienza se Mustafà, il bimbo nel mezzo, più piccolino, non va oltre il MI- di cui sopra. Imparerà.

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I nostri giornali che ci lasciano nel fango

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Ho fatto un rapido giro dei giornali on line norvegesi e ho guardato le figure. Mi è sembrato – anche se non posso esserne sicuro, ovviamente – che alcuni  nemmeno riportassero la notizia di Breivik risarcito dallo Stato per aver subito un trattamento inumano. Forse da quelle parti è già vecchia e c’hanno incartato gli stoccafissi, forse non scrivono quel triste cognome nelle titolazioni.

Fatto sta che nessuna delle testate che invece riferiscono di quella sentenza sceglie di accompagnare la notizia con la fotografia del saluto nazista compiuto da quel folle giovane durante un’udienza. I nostri giornali: tutti. Compresi i più autorevoli. Niente di nuovo, nessuno stupore. Però qualche somma dovremmo iniziare a trarla, davanti ad un fatto di tragica normalità.

La legge norvegese dice che in carcere si dev’esser trattati in un certo modo. Che la vittima sia una come nel caso le vittime siano 77. C’è una soglia, in Norvegia, e sotto non si scende. Adesso si aprirà un dibattito: ci saranno gli indignati, quelli che non potranno non pensare – loro, eh – a quelle povere madri e a quei poveri padri, quelli che ci voleva la pena di morte, quelli che riporteranno le battute che farà Travaglio, quelli che eccetera eccetera. Nel frattempo, i nostri giornali ci ricordano puntuali che quel personaggio è pure uno sporco nazista. Ci danno la loro spintina, insomma, come se servisse.

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I miei piccoli dispiaceri

 

    

   Stanco? ho chiesto.

   Mostruosamente, ha detto.

   Si è alzato per mettere un disco, ultimamente aveva il pallino del vinile. Ne apprezzava la ritualità, la procedura. Teneva in mano il disco come la gente tiene in mano i dischi, non con le dita, con i palmi. Ci ha soffiato sopra. La musica era un sussurro leggero, una chitarra acustica, niente voce. Si è riseduto al tavolo e mi ha chiesto di guardargli gli occhi.

   Spurgano, ha detto. Come se avessi un’infezione o qualcosa del genere.

   Congiuntivite? ho chiesto.

   Non so, ha detto. Ho l’impressione che gocciolino di continuo. È solo un liquido trasparente, niente pus. Mi sdraio a letto e tutto questo liquido cola fuori di lato. Forse dovrei farmi vedere da un medico, da un ottico o qualcosa del genere.

   Stai piangendo, Nic.

   No…

   Sì. Lo chiamano piangere.

   Ma di continuo? ha chiesto. Se è così non me ne rendo neanche conto.

   È un nuovo tipo di pianto, dissi. Per i tempi nuovi. Mi sono sporta in avanti e gli ho messo le mani sulle spalle e poi sui lati del viso allo stesso modo in cui lui aveva tenuto il disco.

 

Miriam Toews, I miei piccoli dispiaceri, Marcos Y Marcos

 

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I miei magnifici 11

Raccolgo la sfida lanciatami su Facebook e stilo la mia personale formazione di libri che cambiano la vita. L’espediente calcistico mi permette l’aggiunta di un undicesimo titolo, dopo che fin troppo dolorosa è stata l’esclusione del dodicesmo, del tredicesimo, del quattordicesimo, ecc.

Il numero di maglia corrisponde al ruolo da interpretare sul campo, secondo l’antica scienza numerologica calcistica, per chi la conosca e ne sappia svelare gli arcani.

Pronti, attenti, via.

1. Portiere

Alexander Langer, Il viaggiatore leggero

Perché se anche solo un uomo politico su dieci perseguisse le sue idee, il mondo avrebbe risolto ogni suo problema. Perché Alex aveva irrimediabilmente sempre ragione.

2. Terzino destro

Domenico Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso

Perché il primo giorno che sono entrato in classe mi sono comportato come sta scritto lì dentro, e forse anche nei giorni successivi…

3. Terzino sinistro

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia

La storia di una donna, che tutte le donne dovrebbero aver letto…

4. Mediano di spinta

Luigi Meneghello, Libera nos a malo

Il libro meno provinciale che ci sia, scritto in provincia della provincia della provincia che sta più in provincia.

5. Stopper

Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto

La scrittura più limpida, rotonda, perfetta. Un punto fermo.

 

6. Libero

Adriano Sofri, Piccola Posta

Perché di uomini più liberi di lui non ne conosco.

 

7. Ala destra

Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Portopalo

Mi ha fatto capire qual è LA questione del tempo in cui mi è capitato di vivere. Non solo, mi ha fatto capire anche di aver avuto un amico che si chiamava Anpalagan Ganeshu.

 

8. Mezzala destra

Elsa Morante, La Storia

Perché il bambino Useppe da solo meriterebbe la maglia da titolare. Poi ci sono tutti gli altri personaggi.

 

9. Centravanti

Antonia Pozzi, Parole

La poesia segna più della prosa. Antonia è anche il capitano della squadra.

 

10. Mezzala sinistra (regista)

Andrea Pazienza, Perché Pippo sembra uno sballato

In quel ruolo ci vuole per forza un genio.

 

11. Ala sinistra

Arundhati Roy, Il dio delle piccole cose

Perché l’autrice, tra le mille invenzioni, s’inventa il plurale di pelle d’oca (“6 pelledoche”). E poi ti porta in India, e ti ci fa accomodare.

 

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Buona scuola a tutti

 

Che cosa c’è dentro le vostre teste, bambini?

Che cosa c’era dentro la mia?

Il sandalo sporcato nella polvere,

il passo leggero del lupo

il sasso che spacca la bottiglia

l’aria pulita nel cerchio delle pupille

nel declinare del sole

la figura di un biplano rampante,

che cosa c’era dentro la mia?

 

Sono qui, con voi, perché sia voce

la mia dentro le vostre

voce dimenticata

e l’assolata fantasia dei vostri anni

la forza che reclama da ogni radice il frutto

salvata intatta nel vostro guardare di uomini,

che cosa posso perché voi possiate,

che cosa posso io, a voi che tutto potete

a voi che guardate le cose che vi daranno lo sguardo

che cosa posso, bambini?

 

Pierluigi Cappello

 

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Zeza e Giorgia

Mica per buttarla in politica, ché non ha senso.

Svegliarmi ieri mattina, però, e scoprire da Facebook come due vecchi frequentatori delle mie classi (“diplomati” a Scuolamagia tra il 2007 e il 2008) hanno percorso le strade del loro paese nel giorno topico della sagra – storia e radici, tradizioni e gastronomia – mi ha messo proprio di buonumore.

L’ironia è sicuramente un tratto distintivo nella personalità dei due giovini, che già ai tempi delle Medie nelle ore di teatro gigioneggiavano spavaldi, ma non posso non pensare come il loro rimanga un piccolo paese di provincia, dentro una nazione che si spaventa e traballa perché qualcuno mette un tanga e un boa di struzzo attorno alle sue statue più mascoline e virili.

Ignoro se si trattasse per loro di saldare il debito di una scommessa, se fosse stato indetto (dubito) qualche concorso per maschere o gara di camuffamento, se abbiano semplicemente voluto giocare un gioco nuovo. Non importa, quello che importa è che: belli, belli, belli!

 

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Fiu

 

Il braccio destro va su e giù, asimmetricamente, nervoso, sembra quello di una cantante gospel che si accompagna schioccando le dita.

Le labbra si muovono, si richiudono ermeticamente al termine di ogni frase. La bocca si arriccia.

Il corpo dondola – di qua, di là – come la lancetta di un metronomo.

La voce trema.

Il capo sale, il capo scende, il capo conferma: ebbenesì.

E poi c’è quel sospiro, alla fine, dopo il salto, il tuffo, il volo.

Fiu.

Ellen Page che dice al mondo di essere lesbica.

Americans do it better.

 

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Firenze (canzone triste)

 

Credo che in media un ragazzo senegalese su due per venire in Italia abbia rischiato la vita di brutto. Un rischio fatto di onde fameliche su barcarole scosse, un rischio fatto di lunghi cammini nel deserto o di corse folli a dorso di pick up. Un rischio fatto di galere e di secondini spietati, chiedendosi se questo è un uomo. Poi, però, capita di essere fortunati. Di farla franca, e in barba ai controlli di una Nazione che non accoglie. Capita di credere di avercela finalmente fatta, di non pensare più ai naufragi perdendosi nel profumo dell’allegria. Capita magari, in un giorno d’inverno, si salire a San Miniato al Monte, piazzate le ultime cianfrusaglia ai turisti di Piazzale Michelangelo. Il respiro affannato dopo la corsa, il fiato fumante per il freddo di dicembre, guardare l’orizzonte della città protetta dai suoi tetti come da una coperta. Illudersi, ma soltanto illudersi, di essere finalmente al sicuro.

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Il bambino che non c’è

La cosa assurda è che il primo a venirmi in mente è stato un comico. Davanti ad una scena che sapeva di morte, ho pensato subito a un volto che da sempre mi fa morir dal ridere. Mi sono ricordato dei bacini lanciati nell’aria da Epifanio, avvolto nel suo cappotto a quadretti, prima di aggiustarsi l’improbabile montatura degli occhiali sopra il naso.
In una vecchia intervista Antonio Albanese ha raccontato la genesi di quel suo inarrivabile  personaggio e di quella corporeità dolce e tragica. In un quartiere di non so quale città, l’attore si era fermato ad osservare un clochard che destinava al vento improbabili bacetti, oppure, partiti dalle labbra, li faceva riatterrare sulle pieghe della sua giacca, sui gomiti lisi, sulle spalle.

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Un sabato mattina prima dell’alba. L’atrio della stazione di Udine è deserto. Le scatole con i giornali sono già arrivate ma l’edicolante ancora non si vede. I passeggeri del primo treno rimarranno senza notizie. Il pavimento è come sempre il rifugio per molti corpi, avvolti dentro coperte di fortuna, appoggiati sopra pezzi di cartone. Non è una scena inedita, nell’Italia dei ristoranti affollati. Nell’angolo della macchinetta per le fototessere c’è una coppia di africani. Lui dorme a pancia in su, gli occhi sono due fessure sbarrate sotto un berretto di lana colorato. Non c’è cuscino, nemmeno qualcosa che funga da cuscino. Il cuscino è il berretto stesso, unica frontiera tra i capelli e le piastrelle. Lui, ma lui è come gli altri. Gli altri che dormono qualche metro più in là, poco prima del bar, o come i quattro nella vicina sala d’aspetto. Il fatto è che c’è anche lei, vicino a lui. Lei magra, lei col viso nascosto da una sciarpa viola. Lei non sdraiata. Lei seduta e vagamente appoggiata con la schiena al corpo di quel compagno assopito. Lei che non mi vedrà mai mentre la sto guardando, anche se riesco a farlo per meno di un minuto. Lei che sta accarezzando il bambino che tiene in braccio, ma tra le sue braccia non c’è niente. Lei che parla a quella creatura che non esiste o forse non esiste più. Parole che sembrano una ninna nanna e un pianto, mentre la mano affonda nell’aria come fossero capelli. Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo proprio a nessuno lo do. Lo tengo stretto, non lo mollo, è solo mio. Sembra dire, sembra.
Il treno sta per partire. È arrivato l’edicolante. Sul giornale, qualche giorno fa, ricordo di aver letto del progetto di chiudere la stazione di notte. Non ricordo chi lo proponesse. Era ovviamente una questione di sicurezza, c’era in gioco la “nostra” sicurezza. Salgo in carrozza e rivedo la stessa scena. Con quel bambino che non c’è a piangere sotto le stelle o la pioggia di novembre.   

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Quando si porta in classe una storia come quella di Beatrice Bebe Vio ci si sente quasi inutili. Non servono particolari doti di eloquenza, non serve nessuna capacità nel conquistare l’uditorio ragazzino. La storia prende il sopravvento e si racconta da sé. Scorre. Dalla pagina da leggere fino in fondo agli occhi. Dal video da guardare fino in fondo all’anima. Bebe è un anno più vecchia dei miei alunni, ma in un filmato della primavera scorsa si dice spaventata per lo stesso esame che dovranno sostenere loro tra qualche mese. Studia addirittura le stesse noiose nozioni di geografia. E poi si prepara per l’allenamento, proprio come fanno loro ogni pomeriggio. Fa una sostanziosa merenda, come farebbero loro ogni 13 minuti. Ride, si imbarazza, scherza. Dice “prendere per il culo”. Scrive, disegna e sogna: tutto uguale. Con una forza ed un coraggio, però, che i miei giovani virgulti proprio non si spiegano. E forse non serve nemmeno, sapere perché qualcuno è tanto straordinario. L’importante è poter attingere a quel talento, come da una fontana pubblica.

Alla storia e alla testimonianza di Bebe Vio attinge anche art4sport, la onlus che supporta le famiglie dei bambini e delle bambine amputati nell’ottenimento di costose attrezzature sportive, supplendo – mirabilmente, ma che tristezza… – al ruolo che dovrebbe essere dello Stato e del Sistema Sanitario Nazionale.

Fino al 5 novembre, con un SMS al 45596 è possibile sostenere art4sport donando 1 euro.



Fatto? È valido anche con il telefonino degli altri, anche a loro insaputa.

E adesso, tutti a scoprire cosa pensa Bebe della Vita!

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All’inferno con Chuck

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«Mi sente, Satana? Sono io, Madison. La prego di non prenderlo come un rimprovero. Consideri ciò che sto per dirle come un feedback esclusivamente costruttivo. Di buono c’è che lei gestisce una delle aziende più grandi e di successo nella storia del… be’, della storia. È riuscito nell’impresa di ampliare la sua quota di mercato malgrado la spietata concorrenza di un competitor diretto nonché onnipotente. Il suo marchio è ormai sinonimo di tormento e sofferenza. Tuttavia, se posso essere brutalmente schietta, il livello del vostro customer  service fa davvero schifo.»

Chuck Palahniuk, Dannazione

 

 

Concedersi una pausa Palahniuk. Ogni tanto serve. Una volta all’anno si può. Ci si mette lì, inermi. Come un quindicenne davanti al filmdinatale.

Questa volta ho imparato…

Che all’inferno finisce ogni schifezza che sulla terra ci illudiamo di occultare, dalle caccole alle unghie tagliate.
Che quando suona il telefono, stai mangiando ed è un venditore di qualcosa o il call center di un istituto demoscopico… ecco, in realtà stai parlando con l’inferno e dall’altra parte c’è un morto.
Che nel girone più infernale dell’inferno, il top del top dell’inferno, i dannati sono costretti a verdere – ad libitum – Il Paziente inglese.
Che certe cattive ragazze posso essere apostrofate come delle Zoccole Vanderzoccols, come delle Mignotte MacMignotts, come delle Vacche Van Vackenberg, come delle Ochette Von Ocherville, come delle Luride Von Luridberg, come delle Cagne Vandercagnis e qui mi fermo che se mi legge qualche alunno poi chi lo ferma.
Che finire all’inferno ci vuol poco: bastano 500 + 1 colpi di clacson, oppure aver superato il limite consentito di puzzette in ascensore.
Che all’inferno i demoni preposti muovono una farraginosa burocrazia, complicata da sgangherate stampanti ad aghi.
Che…

Adesso si riparte con i saggi e le altre letture seriosissime, ma una volta all’anno, un Palahniuk non è peccato. Almeno credo.  

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Le canzoni oneste di Giua

In un suo vecchio rendiconto dal Premio Tenco, Gianni Mura faceva le pulci ad alcuni grandi nomi del cantautorato italico. In quell’edizione c’erano Ivano Fossati – “la sensazione è quella di stare dentro un bicchiere di ghiaccio” (!!!) – e Eugenio Finardi – “come stare dentro un bicchiere di miele, e non è certo una sensazione migliore”. Per dire, nessuno è perfetto. E de gustibus non est disputandum, anche. E nemmeno “sputa(na)ndum”, oibò!, come Gianni Mura faceva con Fossati, che algido proprio non è e anzi può darti fuoco quando vuole con due scintille di pianoforte.
Io un giorno ho scoperto le canzoni di Giua e un difetto glielo devo ancora trovare. Certo, sono ancora poche, ma lì è solo questione di pazienza. La notizia è che tra alcuni giorni, il 3 agosto, Giua suonerà nella mia cittadina, lo farà in uno scenario suggestivo (ma che cose banali scrivo: da che mondo è mondo tutti gli scenari sono suggestivi…). Lo farà accompagnata dalla sua chitarra. E la chitarra accompagnerà – mano nella mano – i testi delle sue canzoni.

Giuin

Piccolo bignami, quindi, giusto per rendere l’idea.

«E penso ogni tanto a quello che sono / una cattiva vendetta, un cattivo perdono…»

«Le tue mani conoscono il freddo / e la pioggia che ha intriso i tuoi pantaloni…»

«Belle le domeniche di cicale / a imparare un rumore / al fremito, al desiderio / di mare. / Bella la tua faccia di donna / e il suo gioco di ombre / bella la tua vita non mia…»

«Che nessuno la baci / la tua faccia bianca di cera / e che il tempo migliore ti accompagni la sera…»

«Tagliano i denti tagliano / parole di vetro e i pensieri si sbagliano / tu scrivimi dall’ombra di un foglio / e ti dico che niente, niente / poteva andar meglio…»

«Stoppa gialla, malva, marna, madido / sorte sorta senza calma, ispido. / Sei tu, tremore lucido…»

A scanso di equivoci, Giua non è la musicista da torre d’avorio, la cultrice dei palati fini. Giua si colloca al di fuori dell’eterna lotta tra i fenomeni di nicchia e i fenomeni da baraccone. Giua è il miracolo che si ripete (ma mica tanto spesso, si ripete…) delle canzoni quando sono belle e lo sono in se stesse e soprattutto… arrivano al dunque di un’emozione. Il miracolo della musica leggera, “ma come vedi la dobbiamo cantare”.
In fondo, parafrasando un grande poeta, ai cantautori non resta altro da fare che le canzoni oneste.
Siete tutti invitati a sentire le canzoni oneste di Giua, il 3 agosto a Gemona.

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Beijing mia, portami via…

Mali
Eccomi qua, sono veduta a vedere lo strano effetto che fa la mia faccia nei vostri occhi. Sembrava dire questo, la Grandecantante sul palco sotto le stelle. Camminava dinoccolata, padrona di un mondo, lei da sola. Gli altri tutti sotto, piaccia o non piaccia. Sapeva di meritare quel posto, di esserci tagliata. Come fosse stata la musica a scegliere lei e non viceversa. Classe e mestiere, genio e tecnica, faticosa applicazione e dono di natura: tutto insieme, fuso, senza finzioni e artifici.

Veniva voglia di cantare, di camminare nella scia di una canzone. Cantare protegge, cantare è contagioso.
Scelgo canzoni da viaggio e preparo una partenza. Nei pochi mega liberi ci riinfilo anche la Grandecantante. Poi sistemo i libri: le poesie di Gianni D’Elia, il saggio di Edmondo Berselli, il viaggio di Valeria Parrella, l’inchiesta di Gabriele Del Grande. Manca un romanzo, nessuno mi ha sedotto al punto di entrare in valigia. Succede.
A presto.

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C’è PROVA e PROVA

Da lunedì mattina sulla lavagna della 3ª C c’è scritto PROVA. L’ho scritto io. In stampatello maiuscolo. In grande. Poi giorno per giorno i singoli insegnanti ci aggiungono: “di italiano”, “di matematica”, “di tedesco”. E via esaminando. Non c’è dubbio che 5 scritti metterebbero a dura prova chiunque. Però quel termine, PROVA, mi fa pensare, piuttosto, al gusto di spingersi in un luogo nuovo e sconosciuto, all’idea di sperimentare, di testare testandosi. Tutte cose che gli studenti in queste lunghe mattine non fanno. Sotto i loro occhi trovano infatti il più classico dei compiti: la solita minestra ministeriale, la solita traccia, le solite domande. Per dimostrare quello che – nel bene o nel male – han già dimostrato mille volte.

Music

Oggi pomeriggio, però, quattro ragazze e una Prof. hanno ridato senso a quella parola che ho scritto tre giorni fa come faccio ogni anno.
Si sono ritrovate nella stessa stanza e hanno “provato”. Sempre di esami stiamo parlando, ma stavolta si trattava di preparare un brano che verrà eseguito tra qualche giorno in occasione del colloquio orale. Quattro clarinetti intrecciati dentro un allegretto di Handel. Leggo (Wikipedia) che esistono allegretti moderati, allegretti normali e allegretti graziosi. Beh, per usare un’espressione cara a una delle musiciste, quello di oggi pomeriggio era senza ombra di dubbio un “allegretto scompisciato”. Hanno riso di gusto, davvero, tutte, ma hanno soprattutto preso il largo su una nuova strada, una strada difficile di tastini da raggiungere con le dita tremanti, una strada fatta di tempi da non perdere. Si sono avventurate con coraggio, anche se c’era chi le teneva per mano. E finalmente, dopo 3 giorni, in quella stanza si è materializzata una “prova”. La stavo aspettando.

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