Piccola posta, Res cogitans, Stream of consciousness

Nessuno tocchi Caino, e neanche Doina…

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Prendo un pugnetto di righe di Adriano Sofri a cui sono  molto affezionato, scritte pensando a Erich Priebke. Mi permetto di sostituire alcune parole, e al posto del vecchio nazista ci metto la trentenne Doina Matei. Il discorso fila lo stesso, limpido, con il surplus di pietà che una ex prostituta di trent’anni, madre a 14, carcerata da 9, merita rispetto a un vecchio camerata coerente fino all’ultimo con il suo passato di carnefice.

«Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Doina Matei fosse stata rimandata a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che donna sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali selfie posti o non posti su Facebook, di quali sorrisi si renda protagonista.  Riguardano lei. Forse riguardano i parenti della vittime, ammesso che diano peso a ciò che lei dice o tace, o fotografi: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che donna sia, ma che sia una donna.»

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Halloween? No, Natale

“Pensaci tu”, mi ha detto un giorno quella mamma. Aveva appena constatato come la sua bimba di paura non ne facesse nemmeno un grammo, e quello era un pomeriggio di fine ottobre da consacrare agli zombie e agli scheletrini, sotto la luce di una zucca vuota, un pomeriggio da mostriciattoli che sgranocchiano biscotti a forma di bara. In effetti, quella sposa cadavere era tutto fuorchè impressionante: la tradivano un sorriso raggiante e una scorza impenetrabile di dolcezza. “Pensaci tu”, una parola. Avere qualche dimestichezza con i fogli e le matite non significa sapersi trasformare alla bisogna in esperti di body painting.

Ho cominciato disegnandole un ragnetto sulla fronte, rompendo il ghiaccio tra quella pelle di latte e il nero di una matita per il trucco. La mano che tremava ha reso quella bestiola goffa e incerta, decisamente inefficace.

Registrate le dimissioni della mia fantasia, ho ripiegato mestamente sui consigli di Google, fino a scoprire un motivo evidentemente caro ai cultori della materia, con decine e decine di immagini: la bocca cucita.

Si squarcia qui il velo che separa un post simile a tanti altri su questo blog, del tipo “gustoso aneddoto dal mondo bambino e ragazzino”, da un tuffo nella realtà agghiacciante del medioevo che stiamo attraversando.

Un paio di mesi fa ho disegnato sorridendo quello che ieri è accaduto per davvero. Neanche per un secondo ho pensato che quel topos si potesse materializzare al di fuori di quel gotico immaginario.

Ho steso una base di rosso sangue sulle guance, e alla mia modella faceva il solletico. Ho tracciato in nero il percorso verticale del filo, ho aggiunto (male) sfumature bianche. Ho scattato una foto e l’ho pure piazzata sulla mia bacheca di Facebook. A scuola, il giorno dopo, un’alunna ha pure recensito schifata la mia opera, dicendomi come avrei dovuto fare, e cosa avrebbe fatto lei al mio posto.

Oggi Concita De Gregorio ha scritto un editoriale che rimette un po’ di cose al loro posto, nel giusto ordine. È per questo che si ripiomba nei medioevi, si perde l’ordine.

 

«Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva.

Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come?» 

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Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

L’amore che c’è dentro, l’amore che c’è fuori

A volte, magari proprio di domenica, capita di leggere quasi integralmente tre quotidiani e un inserto e che la tua sete di storie rimanga a bocca asciutta. Poi a mettere le cose a posto ci pensa una piccola lettera, in quello spazio che spesso e volentieri sorvoli diretto altrove, ché in quelle pagine ci son prima di tutto gli editoriali ed i commenti autorevoli. Ci pensa un lettore con un pensiero controcorrente, con un’osservazione limpida quanto spiazzante.

Amnistia per tutti coloro che – fatti i conti con ovvie e sensate limitazioni – possono beneficiarne, pazienza se ci finisce in mezzo uno che non la meriterebbe.

Amnistia perché l’amore che è dentro possa incontrare l’amore che è fuori.

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Res cogitans, Soletta

Nino si chiamava

Dopo il libro più bello dell’estate, sicuramente quello più originale. Già il genere: una fantabiografia. Vita e pensieri verissimi raccontati con disegni stranianti: un uomo gigantesco raccontato a fumetti come fosse un bambino infinito, un po’ Peter Pan, un po’ (anche nel tratto) Piccolo Principe. Tante le cose imparate, altrettante le sottigliezze che, purtroppo, credo mi siano sfuggite.

In una parola: emozionante.

 

Carissimo Delio,

mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio.

 

Antonio

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il terremoto dietro le sbarre

Il tuo lavoro è nei gesti che fai. Il tuo lavoro è i gesti che fai. Stringi il volante, digiti su una tastiera, spadelli spignatti e brandisci una motosega. Ammonisci con un dito, infili un ago in una vena, spalmi della malta tra un mattone e un mattone. Se sei fortunato fai un fa#- o uno smash, scrivi una poesia o tagli un traguardo a braccia alzate. Sempre gesti sono. Se sei fortunato, soprattutto, li hai potuti scegliere.

Da giorni mi perseguita l’idea di un gesto. Fa parte dei doveri quotidiani di certi lavoratori, in genere appartenenti alla categoria “sfortunati”: gente che non ha scelto.

Non so nemmeno a che ora si compia, quell’azione. Immagino di pomeriggio, ma potrebbe anche non essere così. Forse prima suona una campanella, oppure una sirena come quella di certe fabbriche. Un segnale che tutti conoscono, a dire che è ora. Probabilmente non servono parole, basta osservare le sigarette aspirate in fretta, gli ultimi passi inquieti, gli ultimi tocchi al pallone (anche qui siamo di fronte a questioni di fortuna), gli ultimi sguardi verso l’alto ad abbracciare un ramo, una nuvola, un temporale che arriva.

I prigionieri credo la odino per questo, l’ora d’aria: finisce subito. Poi si tratta di preparare il gesto – semplice e automatico – cercando il ferro che pende dalla cinta, il ferro delle chiavi, lunghe e pesanti. In pochi attimi, il tempo di qualche replica lungo un corridoio, il dovere è compiuto. Le celle sono chiuse. Il rumore è un’abitudine, tripla mandata: 1, 2, 3. Fine. Si torna in ufficio, con la “Gazzetta”, il caffè, le chiacchiere dei colleghi.

Mi perseguita l’idea di un gesto. Mi immedesimo in chi è costretto a compierlo in questi giorni in Emilia, nelle carceri di non so dove. Salvo casi rarissimi, non conosciamo il nome delle nostre prigioni.

Ci sono uomini che chiudono la porta a chiave. La chiave che gran parte degli italiani – come in quella famosa espressione – addirittura “butterebbe via”. C’è tanto, tantissimo da fare per l’Emilia terremotata. Forse dovremmo anche dividere con quelle persone il peso – morale – di quelle mandate.

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Il post è già scritto quando scopro con piacere che probabilmente, nella fattispecie, sono stato troppo pessimista.

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