Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il mondo salvato da Bebe Vio

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Piccola noterella divergente.

Bebe Vio alla Casa Bianca, una notizia di cui si è parlato molto. Come? Così:

  • un 96% di italiani fieri e toccati, quasi commossi;
  • un 2% (fisiologico) di idioti;
  • un 2% di speculatori (“è un gesto strumentale, la campionessa vale, ma nella fattispecie serve solo a raccattare in vista del referendum”).

Poteva andare peggio.

La notizia a mio parere era un’altra. Se Renzi avesse cercato la storia di uno sportivo paralimpico emancipatosi da un passato di dolore, voltato clamorosamente in gioia di vivere come fosse un calzino, avrebbe potuto pescare nel mazzo dei tanti atleti esemplari del Team Italia reduce da Rio. Nessuno avrebbe avuto nulla in contrario se al tavolo di Obama si fosse seduto a banchettare Alex Zanardi. Quella casella – chiedo scusa per la semplificazione – sarebbe stata comunque degnamente riempita.

Bebe Vio, invece, è soprattutto una ragazza. Una ragazza che, se uno non sapesse già diplomata e sul punto di intraprendere una carriera lavorativa, male non starebbe dentro la definizione di ragazzina. Sarà l’aria sbarazzina, sarà per quel sorriso che – en garde – è come una stoccata vincente. Una giovane italiana sul punto di chiudere il cartone dell’adolescenza, prima di dimettersi da quello sporco lavoro fatto di scelte ed errori, sbalzi d’umore e sbalzi d’amore, pianti e brufoli, eroi di cartone, interrogazioni di diritto, selfie e ricerche disperate di identità smarrite. Una tipologia di persona di cui tutti conosciamo l’esistenza, ma che tutti lasciamo spesso lì parcheggiata, in attesa di compiersi, né carne né pesce.

Metti una sera a cena da Obama e invece, per una volta, no.

Premi Oscar, donne che portano sulle spalle responsabilità enormi e hanno meriti universalmente riconosciuti, leader di potenze mondiali e una ragazzina che ricorda a tutti come la vita sia sostanzialmente una figata.

Un punto di vista indispensabile, direttamente da un pianeta misconosciuto.

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Soletta, Stream of consciousness

Chi ti manda, Chimamanda?

Che i due libri preferiti di questo mio 2014 siano entrambi scritti da donne certo non mi sorprende. Che le due autrici si chiamino Auður Ava Ólafsdóttir e Chimamanda Ngozi Adichie mi fa sorridere e ringraziare il presente dei libri acquistati on line, con un clic, senza dover passare per una libraia od un libraio davanti ai quali incartarsi: “avete mica l’ultimo di… ehm… ecco… l’ho scritto qui, sul bigliettino…”.

Americanah è un romanzo strepitoso. Riempie i giorni, e li cambia. Anche se lui è rimasto buono buono sul comodino, finisce che ti ritrovi a sorvolare la Nigeria con Google Earth mentre sei in un’altra stanza per fare altro. Il fatto è che vuoi vedere le strade polverose di Lagos e le automobili che le percorrono, i grattacieli, e le università. Anche se sei fuori casa e l’Einaudi bianco è a chilometri da te, ti ritrovi su YouTube, col telefono, ad ascoltare la canzone (stupidina) che sentono in macchina i due protagonisti appena si rincontrano dopo molti anni di lontananza.

Americanah è bellissimo perché ha tante facce come un diamante. Mille temi universali intrecciati ad arte che mai disturbano lo scorrere della storia d’amore, quella della canzone stupidina, al centro delle vicende narrate.

Dentro Americanah ci sono la Storia e la Geografia, il colonialismo e Barack Obama. Leggi Americanah e capisci il clima di Ferguson-Missouri, capisci perché un africano, anche benestante, non può non voler partire per qualche altrove.

E poi c’è l’amore, dentro Americanah, quello che fa rimanere due persone  unite nella distanza, invulnerabili dinanzi allo scorrere del tempo, “allacciate in un cerchio di completezza”.

 

 

«Le sue parole erano come musica, e si sentì respirare in modo sconnesso, inghiottendo l’aria. Non voleva piangere, era ridicolo piangere dopo tanto tempo, ma i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime e sentiva un macigno nel petto e la gola le pungeva. Le lacrime le facevano prudere il viso. Non fece rumore. Lui le prese la mano nella sua, entrambe strette sul tavolo, e tra loro crebbe il silenzio, un antico silenzio che antrambi conoscevano. Lei era dentro quel silenzio e stava al sicuro».

Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah

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Senza categoria

Fiu

 

Il braccio destro va su e giù, asimmetricamente, nervoso, sembra quello di una cantante gospel che si accompagna schioccando le dita.

Le labbra si muovono, si richiudono ermeticamente al termine di ogni frase. La bocca si arriccia.

Il corpo dondola – di qua, di là – come la lancetta di un metronomo.

La voce trema.

Il capo sale, il capo scende, il capo conferma: ebbenesì.

E poi c’è quel sospiro, alla fine, dopo il salto, il tuffo, il volo.

Fiu.

Ellen Page che dice al mondo di essere lesbica.

Americans do it better.

 

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