Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le canzoni son di tutti ma di qualcuno, forse, un po’ di più…

 

Le canzoni son di quelli che sputan sul parabrezza mentre le cantano, e che antepongono il tornare indietro su quel passaggio meraviglioso a una ripartenza col verde dal semaforo.

Le canzoni sono di quelli che hanno il vinile originale, di quelli che hanno il CD con la custodia rotta, di quelli che avevano la cassetta ma o l’hanno persa o c’han registrato sopra della musica più brutta, di quelli che te le passano col telefonino prima di accorgersi che in pugno stringi un Nokia 3310.

Le canzoni sono di quelli che hanno sviscerato il testo e la sanno lunghissima sulla genesi e sui retroscena, sulle citazioni e sugli aneddoti connessi.

Le canzoni sono di quelli che gli sembra sempre già sentita e che dietro c’è sicuramente l’ombra di un plagio (con le due varianti: “lo scriverò a Travaglio!” e “ma in fondo, le note sono solo 7”).

Le canzoni sono di quelli che dopo quel disco non ne ha più fatte di così, valido per tutti gli interpreti e per tutti gli album dopo il primo.

Le canzoni sono di quelli che le sanno a memoria.

Le canzoni sono di quelli che sanno anche gli accordi.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e a volte ci metton quelle della strofa prima.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e a volte le inventano di sana pianta.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e allora cantano appena fuori sync, giusto quei due secondi, con un improbabile effetto eco da valle dolomitica.

Le canzoni sono di quelli che c’hanno creduto quella volta che De Gregori al 1° Maggio si è chiesto “perché una canzone è una canzone popolare?” e si è risposto – manco fosse da Marzullo – “perché l’abbiamo scritta tutti quanti assieme”.

Le canzoni sono di quelli che le cantano a squarciagola anche se sono trasmesse in sottofondo dentro un negozio di scarpe.

Le canzoni sono di quelli che una volta le ricopiavano a mano sulla carta, altro che “angolotesti” o “testimania”.

Le canzoni sono di quelli che fanno le seconde voci, tra gli occhi sgranati degli astanti.

Le canzoni sono di quelli che “meno male che c’è sempre qualcuno che canta e la tristezza ce la fa passare…”.

Le canzoni sono di quelli “con gli amici cantiamo una nuova canzone”, ma le domande consuete son sempre le stesse.

Le canzoni sono di quelli con la chitarra classica simile a quella del loro idolo, che si filmano e postano su YouTube mentre le eseguono, mentre le stonano, mentre le sbagliano, ma le amano dio se le amano, e alla fine sono i primi a scrivere un commento sotto: «Ragazzi, scusate se sono un po’ impacciato…».

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Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Happy a Scuolamagia

 

Il piccolo festival del cinema indipendente di Forni Avoltri continua (e si conclude) con il cortometraggio delle ragazze: Irene, Nicole, Evelyn e Rebby.

Non chiamate “disimpegno” la cifra stilistica della loro opera. Vi assicuro che per raggiungere l’obiettivo di spassarsela al massimo ce l’hanno messa davvero tutta, sottoponendo il paese intero ad una sorta di invasione barbarica a colpi di balli, strilli e risate.

Buona visione.

(Piuttosto agghiacciante scoprire che nelle settimane di lavorazione analoga impresa di abbinare allegre movenze a quella musica così globalmente popolare era tentata anche da un gruppo di giovani adulti di Teheran, con la differenza che i malcapitati – in realtà molto più composti delle quattro tredicenni italiane – hanno scontato con il carcere la colpa di essersi dichiarati nientepopodimeno che felici).

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Le storie di Scuolamagia, Soletta

Cartolina di Forni Avoltri

 

Marcello, Cristiano e Thomas hanno raccontato con un video il loro paese, che è poi quello in cui ha sede Scuolamagia e in cui mi reco ogni giorno a bordo della mia aula, pardon… della mia auto. L’hanno realizzato a scuola e nel corso dei loro pomeriggi, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Ad unire tra loro le varie scene hanno voluto che fossero le biciclette.

Le ricadute sul Pil del comune in cui vivono saranno inevitabili e incalcolabili (incremento dei flussi turistici, commesse industriali…), ma i 3 giovani cineasti hanno agito in maniera del tutto disinteressata, concentrati cioè sulle consegne del profdisint e su null’altro.

Buona visione.

 

Domani tocca al secondo video prodotto dalla 3ª C, quello delle ragazze. Stay tuned.

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Fiu

 

Il braccio destro va su e giù, asimmetricamente, nervoso, sembra quello di una cantante gospel che si accompagna schioccando le dita.

Le labbra si muovono, si richiudono ermeticamente al termine di ogni frase. La bocca si arriccia.

Il corpo dondola – di qua, di là – come la lancetta di un metronomo.

La voce trema.

Il capo sale, il capo scende, il capo conferma: ebbenesì.

E poi c’è quel sospiro, alla fine, dopo il salto, il tuffo, il volo.

Fiu.

Ellen Page che dice al mondo di essere lesbica.

Americans do it better.

 

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Allora come spieghi questa maledetta nostalgia

 

 

C’era una volta una giovane donna che ritagliava sagome umane dalle foglie. Era un’artista, quella donna, e perseguiva il vecchio grande sogno di fare della propria vita un’opera d’arte. Compiendo gesti come mettersi in cammino e raggiungere Gerusalemme in autostop, vestita da sposa. Milano, Venezia, Gorizia, Lubiana, Banja Luka, Sarajevo, Belgrado, Sofia e avanti, mettendo in campo la sua fiducia negli umani come fanno ogni giorno gli autostoppisti e quelli che li raccolgono.

C’era una volta questa giovane donna che fu vittima della sua opera d’arte, di quel gioco di fiducia e speranza infrantosi sullo scoglio di un maschio feroce, violentatore e assassino, in terra turca. Ho un vago ricordo di quelle cronache e di quegli imbarazzi. Certo che… una donna… da sola e vestita da sposa… In quelle lande, poi… Voce del verbo “andarsela a cercare”, coniugato fino quasi a convincermi. D’altra parte non conoscevamo ancora la parola “femminicidio”, non avevamo ancora ascoltato le omelie dei parroci fustigatori di minigonne, e le donne non ballavano tutte assieme la danza che Pippa Bacca eseguiva già benissimo da sola, e correva l’anno 2008.

Il nuovo video di Malika Ayane, reduce da Sanremo, sembra celebrare in maniera discreta, davvero sottovoce, l’ultimo progetto di quella donna che ritagliava uomini dalle foglie e si fidava ciecamente del suo prossimo.

 

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Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Scuolamagia, Maybe

Ci sono un monopattino e una bicicletta. Una bmx, per la precisione. C’è una colonna portante e c’è una bidella (im)portante. C’è un divano. No, mi correggo: c’è il divano. Ci sono quattro gloriosi computer scassati: lenti come la morte, ma ne hanno viste tante, e fatte vedere di più. Ci sono scale, ci sono banchi. C’è il pallone giallo, spompo, della scuola, e c’è quello bianco e nero, un gioiello che portano Evelyn e Marcello da casa. Ci sono un sacco di “telefoni fatti a mano”, come nel modello ispiratore dal successo planetario. C’è Nuvola, professione cane, che quasi ogni giorno accompagna a scuola Nicole. Ci sono un’Ape Piaggio e uno Scuolabus giallo con un ferro di cavallo: l’autista è lo stesso. C’è un portone che è sempre aperto e c’è una panchina di legno. C’è Andrea Pazienza. Ci sono squadrette di calcio e righelli di plastica, capriole e boccacce, corna e ballerine. Da leggere c’è il “Corriere della Sera”, ma ci sono anche i diari. Ci sono le mutande celesti di un acrobata. C’è un tablet che in teoria non si dovrebbe vedere ma se state attenti si vede lo stesso, in barba a chi lo ha adoperato come una telecamera.

Ci sarebbe anche dell’altro, molto altro, ma poi la canzone è finita lì. Sarà per la prossima volta, maybe.

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Cineserie, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Io e Lui, Jane Lui

Jane Lui è una cantautrice e musicista californiana nata ad Hong Kong. Suona qualsiasi strumento le venga posto tra le mani, comprese le pareti di casa sua e i boccioni per l’acqua che si usano negli appartamenti delle grandi città, ed ha una voce stupenda. Non so nulla di lei se non quello che si può evincere dal suo canale YouTube, dai sui profili di Facebook e Twitter. Non conosco nessuno che ascolti la sua musica o abbia almeno sentito una volta pronunciare il suo nome. Anzi, ci penso in questo momento: io stesso non ho mai pronunciato il suo nome e l’ho scritto per la prima volta in questo post.

Come molti, ho incontrato per la prima volta Jane in questo video diventato presto virale ed è stato facile fare una diagnosi: “bravissima, ma al giorno d’oggi se si vuol campare di musica o ci s’inventa qualcosa di geniale o ci si attacca al tram”.

Il teatro in cui questa poliedrica artista si esibisce, a qualsiasi ora del giorno e della notte, è YouTube, dove i suoi video catturano per simpatia, dolcezza, originalità, romanticismo, mestiere.

Però, lavorare in questo modo alimenterà ancora per chissà quanto tempo i pregiudizi del pubblico e opere ispiratissime finiranno inevitabilmente nel calderone del dilettantismo allo sbaraglio. Una vera ingiustizia per chi possiede talento e magari ha pure studiato un sacco.

Ne ho avuto la conferma ieri, quando Jane Lui si è rivolta ai suoi utenti con una lettera accorata. Al giorno prima risaliva la pubblicazione della sua ultima creatura: un medley di brani hip hop/rap interpretati da 4 suoi giovani collaboratori con le voci di un nutrito numero di celebrità vere o di cartone, vive o morte, da George W. Bush alla rana Kermit, da Richard Nixon a Woody Allen.

 

Una cavalcata musical-cabarettistica di 6 minuti e 13 secondi in cui fa capolino ad un tratto l’imitazione muta e tremendamente riuscita dell’astrofisico Stephen Hawking. Causa, quest’ultima, di una serie di reazioni indignate da parte dei primi fruitori del video, nonostante il geniale scienziato abbia spesso messo in gioco il suo sense of humour, comparendo ad esempio negli episodi dei Simpson e – addirittura in carne ed ossa – nella serie di successo Big Bang Theory.

Insomma, in nome del politicamente corretto alcuni americani hanno reagito rumorosamente e Jane Lui, regista e arrangiatrice del video, c’è rimasta male.

 

«Prima di tutto, come arrangiatrice / regista del video, vorrei assumermi personalmente la responsabilità per il mio amico, Spencer, che ha fatto l’imitazione. Sono stata io a scegliere personaggi e canzoni, e mi assumo la mia piena responsabilità nell’affrontare questa discussione e queste scuse».

 

«Mi rendo perfettamente conto che il fatto che non fosse mia intenzione ferire nessuno non ha nulla a che fare con l’effetto finale di questa scelta che ho fatto. Il fatto che  sia stata percepita come offensiva merita tutta la mia attenzione e una risposta. Quindi sono qui per affermare che sono profondamente dispiaciuta».

 

«Alcune persone con cui ho parlato mi hanno detto: “Non sei la prima persona ad aver scherzato su questo” o “Ci sono state imitazioni molto più crudeli su altre celebrità”, ma non credo che ciò mi esenti da delle scuse sincere, e dal riconoscere il male che posso aver provocato – anche perché “ripetere un modello solo perché c’è stato qualcosa di peggiore” è il motivo esatto per cui la discriminazione di perpetua, e da ciò ho imparato che posso essere più sensibile e attenta nel mio approccio».

 

Jane ha fatto quindi un passo successivo. Ha aperto un dibattito pubblico, per dare voce a tutte le opinioni, dicendo che avrebbe eliminato il video dalla rete nel caso la maggioranza degli utenti l’avesse democraticamente sancito.

 

«Anche nel caso prevalessero gli apprezzamenti per il video, sono profondamente dispiaciuta per la scelta che ho fatto che può aver causato dolore a qualcuno. Sto imparando ogni giorno ciò che significa essere più attenta nelle mie scelte e a tutte le interpretazioni delle stesse, sto imparando che ho la responsabilità davanti al mio pubblico di comportarsi rispettosamente, mostrando compassione e lavorando senza sosta verso una maggiore integrità creativa».*

 

Tutto molto onesto e anglosassone, direi. Se provo a immaginare la stessa situazione nel mio paese vedo gente che propone la gogna per l’artista blasfemo e l’artista che piange per essere finito tra le maglie laceranti della peggior censura. Un meccanismo che si inceppa al primo sassolino negli ingranaggi e non riparte. Non si mette in discussione, come ha dimostrato di saper fare una grande cantante che sa imitare perfettamente il Diavolo della Tasmania.  

*Il pensiero di Jane Lui è stato tradotto – fifty fifty – da Pozzanghera e da Google. 

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