Dentro la tasca di un qualunque mattino è stata la mia prima canzone sua. Un pezzo sorprendente, semplice e originalissimo. Ore a chiedersi chi fosse quel genio in ritardo, mostrosacro senza apparente passato. Ore spese a cercare la nota nascosta dalle parti di quel SOL maggiore, minuscola ma indispensabile. Per poi cantare, cantare, cantare ancora.
Mi piace ricordare un grande cantautore ricercando per i fatti miei quella nota maledetta – si è nascosta di nuovo, ma la scovo, sì che la scovo – e postando questo video.
Gianmaria sta sul trespolo, l’arpeggio già si muove come onda, la canzone è salpata. Arriva una ragazza, commessa di libreria. Gli versa in un calice un vinello frizzante, sussurra qualcosa di inutile, che niente a che fare con quella magia in corso. Il cantautore sorride gentile, fa sì con la testa, la bocca ancora al riparo sotto la coperta dei baffi. Dolce. Inizia a cantare. Dentro la tasca di un qualunque mattino, dentro la tasca ti porterei.
Le canzoni son di quelli che sputan sul parabrezza mentre le cantano, e che antepongono il tornare indietro su quel passaggio meraviglioso a una ripartenza col verde dal semaforo.
Le canzoni sono di quelli che hanno il vinile originale, di quelli che hanno il CD con la custodia rotta, di quelli che avevano la cassetta ma o l’hanno persa o c’han registrato sopra della musica più brutta, di quelli che te le passano col telefonino prima di accorgersi che in pugno stringi un Nokia 3310.
Le canzoni sono di quelli che hanno sviscerato il testo e la sanno lunghissima sulla genesi e sui retroscena, sulle citazioni e sugli aneddoti connessi.
Le canzoni sono di quelli che gli sembra sempre già sentita e che dietro c’è sicuramente l’ombra di un plagio (con le due varianti: “lo scriverò a Travaglio!” e “ma in fondo, le note sono solo 7”).
Le canzoni sono di quelli che dopo quel disco non ne ha più fatte di così, valido per tutti gli interpreti e per tutti gli album dopo il primo.
Le canzoni sono di quelli che le sanno a memoria.
Le canzoni sono di quelli che sanno anche gli accordi.
Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e a volte ci metton quelle della strofa prima.
Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e a volte le inventano di sana pianta.
Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e allora cantano appena fuori sync, giusto quei due secondi, con un improbabile effetto eco da valle dolomitica.
Le canzoni sono di quelli che c’hanno creduto quella volta che De Gregori al 1° Maggio si è chiesto “perché una canzone è una canzone popolare?” e si è risposto – manco fosse da Marzullo – “perché l’abbiamo scritta tutti quanti assieme”.
Le canzoni sono di quelli che le cantano a squarciagola anche se sono trasmesse in sottofondo dentro un negozio di scarpe.
Le canzoni sono di quelli che una volta le ricopiavano a mano sulla carta, altro che “angolotesti” o “testimania”.
Le canzoni sono di quelli che fanno le seconde voci, tra gli occhi sgranati degli astanti.
Le canzoni sono di quelli che “meno male che c’è sempre qualcuno che canta e la tristezza ce la fa passare…”.
Le canzoni sono di quelli “con gli amici cantiamo una nuova canzone”, ma le domande consuete son sempre le stesse.
Le canzoni sono di quelli con la chitarra classica simile a quella del loro idolo, che si filmano e postano su YouTube mentre le eseguono, mentre le stonano, mentre le sbagliano, ma le amano dio se le amano, e alla fine sono i primi a scrivere un commento sotto: «Ragazzi, scusate se sono un po’ impacciato…».
Brittany ha un appuntamento con la morte. È fissato per sabato. No, non si tratta di un tragico destino pronto a pioverle addosso, a sua insaputa. La data l’ha scelta lei, agenda alla mano, come si fa con la revisione dell’auto o la messa in piega dal parrucchiere.
Il cancro che ha nel cappello è troppo forte e cattivo, non si tratta di un portafortuna e Brittany è lì tranquilla mentre il mondo sta girando pieno di fretta.
Si è trasferita da San Francisco fino nell’Oregon, dove morire, in un caso come il suo, si può. Per me – ceo della Ignoranti Corporation – l’Oregon significa due cose soltanto: la storia di Brittany e lo scrittore Chuck Palahniuk, che a occhio ne saprebbe trarre un travolgente racconto.
In Italia in molti hanno scritto della scelta di Brittany, in maniera preziosa alcune donne (Chiara Lalli, Daria Bignardi e oggi Emanuela Audisio…) e chissà se è soltanto un caso.
Però dubito se ne parli granchè, nei tinelli italiani in questa fine ottobre di gettoni e manganelli. Peccato, perché ci riguarda un bel po’. Metti che un giorno s’arrivi anche noi sulla soglia di quel diritto…
Scrive oggi l’inviata di “Repubblica”:
«Sarebbe bello non giudicare Brittany, non dividersi, non polemizzare. Quanti di noi alle prese con un tuffo difficile da una scogliera, dicono all’amico: guardami. Perché se tu mi vedi io avrò meno paura. E oggi ci si può far tenere la mano anche online».
Assistere al tuffo di Brittany si può. Basta andare su questo sito e spedirle una sorta di “cartolina”. E pazienza per la retorica e la guerra sporca tra le associazioni pro e quelle contro.
Sulla scogliera si sente soltanto un gran rumore di onde e di vento.
Aggiornamento: Brittany sembra abbia deciso di rimandare il suo appuntamento. Un gesto di libertà che si somma a quello di cui ho parlato nel post.
Era la primavera del 2007 e stavo guardando svogliatamente un Tg3 del pomeriggio. L’ultimo servizio, in quota cultura, mostrava una cantautrice coi capelli rossi appollaiata sopra uno sgabello. Cantava e suonava, a margine di qualche festival tenuto chissàdove. Dopo meno di dieci minuti una mail di conferma confermava con fermezza l’avvenuto acquisto di un CD.
Ne sono passate di canzoni sotto i ponti delle chitarre, ma quelle di Giua continuo a cantarle a squarciagola. Perché sono oggetti preziosi, perfetti, prismi con tante facce, facce che riflettono sempre qualcosa di nuovo.
Poi Giua ho avuto la fortuna di conoscerla davvero. L’ho ascoltata ai piedi di vari palchi, ma anche nel corso di esibizioni postprandiali improvvise come urgenze, in osservanza al pervasivo demone della musica.
Un giorno la mia alunna Ilaria ha orecchiato una sua canzone nella mia macchina, durante un breve e casuale tragitto. Conseguenze: amore a prima vista e un messaggio spedito dalla Carnia alla Liguria, complice Facebook.
Un anno e mezzo dopo, Ilaria si “laureava” in terza media con una tesi sulla sua cantautrice preferita, eseguendone un brano dal vivo preparato via Skype, discettando di scuola genovese e di quante cose ci siano in Via del Campo.
Per tutto questo penso a Giua come ad una persona molto, molto generosa.
Oggi, però, è la cantautrice a chiedere a tutti un gesto di generosità e di fiducia, dopo aver lanciato un finanziamento collettivo per la realizzazione del suo terzo album.
La notizia ha un paio di giorni e l’hanno sentita tutti.
Succede ancora, fino al momento in cui non succederà più.
Un altro nipote riabbracciato dalla legittima nonna.
Un bambino rubato al corpo ammazzato di una giovane madre. Il figlio di una “sovversiva” riciclato impunemente dai carnefici dei genitori naturali, nella notte buia dell’Argentina.
Un incubo lungo una mezza vita, una vita da Ignacio, riscattato da un esercito di nonne coraggio che mettono il tuo passato in una centrifuga e te lo restituiscono con un’etichetta diversa, che se la leggi dice Guido, non Ignacio, Guido Carlotto, origini italiane, figlio di Laura, imprigionata, colpevole di aver partecipato alla vita politica del proprio paese, uccisa a 23 anni poco dopo il parto. Desaparecida no, le sue spoglie furono riconsegnate alla famiglia. Quel bimbo sì, scomparso, come molti altri.
E la notizia, quel piccolo capolavoro di giustizia, l’han sentita già tutti.
Non hanno sentito tutti – invece, forse – la canzone “Para la memoria”, che Ignacio/Guido, musicista cantautore, ha scritto, interpretato (fisarmonica e voce) e dedicato a questa storia. Proprio lui, il bimbo rubato, quell’esistenza uscita come un maglione rovesciato dalla lavatrice della Storia.
Si sa che i cantautori spesso raccontano di sé nelle canzoni. A differenza dei semplici interpreti, capita che si emozionino in maniera particolare, rivivendo spesso all’infinito, nel corso della carriera, i sentimenti fissati nei versi e nelle note.
Ecco, se tale luogo comune corrisponde al vero, da quale tornado sarà percorsa la pelle di Guido Carlotto mentre esegue “Para la memoria”?
Aveva ragione Samuele Bersani, nella canzone che ha dedicato a Enzo Baldoni. Una cosa che penso ogni anno, ad ogni scoccare di anniversario, riascoltandola nei giorni d’agosto in cui molti ricordano questa particolarissima figura di italiano: uno dei nostri, ma anche uno anni luce più avanti. Uno che aveva capito prima un sacco di cose, ma che sicuramente si sarebbe fermato in fondo alla strada per aspettarci e raccontarci tutto.
Aveva ragione a scegliere una sineddoche, Bersani. Una parte per dire il tutto. Gli occhiali al posto del loro proprietario. Due lenti e una montatura al posto di un omone e del suo nomeecognome.
Come quell’oggetto di uso così comune, anche Enzo Baldoni era estremamente delicato, fragile, sempre a rischio di smarrimento o rottura. Ma come gli occhiali vedeva, metteva a fuoco, scrutava dentro e guardava oltre.
Celebri aihimè sono soprattutto i suoi reportage dai luoghi di guerra, la cui fama – doppio ahimè – è stata purtroppo un frutto postumo.
Baldoni, però, vedeva lungo in un sacco di altre direzioni.
Oggi ho riletto questo pezzo sulla pedofilia. Una testimonianza diretta, intima e vera, senza reticenze, lucida. Niente di specialistico – Baldoni ne sapeva quanto ciascuno di noi che poco abbia studiato e approfondito – piuttosto un mattone concreto messo lì per tutti, generosamente, gratuitamente, perché era giusto e naturale fare così, perché non si sa mai possa servire, nella costruzione di una società migliore.
Chissà se Niccolò Fabi l’ha vista, arrivando al centro commerciale che avrebbe ospitato il suo concerto, la ragazza vestita di giallo vicina a uno degli ingressi. Non era una ragazza vestita di giallo qualsiasi. Il suo lavoro, infatti, consisteva nel protendersi da un chiosco giallo a forma di limone, distribuendo dissetanti bicchieri – gialli, ça va sans dire – rigorosamente a base di quell’agrume.
Il cantautore era reduce con la sua band da un evento particolarissimoai piedi delle Dolomiti: aveva cantato a 2000 metri sul livello del mare davanti ad un pubblico che si era guadagnato quella musica infilando i passi in un faticoso sentiero di montagna.
Abbia o non abbia intercettato con lo sguardo la ragazza-limone, dopo il terzo brano della sua performance Fabi ha confessato il suo imbarazzo: «Carissimi, ieri ho suonato in paradiso e qui, non posso fingere, è molto più difficile».
Mescolato tra i fan, assisteva al concerto un piccolo popolo di spettatori inconsapevoli, giunti sul posto per accaparrarsi qualche canottiera d’occasione. Le prime file, riservatissime, toccavano di diritto ai fedelissimi aficionados di certi corredi e di certe trapunte, possessori di una preziosa tessera-punti, del tutto ignari dell’opera omnia del cantautore romano.
Lungi da me fare della sociologia d’accatto, e lungi da me colpevolizzare il direttore del centro commerciale casualmente seduto a pochi metri dalla mia sedia – schiumante alle battute del cantautore («Ragazzi, io continuerei a suonare, ma qui ci sono delle regole piuttosto rigide…»). Ho solo intravisto in questo quadretto uno spaccato di quest’epoca fragile e ricca di contraddizioni. Con il Mecenate che invita nel suo palazzo l’Artista che forse più profondamente ha combattuto i suoi valori di riferimento.
Prima di partire si dovrebbe essere sicuri
di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri
Allora io propongo per non fare confusione
a chi ha meno di cinquant’anni
di spegnere adesso la televisione
Non si può entrare in un negozio
e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo
se la vita è un’asta sempre aperta
anche i pensieri saranno in offerta
Ma le più lunghe passeggiate
le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo
non so dove l’ho comprate
di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta
perché l’argento sai si beve
ma l’oro si aspetta
Le canzoni, si sa, sanno scavalcare le contraddizioni, ha chiosato infine il filosofo con la chitarra. E la musica deve andare ovunque, adattandosi pure alla scenografia posticcia di un tempio consacrato allo shopping, proprio come fosse un anfiteatro dolomitico o il più blasonato dei teatri.
E chissà com’erano, i versi di Niccolò, assaporati da dentro il chiosco a forma di limone. E chissà come batteva, il cuore della ragazza vestita di giallo, ospite di un agrume il tempo necessario per pagarsi gli studi, prima di rimettersi a caccia dell’oro tanto aspettato. Giallo anche quello, in fondo.
Francesco De Gregori ha detto la sua in un’intervista al “Corriere della Sera”. Al solito l’ha fatto in quella maniera un po’ così, che sta alla simpatia come il giorno sta alla notte. Ha sparato nel mucchio della politica, affermando alfine di averne preso le distanze, dal mucchio. Ognuno è libero di concordare o meno con i singoli concetti espressi dal cantautore, di condividerne o no lo sguardo pesantemente disincantato.
Colpisce, tuttavia, il tono di alcuni commenti un tantino tranchant, e a titolo d’esempio cito quello del giornalista dell’Espresso Gilioli:
“Poi qualcuno mi spiega il senso di un’intera pagina di intervista politica a un tizio che fin dall’inizio spiega di seguire poco la politica, di non sapere chi è ministro di cosa, e che preferisce guardare dai finestrini invece di leggersi un giornale”.
Un tizio. Poi dice che è Grillo quello che storpia i nomi dei suoi interlocutori.
Il tizio scrive e canta da quarant’anni pezzi che – piacciano o non piacciano – raccontano l’umanità tutta e nello specifico questa sua piccola fetta che risponde al nome di Italia. Il tizio ha cantato il lavoro e le migrazioni, vecchie e nuove. Il tizio ha cantato i poveri, stivati sempre qualche piano al di sotto dei ricchi. Il tizio ha cantato la Storia: la guerra, il Fascismo e la Resistenza, spingendosi pure in quel ginepraio che è stata la Repubblica di Salò (e non gliel’hanno mai perdonato, troppo poco ortodosso, nonostante le parole inequivocabili: “parte sbagliata”). Il tizio ha cantato il terrorismo e le brigate rosse prima e meglio dei romanzieri e dei saggisti. Il tizio ha messo in una canzone il 12 dicembre 1969.
[Per non parlare di come il tizio ha cantato l’amore ché quello è un altro discorso.]
Se il tizio – invecchiato, imborghesito, insalottito, quelchevoletevoi – desidera quindi esprimersi su quest’Italia e le sue magagne, su chi tenta di governarla e su chi tenta di raccontarla, su Berlusconi e Renzi, sulla CGIL e l’Ilva di Taranto, io glielo lascerei fare e lo ascolterei anche se non sa quale sia il ministero guidato da Enzo Moavero Milanesi e anche se gli è sfuggito l’ultimo articolo (o l’ultimo post su Facebook) di Alessandro Gilioli.
Perché certe voci – liberi di dissentire – vanno ascoltate.
Ascoltiamoci, è un modo di resistere (con gli occhi aperti nella notte triste).
Gita. Ci provano da una vita a rottamare la parola sostituendola con termini più pregni e altisonanti. “Visita”, “viaggio”, “d’istruzione”. Quella tien duro: Gita. Due sillabe che non si schiodano, sono piantate negli immaginari come due querce.
Gita. Domani. 5 giorni (!). Ci saranno un ostello ed un lago, un bel po’ di verde e 13 burfaldini da accudire. Chissà se si lasciano portare a correre prima dell’alba.
La Pozzanghera rimane aperta, continuate pure a farci ciaff ciaff a piedi nudi, e già che ci sono ci infilo questa perlina del mio “idolo” pop, a cui qualcuno deve aver detto che, se coveravaquesta canzone, mi sarei irrimediabilmente sciolto.
Ho avuto il privilegio di conoscere Andrea Satta, e di accompagnarlo a zonzo per il Friuli con il suo prezioso libro di favole. C’è in lui qualcosa che mi ha sorpreso, che mi ha disorientato, che mi ha alla fine entusiasmato. Ed è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la sua voce, con la sua penna, con il suo lavoro di pediatra di base. È qualcosa di nascosto, in realtà senza esserlo affatto. Si trattava soltanto di unire i puntini, guardare le cose sotto un’altra luce, cambiare il punto di vista. Andrea Satta ha parlato – in meno di 48 ore di permanenza friulana – per tantissimo tempo. Nulla di strano, ci aveva raggiunti per quello. Che fosse un grande affabulatore, inoltre, non mi ha di certo sorpreso. La sorpresa è venuta da un’evidenza raggiunta soltanto ora: Andrea è un uomo senza IO.
Quel pronome non esiste, nelle frasi che pronuncia. Al centro di tutto ciò che dice ci sono sempre gli altri, tantissimi ALTRI, tutti gli altri del mondo. Raccolto in stazione appena sceso dal treno, tempo un minuto e mi stava parlando di Alfredo Martini, grande vecchio del ciclismo italiano. Percorse due rotonde e la sua voce aveva già abbracciato la storia della sua cara amica Margherita Hack. Ma qui potreste pensare che la testa di legno ami vantarsi per le importanti frequentazioni e conoscenze. Macché, c’è davvero posto per tutti e le sue chiacchiere sono invase di persone semplici, quasi sempre distinguibili per una caratteristica originale, per un talento raro, oppure per un tratto di sofferenza indossato con dignità. Il camionista che trasporta mozzarelle, l’insegnante precaria in attesa che il telefono squilli con l’annuncio di una supplenza. E poi l’esercito delle mamme che lo attendono in ambulatorio: le Cerasela dalla Romania, le Kadidja dal Marocco. E poi altri ancora: Concita la giornalista, Sergio la matita che disegna col cuore e senza gli occhi, i musicisti della sua band, i mille compagni di pedalate, il bambino di Tolmezzo che ha raccolto e stringe nel pugnetto un fiore giallo per la mamma e una margherita per la sorella, mezzora dopo averlo incontrato nella sua scuola. Scarto il cd che mi ha regalato Andrea, che riterrei la naturale dimora per l’io di un musicista, e… niente da fare nemmeno lì: trovo invece righe che mi ricordano quanto sia importante abbracciare sempre Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi.
Non riesco a coniare un termine che definisca questa condizione che mi appare come il contrario esatto dell’egocentrismo. “Altricentrismo”? “Egoperiferismo”?
Boh, ci rinuncio. Però mi è sembrata, quella condizione, la panacea di tutti i mali del mondo.
Le parole di Jannacci entrano a scuola senza bussare, senza bisogno di chiavi. Nemmeno di chiavi di lettura. Sono una lingua sconosciuta ma non straniera. Stralunate, surreali, divertenti, sono le parole di un nonno un po’ matto che sta dalla tua parte, che ti fa l’occhiolino e pure ti copre se hai combinato qualche guaio.
Forse le ho usate troppo poco, in classe, ecco, questo è il problema. Ma quando è accaduto non mi sono mai chiesto se stessi facendo la cosa giusta. Era evidente che sì.
Todo cambia. La realtà sorprende e spiazza. Succedono cose prima d’ora impensabili. Conforta pensare a qualcosa che stia fermo, rimanga lì, perché quando è nato sembrava perfetto così e così perfetto sembra anche oggi. L’ho pensato davanti alle parole di certi pezzi che ha cantato Claudio Lolli, patrono di questo blog, nel suo concerto di venerdì, a Cervignano. Una serata fuori dal tempo, lontana dal presente, uno spettacolo clamorosamente privo di novità, anzi: compiaciuto per il fatto di somigliare più di sempre alla sua vecchia storica versione. Edito e superedito, senza alcun progetto da vendere, senza alcunché da perseguire sulle strade di iTunes. E tutto ciò, tutto questo miracolo, soltanto grazie ad un libro. Quello ingiallito, con la copertina strappata. Quello che il cantautore stringeva tra le mani, lo scrigno di testi da tempo forse dimenticati, o più probabilmente così rispettati da temere qualsiasi scivolone mnemonico.
Da lì si riparte sempre, dalle parole, dalla poesia.
Uscendo da un concerto di 30 anni fa, il primo marzo 2013, mi è fin troppo chiaro che bisogna sempre andare avanti e che “indietro non si torna neanche per prendere la rincorsa”. Canticchiando arie di sax vien da immaginare un futuro di luce: zingari felici che si rincorrono, compagne che volano sulle pozzanghere e che so… un Papa nero, no… meglio… un Papa donna.
Nella mia biblioteca di montagna c’è un grosso quaderno cartonato: il “quaderno delle presenze”. Chi entra fa la sua firma sotto la data, se si dimentica la fa qualcun altro al posto suo. Com’è abbastanza ovvio, quella carta è presto diventata una specie di muro dove viene affisso ciò che passa per la testa ai giovani avventori, quasi tutti alunni o ex alunni di Scuolamagia. Disegni, scarabocchi, impronte della mano, versi di canzoni, sfottò, marchi commerciali, cazzi e tvb. Il 5 ottobre, quando mi sono avvicinato, Giorgio stava disegnando il logo dei Beatles. Adesso bisogna dire che Giorgio ha 19 anni, che non sono pochissimi ma non sono nemmeno tanti. Il suo festeggiare i cinquant’anni di Love me do in quel modo così intimo e sentito mi ha fatto pensare che forse quell’anniversario andava celebrato anche con gli alunni ufficiali, quelli di ogni mattina a scuola. Così, rischiando un po’ di retoria fabiofazista, ho chiesto loro – scusate il bisticcio – di “chiedere chi erano i Beatles”. L’hanno fatto, e i risultati sono stati a dir poco sorprendenti. Lo scoop l’ha fatto Marimù, scovando un signore del paese che può andar fiero di aver partecipato ad un concerto dei Fab4 allo Stern Club di Amburgo, nei primissimi anni ’60. Una nonna ha invece soltanto sfiorato la partecipazione ad una data romana della band: quel giorno del 1965 dovette accudire i bambini della coppia per cui lavorava. Dai quaderni sono usciti aneddoti e storie: il concerto sul tetto, la nomina a baronetti, l’arrivo di quella cinese che ha rovinato tutto… no, forse era una giapponese. I papà han tirato fuori i CD, i nonni han rispolverato i vinili, manco a dirlo MAI prestati a nessuno. Sono emerse mamme che hanno subito il fascino di Lennon, con quell’irresistibile faccia da “cane bastonato”, e mamme “tendenza McCartney”, che poi sarebbe la mia.
Soprattutto, però, ogni alunno ha portato a scuola il titolo di una canzone, opportunamente segnalata dal “consulente” domestico. Con YouTube abbiamo quindi ascoltato insieme Yesterday e Help, Let it be e Here comes the sun. E poi altre, e poi ancora. Una volta ho sentito De Gregori dire: “Cos’è una canzone popolare? È una canzone che abbiamo scritto tutti quanti assieme”. Non solo, verrebbe da aggiungere dopo quest’esperienza coi ragazzi: è anche una canzone che conoscevi già, a tua insaputa.
E la canzone preferita del Prof.? Non poteva mancare, ma è spuntata prima dalle pagine di un quaderno, direttamente dal cuore di una mamma che la suonava con la chitarra, trovandola pure lei irrimediabilmente perfetta.
Bevevano un caffè davanti alla macchinetta, uno di quei gesti che ci rendono uguali, ché tutti abbiamo in tasca qualche spicciolo, ché tutti abbiamo voglia di un caffè. Due uomini maturi, due dentisti, professionisti all’interno della stessa clinica. Ho osservato la loro pausa sfogliando una rivista nella grande sala d’attesa.
Bevevano un caffè e chiacchieravano. Parlavano come tanti di cose economiche. Sembravano pure capirle, al contrario del voyeur che li spiava fingendo di leggere “Vanity Fair”. Le tasse, mannaggia, che aumentano sempre, e certi investimenti che son diventati rischiosi, e poi in generale il Paese che sembra respingere chiunque dimostri spirito di iniziativa e mentalità imprenditoriale. Visto il momento storico, varrebbe veramente la pena di riconsiderare quel vecchio progetto. Ci sarebbero quelle isole – non ho nemmeno capito quali, in quale arcipelago, in quale mondo – dove rifugiarsi dopo aver mandato tutto a fare in culo. Laggiù è facile. Laggiù una villa affacciata sull’oceano la porti via con poco. Laggiù fa sempre caldo e anche la situazione politica sembra essersi stabilizzata, non è più il tempo delle rivolte e delle rivoluzioni. Laggiù la servitù ti serve per davvero. Laggiù piazzi l’amaca tra due palme e non fai più un cazzo. Sì, laggiù puoi proprio smettere di lavorare, quello che hai messo da parte basta e avanza per vivere da pascià, l’hanno già fatto in tanti, cosa credi. I più furbi, non rimane che raggiungerli. C’è solo un problema, non marginale: la sanità. Nonostante il rapido sviluppo, quei luoghi non hanno ancora colmato tutti i gap. Se salta una valvola cardiaca, da quelle parti si va all’altro mondo e la gente se ne fa una ragione. Ecco, quello è un problema. Forse bisogna aspettare ancora un po’, e riparlarne, magari nella pausacaffè.
Sono rientrati nelle rispettive stanze, a incapsulare canini, a devitalizzare molari. Io tornando a casa ho ascoltato cento volte questa canzone nuovissima. “Mi basterebbe essere padre di una buona idea”. A ciascuno la sua…
Jane Lui è una cantautrice e musicista californiana nata ad Hong Kong. Suona qualsiasi strumento le venga posto tra le mani, comprese le pareti di casa sua e i boccioni per l’acqua che si usano negli appartamenti delle grandi città, ed ha una voce stupenda. Non so nulla di lei se non quello che si può evincere dal suo canale YouTube, dai sui profili di Facebook e Twitter. Non conosco nessuno che ascolti la sua musica o abbia almeno sentito una volta pronunciare il suo nome. Anzi, ci penso in questo momento: io stesso non ho mai pronunciato il suo nome e l’ho scritto per la prima volta in questo post.
Come molti, ho incontrato per la prima volta Jane in questo video diventato presto virale ed è stato facile fare una diagnosi: “bravissima, ma al giorno d’oggi se si vuol campare di musica o ci s’inventa qualcosa di geniale o ci si attacca al tram”.
Il teatro in cui questa poliedrica artista si esibisce, a qualsiasi ora del giorno e della notte, è YouTube, dove i suoi video catturano per simpatia, dolcezza, originalità, romanticismo, mestiere.
Però, lavorare in questo modo alimenterà ancora per chissà quanto tempo i pregiudizi del pubblico e opere ispiratissime finiranno inevitabilmente nel calderone del dilettantismo allo sbaraglio. Una vera ingiustizia per chi possiede talento e magari ha pure studiato un sacco.
Ne ho avuto la conferma ieri, quando Jane Lui si è rivolta ai suoi utenti con una lettera accorata. Al giorno prima risaliva la pubblicazione della sua ultima creatura: un medley di brani hip hop/rap interpretati da 4 suoi giovani collaboratori con le voci di un nutrito numero di celebrità vere o di cartone, vive o morte, da George W. Bush alla rana Kermit, da Richard Nixon a Woody Allen.
Una cavalcata musical-cabarettistica di 6 minuti e 13 secondi in cui fa capolino ad un tratto l’imitazione muta e tremendamente riuscita dell’astrofisico Stephen Hawking. Causa, quest’ultima, di una serie di reazioni indignate da parte dei primi fruitori del video, nonostante il geniale scienziato abbia spesso messo in gioco il suo sense of humour, comparendo ad esempio negli episodi dei Simpson e – addirittura in carne ed ossa – nella serie di successo Big Bang Theory.
Insomma, in nome del politicamente corretto alcuni americani hanno reagito rumorosamente e Jane Lui, regista e arrangiatrice del video, c’è rimasta male.
«Prima di tutto, come arrangiatrice / regista del video, vorrei assumermi personalmente la responsabilità per il mio amico, Spencer, che ha fatto l’imitazione. Sono stata io a scegliere personaggi e canzoni, e mi assumo la mia piena responsabilità nell’affrontare questa discussione e queste scuse».
«Mi rendo perfettamente conto che il fatto che non fosse mia intenzione ferire nessuno non ha nulla a che fare con l’effetto finale di questa scelta che ho fatto. Il fatto che sia stata percepita come offensiva merita tutta la mia attenzione e una risposta. Quindi sono qui per affermare che sono profondamente dispiaciuta».
«Alcune persone con cui ho parlato mi hanno detto: “Non sei la prima persona ad aver scherzato su questo” o “Ci sono state imitazioni molto più crudeli su altre celebrità”, ma non credo che ciò mi esenti da delle scuse sincere, e dal riconoscere il male che posso aver provocato – anche perché “ripetere un modello solo perché c’è stato qualcosa di peggiore” è il motivo esatto per cui la discriminazione di perpetua, e da ciò ho imparato che posso essere più sensibile e attenta nel mio approccio».
Jane ha fatto quindi un passo successivo. Ha aperto un dibattito pubblico, per dare voce a tutte le opinioni, dicendo che avrebbe eliminato il video dalla rete nel caso la maggioranza degli utenti l’avesse democraticamente sancito.
«Anche nel caso prevalessero gli apprezzamenti per il video, sono profondamente dispiaciuta per la scelta che ho fatto che può aver causato dolore a qualcuno. Sto imparando ogni giorno ciò che significa essere più attenta nelle mie scelte e a tutte le interpretazioni delle stesse, sto imparando che ho la responsabilità davanti al mio pubblico di comportarsi rispettosamente, mostrando compassione e lavorando senza sosta verso una maggiore integrità creativa».*
Tutto molto onesto e anglosassone, direi. Se provo a immaginare la stessa situazione nel mio paese vedo gente che propone la gogna per l’artista blasfemo e l’artista che piange per essere finito tra le maglie laceranti della peggior censura. Un meccanismo che si inceppa al primo sassolino negli ingranaggi e non riparte. Non si mette in discussione, come ha dimostrato di saper fare una grande cantante che sa imitare perfettamente il Diavolo della Tasmania.
*Il pensiero di Jane Lui è stato tradotto – fifty fifty – da Pozzanghera e da Google.
Quando ho sentito per la prima volta parlare di lei, a occhio sarò stato in terza media. L’ho stimata da subito e vorrei vedere: era la figlia del mio cantautore preferito. Ne son venuti tanti e tante, di cantautori dopo di lui, ma il primo è il primo, e non lo si scorda.
Di lei sapevo che era anche bella come la terra, e qui l’immaginazione di uno di terza media era messa a dura prova. Cosa vorrà mai dire?
La canzone scritta dal celebre genitore continuava: era pure bella come la rabbia. E mai prima di allora avevo pensato che quel sentimento potesse essere considerato dal punto di vista estetico.
Gran finale: era bella come il pane. Spiazzante quel ritorno alla concretezza e alla tangibilità: game set e partita per il guru dei miei quattordici anni.
Quel brano, però, andava molto oltre il semplice decantare la bellezza di una bambina. Era un manifesto. Era una weltanschauung. Era un manuale per apprendisti esseri umani, era una bibbia per chi stava cercando un senso e una direzione. Rappresentava un meraviglioso e poetico NO da sbattere in faccia a tutti i conformismi e ad ogni scivolamento nella palude dei compromessi. Ricordava – era quello il nucleo esplosivo di quella bomba atomica in do maggiore – che essere giusti e in pace con la propria coscienza può essere molto meglio di essere felici. E tutta quella responsabilità etica era caricata sulle spalle di una bimba, che avrebbe dovuto essere sempre contro, finchè qualcuno non le avesse strappato la voce.
Sono passati gli anni e nel frattempo ho consumato svariati plettri su quegli accordi. Seduto sul letto o sul bordo della vasca da bagno, perfetto amplificatore naturale. Oggi scopro che Francesca Vecchioni ha vissuto e vive davvero così. Non accettando, scegliendo la vita contro le leggi di un paese morto. E che lontano l’ha portata il sogno. E che dentro il pugno oggi può mostrare fiera i suoi due fiori.
Ho accompagnato Erica Boschiero in un tour didattico-musicale all’interno di alcune scuole. Cos’è una cantautrice? Cosa fa di bello? Serve a qualcosa? Questa era la missione: trovare una risposta ad un pugnetto di domande, regalando magari qualche inaspettata emozione, di quelle che sanno consegnarti bell’e impacchettate certe chitarre e certe voci.
Mi sono quindi immerso in un laghetto di occhi piccoli, più piccoli di quelli a cui sono abituato, e ho ascoltato vocette minuscole interrogare quell’ospite speciale dopo aver sollevato, ma molto più in su di quanto sarebbe bastato, braccine minime, palmi irrisori, ditini aghi di pino.
Alcune istantanee.
Un biondino chiede la parola e butta lì il suo quesito: “hai mai fatto concerti…”. Normale curiosità per chi siede davanti ad una musicista e normale amministrazione formulare una risposta, se solo la domanda si fosse fermata lì.
“Hai mai fatto concerti a Pisa?”: il capolavoro tutt’intero. Per la cronaca: no. Non ancora, ma a cosa stava pensando quella bionda creatura del demonio? Alla chitarra di Mazzini? Vai a saperlo…
Procediamo.
Altra manina in cielo, dopo che Erica ha eseguito la sua 3.32, canzone composta dopo il terremoto abruzzese del 2009, e ha proiettato le foto di alcune case crollate. “Ci mostri anche le foto dello tsunami?”.
Infine.
Ascoltato il brano La girandola, nel quale va in scena la vita grama di un bimbo di strada in una Parigi lontana nel tempo, e nella fattispecie orecchiato il verso “grigi gli occhi di un bambino morto prima di morire”, un altro fenomeno di un lustro e mezzo chiede lumi, piuttosto allarmato: “come si fa a morire prima di morire?”. Sembra incredulo, ma forse ha già capito che si può, e che a qualcuno meno fortunato può ancora capitare. Scacciato il pensiero brutto, che inevitabilmente tornerà, è poi salito anche lui con gli altri – e con Erica, e con me – su una macchinina rossa che se l’è portato via.
È ambizioso Giorgio Faletti, nel difendersi dal barbaro attacco di Pietro Citati. Tutti i grandi classici nel loro tempo sono stati malcapiti e malinterpretati, dice, pertanto fatti a fettine dalla critica: prendete Mark Twain. Ambizioso, sì sì. Io non riesco nemmeno paragonarmi ad un lettore, di Mark Twain, figurarsi a Lui medesimo.
Da ieri si può ascoltare la nuova canzone di Pacifico. Io sono uno di quelli che faticano ancora a dire “singolo”. Non credo riceverà particolari critiche, ci mancherebbe. Tuttavia non riceverà nemmeno le lodi che merita. Le viene negata in partenza la possibilità di diventare una donnacannone, una costruzionediunamore, una luciasansiro e via cantautorando. Un classico, insomma. Vivrà una breve vita di farfalla, non sarà mai tramandata da un genitore ad un figlio. Non verrà ricopiata su un diario, non verrà citata in una lettera. Nemmeno in una mail, al massimo diventerà un link su cui esercitare l’ennesimo clic. E poi sparirà per sempre quando spariranno i singoli hard disk che l’hanno ospitata, le singole chiavette, quando moriranno i telefonini canzoniferi. Nessuno soffrirà, ci sarà altra musica leggera da ascoltare, da cantare, da mettere alle nostre spalle come uno sfondo per i giorni che passano. La vita alle persone, quella forse le canzoni non la cambieranno più.
Una volta tanto poter dire: io c’ero. Mi riferisco al set di questo videoclip, girato in fretta e furia approfittando della tappa mordiefuggi di un fortunato concerto estivo. Una domenica mattina nel salotto e sulla terrazza di una casa ricca di storie, una vera miniera di dettagli. Con una guest star a quattro zampe – si chiama Geranio, professione levriero italiano – della quale si sarebbe potuto scrivere, nei titoli di coda: nessun animale è stato trattato meglio di Lui durante le riprese.
Il plot: il maestro Armando Corsi, elegantissimo in una mise di frammenti di plastica con girocollo di monetine da 5 centesimi, è l’analista; Giua veste i panni della paziente psicanalizzata. La cura, manco dirlo, sembra essere la musica. Il terzo incomodo – in realtà comodissimo – del progetto discografico di cui la Pozzanghera si è già occupata. Il convitato di pietra, una pietra miliare.
Altri ingredienti, molto ben amalgamati: l’ironia di un testo di qualità, gli sguardi, i giochi di sguardi, le risate, le mani sugli strumenti, mani a tempo mani contro tempo, mani leggiadre, mani virtuose, corde vibranti, piedi nudi, dita che schioccano, squarci di sole tra le nuvole di un giorno d’agosto. Bello, no?