Cineserie, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Non dirmi che hai paura

Preso da una strana euforia, l’8 agosto del 2008 ho pubblicato un post con un elenco di persone importanti, e mi ci sono infilato. In comune quegli umani avevano soltanto il fatto di trovarsi contemporaneamente nella stessa gigantesca città. L’8 agosto 2008 a Pechino cominciavano i giochi della XXIX Olimpiade. Ricordo le grandi manovre davanti a quello stadio pazzesco, a due giorni dal via. Ricordo i bambini cinesi che sbucavano dai vicoli per abbracciarti e augurarti il benvenuto in città. Ricordo la cerimonia d’apertura vista alla Tv cinese, accompagnata da un primitivo liveblogging. Ricordo tanto, è una mia caratteristica, ma non ricordo Samia. Eppure Samia c’era ed era bellissima, avvolta negli abiti tradizionali del suo paese, la Somalia, dentro una delegazione sparuta e spaurita. Da qualche giorno, da qualche ora, mangiava come mai aveva mangiato e come mai più avrebbe fatto, e dormiva per la prima volta su di un letto degno di quel nome.

La sua storia l’ho conosciuta per la prima volta nel 2012, in un pezzo della scrittrice Igiaba Sciego, ed ora – romanzata senza stravolgimenti – è finita nel libro di Giuseppe Catozzella. Si legge in un fiato, e il racconto di una vita finisce per somigliare al percorso dei 200 metri piani. Quei giorni a Beijing 2008 stanno sulla curva, prima del rettilineo delle lunghe falcate, prima di dare tutto.

C’eravamo io e George Bush, quel giorno a Pechino. Con noi c’erano Lula e Laure Manadou. C’era anche Putin, e lui ci sarà anche a Sochi, pensa un po’, venerdì. C’erano migliaia di atleti e c’era soprattutto Samia Yusuf Omar.

 

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Due come loro, due come noi

Bari, poliziotti scoprono due campioni al centro accoglienza

A quelli come loro di solito si impedisce di scappare.

In questa storia due di loro più veloce scappano e meglio è.

A quelli come loro di solito si dà un foglio di via.

In questa storia a due come loro si dà semplicemente il via.

A quelli come loro di solito si prendono le impronte digitali.

In questa storia a due come loro si prendono i tempi.

A quelli come loro di solito si tolgono i lacci delle scarpe, per il timore di atti di autolesionismo.

In questa storia a due come loro si fa il groppo alle Asics  e alle Nike nuove fiammanti, leggere e flessibili.

I due come loro, protagonisti di questa storia, si chiamano Abdul e Mussie: uno somalo e l’altro eritreo, rispettivamente 21 e 25 anni, sono rinchiusi nel Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Bari, nell’attesa infinita di un permesso di soggiorno.

I due come noi sono agenti di polizia, si chiamano entrambi Francesco ma per Abdul e Mussie sono più confidenzialmente “my big father” e “my big brother”.

I due colleghi, podisti per hobby, hanno visto la corsa dei due africani e hanno capito di non trovarsi davanti a due runner normali. Per dire, Abdul ha disputato un buon 5.000 metri a Daegu, Corea del Sud, ai mondiali di atletica del 2011. Un posto dove fai la fila per l’antidoping con Usain Bolt.

Poi la vita, soprattutto in certi paesi disgraziati, capita che prenda pieghe tremende e che tu finisca catapultato dai podii internazionali alle carrette che attraversano il Mediterraneo.

Si può storcere il naso, certo, e pensare che i migranti in Italia sono tanti e hanno bisogno di attenzioni più urgenti rispetto a quel borsone di capi tecnici messo a disposizione gratuitamente dai due agenti col pallino della corsa.

Intanto però le nostre forze dell’ordine hanno bisogno di riscatto, e una vicenda come questa rappresenta un esempio decisamente virtuoso. Riflettete, se vi sembra poco: tempo fa si è tenuto in quel centro di accoglienza un “Trofeo del Profugo”, il somalo e l’eritreo hanno stracciato tutti, giocoforza, ma il sovrintendente Francesco Leone, agente di polizia, è fiero di essere arrivato terzo. Per quanti italiani “profugo” è peggio che un insulto?

Francesco e Francesco vedono le cose senza fronzoli e retorica: se uno è nato per correre devi permettergli di correre. A loro sembra assurdo che il destino di Abdul sia così tanto diverso da quello di Bernard Lagat, keniota naturalizzato statunitense, star dell’atletica, soltanto pochi centesimi più veloce del somalo diciottenne, ai tempi di Daegu. Spiegano: “È come se nascosto in quel campo ci fosse stato uno che a 18 anni aveva perso con Federer. E non gli davi più una racchetta in mano”.

È come se in quel campo lavorassero due persone così e non gli dai il Ministero degli Interni. 

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Town of runners

A Bekoji gli abitanti aspettano che i cinesi portino a termine i lavori di costruzione della strada. Nel frattempo, si accontentano di quella che in sostanza è una pista di terra – rossa e infuocata sotto il sole cocente, marrone di fango nei giorni della pioggia. Le vie della città vedono sprofondare nelle pozzanghere i carretti trainati dagli asini, oppure scappare le galline inseguite dalla polvere nei giorni secchi del vento. Nel piccolo bazar un ragazzino orfano vende sigarette sfuse e caramelle. Davanti ai suoi occhi ad ogni ora del giorno mulinano decine di gambe svelte, passa il treno di quelli che corrono, scorre il futuro della Town of runners.

Bekoji, Etiopia. Città senza strada, raggiunta a fatica da una piccola corriera stipata di corpi e bagagli e colori. Bekoji, fucina di medaglie olimpiche: 8 ori in una quindicina d’anni. È come se a Wimbledon avessero vinto per 8 volte e in poco tempo tennisti di Bergamo. Di una Bergamo minuscola e senza vie di comunicazione, però. Un assurdo statistico.

Nella Town of runners non esiste una pista di atletica. C’è solo un circuito scavato in una collina, che ogni anno ragazzi e ragazze risistemano sradicando zolle d’erba a mani nude. Arrivassero i cinesi con la strada d’asfalto, pensano, almeno potremmo chiedere loro in prestito gli attrezzi giusti, ed evitarci la faticaccia di inizio stagione. Però intanto ridono, nelle loro coloratissime tute da ginnastica con le ginocchia bucate. Alcuni indossano scarpe, altri corrono scalzi. I 1500 metri in cui competono sono misurati a spanne, sulla pista le corsie vengono tracciate con il gesso, soltanto la campana dell’ultimo giro non ha nulla da invidiare a quella delle Olimpiadi.

Tra i giovani che si allenano, dopo aver aiutato le famiglie nei campi, agli ordini di un maestro e allenatore dai modi bruschi ma paterni, spiccano Hawii e Alemii, due ragazzine molto promettenti. Allegre e spiritose, sulla linea di partenza si trasformano, fanno la faccia seria e il segno della croce, poi il vuoto.

I genitori di Alemii non hanno mai visto correre la figlia. La loro vita finisce a sera davanti al piatto di grano abbrustolito e diviso meticolosamente tra la numerosa prole. Non sanno cosa racchiudano i quaderni che la giovane runner sfoglia quando non si allena e non lavora, importanti per prepararsi ad un futuro di viaggi, per cavarsela anche fuori dall’ovale dell’atletica leggera. L’allenatore spiega alla madre, giovanissima vecchia, che Alemii potrà rendere onore alla città e all’intera patria, proprio come ha fatto Tirunesh, nata a Bekoji nel 1985. “Ah, la figlia dei Dibaba”. È estraneo a quella donna lo splendore delle medaglie d’oro, ma brilla il ricordo di un’altra madre, una persona per bene, di grande onestà.

Hawii e Alemii lasceranno Bekoji. Le vere società sportive hanno sede in città più grandi, consegnano ai loro membri tute di un unico colore e se va bene un pasto al giorno. Spesso i soldi scarseggiano, lo stato punta sui giovani runners ma la corruzione dilaga e la disorganizzazione la fa da padrona. Poche e pochi ce la faranno davvero, avranno testa oltre che gambe, solcheranno con le loro falcate la gomma e le resine poliuretaniche, negli stadi delle grandi capitali dell’atletica.

Era una storia che mi mancava, questa, e mi ero ripromesso di scovarla. Non è stato facile. Ho dovuto farmi spedire un dvd da oltremanica, sull’onda dei Giochi appena conclusi. Il documentario finisce con l’arrivo dei cinesi. Con loro il nero dell’asfalto, nuovi negozi e un’antenna per i cellulari, oggetti che ancora nessuno a Bekoji possiede.

Possiedono solo sogni, a Bekoji, e questa storia.

 

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Once upon a time, Tirunesh Dibaba

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Tirunesh Dibaba sta sul palmo di una mano.

Il problema, dopo averla raccolta, sulla linea del traguardo, è che ricomincerebbe a correre, risalendo l’avanbraccio e il braccio come fossero altipiani.

Tirunesh Dibaba quello fa, corre. Anche dopo aver trionfato, abbraccia qualche collega – senza trasporto,  di corsa – riceve una bandiera dell’Etiopia e ricomincia a mulinare le gambe. Il volto è impassibile, sta volando sulla prima corsia, ma l’espressione è quella di una bambola antica appoggiata sopra un letto.

Tirunesh ieri sera ha fatto qualcosa di straordinario, ma non se l’è filata nessuno. Solo qualche lancio d’agenzia. Nessuno che raccolga la sua storia. La poesia l’ho vista solo io e confesso di sentirmi solo.

Tirunesh Dibaba forse non esiste, forse è una fata che compare solo a me, come in un sogno, tra uno scampanìo da ultimo giro di pista e un “c’era una volta” con la voce di Franco Bragagna. 

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