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Quando Vittorio Zucconi disse addio a sua madre


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Detesto i giornalisti che parlano di loro stessi e dunque questa settimana dovrò detestare me stesso.

In un ospedale milanese, il Policlinico, è successo qualcosa di molto banale e ordinario.

È morto qualcuno, e capirai che storia sensazionale.

Già la scomparsa di un giornalista non è un evento più importante della morte, per esempio, di un idraulico. Anzi semmai è il contrario perché nessuno ha mai sentito il disperato bisogno di chiamare un editorialista quando lo sciacquone si inchioda o di telefonare a un inviato speciale quando l’acqua della doccia schizza dal lampadario. Figuriamoci quanto può essere importante la morte della mamma di un giornalista.

Se ne parlo, detestandomi  e violando la volontà di quella signora di andarsene “passando inosservata” come aveva scritto, è soltanto perché lei, la madre, era una scontrosa, difficile, incontentabile, ma affettuosa lettrice di questo magazine e di questa pagina, probabilmente – sospetto – anche a causa del fatto che ci scriveva sopra il figlio. Ogni volta che il figlio aveva voglia di smettere, lei lo ricattava, come soltanto le madri sanno fare: “No, dai, non essere il solito pigro, visto che non mi telefoni e non mi scrivi mai dall’America, almeno scrivi un’altra puntata che io la leggo come una lettera”. Una vigliaccata. Vera, va bene, ma una vigliaccata.

E io, scemo con la coda di paglia, ci cascavo, illudendomi che poi, un giorno, mi avrebbe ricompensato, come si fa con i bambini. Sei stato diligente, eccoti la caramellina.

Invece niente caramellina, niente ricompensa. Ciccia. Solo un tracciato elettrocardiografico piatto. Quando è venuto il turno del figlio di chiedere a lei, in una sera di fine giugno, il favore di restare ancora un giorno o anche soltanto una notte con noi, nel letto della magnifica Unità Coronarica del Policlinico di Milano (a proposito: ma in Italia ci si rende conto di quale fragile miracolo quotidiano sia quella famigerata “malasanità” pubblica che ora tanti idioti e tanti furbacchioni vorrebbero demolire per correre dietro alle lucciole americane?) lei mica mi ha accontentato.

Macché. Annamaria, che sarebbe poi la madre, ha chiuso il giornale e non leggerà mai più una riga. Ha donato la cornea degli occhi e li ha chiusi.

Dunque il figlio ha perduto in un battito solo, una madre e una lettrice, che per un figlio giornalista è un dolore doppio e neppure può consolarsi andando a riparare un impianto di aria condizionata o facendo qualche cosa di utile.

Ma perché non hai messo al mondo un idraulico, mamma?

Vittorio Zucconi

12.07.2003

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Migliorare il 25 Aprile

Lib

Mi sono chiesto se si può fare meglio del 25 Aprile.
Mi sono chiesto se si può fare di meglio, il 25 Aprile.
Mi sono chiesto se di può lavorare ad un 25 Aprile migliore.

Ovviamente scrivo per chi, come me, è fortunatamente libero da impacci biografici. Non ho parenti tra le vittime innocenti di quella guerra, non ho memorie incandescenti da proteggere. Sento sulle spalle la memoria del mio Paese, ma anche il destino che va costruito per lui.

Premessa ulteriore: chi oggi si definisce ancora fascista è materia di ordine pubblico. Dovrebbe stare in un fascicolo sulla scrivania del Ministro dell’Interno, se non stesse già nella rubrica del telefono del Ministro dell’Interno. Per capirci, per costruire un 25 Aprile migliore non mi rivolgerei ad un Irriducibile della Lazio, anche se non posso dimenticarmi che esista o ridurlo ad un dettaglio di tutta questa faccenda (è appunto irriducibile, lo dice anche il nome).
La smettessimo per esempio di esaltare, con più o meno ironia, la pratica degli appendimenti a testa in giù. Si fa coi tiranni, ricorda qualcuno. Ok, di salamicidi è piena la storia, ma allora che ce ne facciamo dello stato di diritto? Con tutta la fatica che c’è costato dotarcene. Noi siamo – dovremmo essere – i BUONI. Sei un dittatore e hai mandato a morire gli innocenti? E noi ti diamo un avvocato d’ufficio, per marcare ancora di più la differenza che ci distingue da te. Se proprio dev’essere un derby, come dice quello, noi la squadra la schieriamo in tutt’altra maniera. Tu fai il catenaccio e incateni, noi facciamo il calcio totale di Cruijff, e LIBERI tutti.
La smettessimo di dire che in quella memorabile stagione e in quell’aprile “gli abbiamo fatto il culo”, a quelli. L’ho letto in duecento tweet e post, oggi. È scritto ancora su tanti cartelli, nelle piazze. Primo: LORO gli hanno fatto il culo. NOI siamo quelli venuti dopo. LORO stavano dentro una guerra. NOI “i nemici” dobbiamo portarli dentro una scuola, semmai. O dentro una pagina di un libro di storia. I nostri nemici sono quelli con cui dovremmo costruire il domani del pa… ma che paese e paese, almeno dell’Europa. Esistono casi emblematici di riconciliazioni nazionali post guerre civili che hanno dato risultati sorprendenti in pochissimo tempo. Non è un po’ poco che nel 2019 noi si rstia inchiodati alla rivendicazione di un culo fatto (da altri) nel 1945?
A Sant’Anna di Stazzema il sopravvissuto Enrico Pieri raccontò a me e ai miei alunni dell’incaponimento con cui fece studiare le lingue ai suoi figli, e di come scelse di indirizzarli, per ragioni di studio e lavoro, proprio verso la Germania degli sterminatori della sua famiglia. Andare avanti, aggiustando le cose storte. Questo fanno i Buoni.
La cosa che mi impressiona è lo stallo: da una parte duri e puri, dall’altra duri e neri. Ogni santissimo 25 Aprile. Ma qualcuno è davvero convinto che alla lunga una delle due fazioni avrà la meglio sull’altra? Pensiamo di convincerli delle nostre ragioni per sfinimento? Qualcuno riesce ad individuare anche una minuscola ragione che induca a sperare in un miglioramento di questo meccanismo bloccato? E in virtù di cosa?
Non sarà che, come in tutte le faccende identitarie, l’esistenza di un nemico in fondo ci conforta e ci conferma nel nostro impianto valoriale, buono o cattivo che sia? Perché diciamolo: chi scenderebbe in piazza un giorno di fine d’aprile, magari colla pioggia, se non percepisse un pericoloso autoritarismo strisciante, se non sentisse tanfo di fascio? (E viceversa.)
Lungi da me “mettere sullo stesso piano”, dare dignità a posizioni che non ne hanno.

C’era e c’è una parte giusta.

C’era e c’è una parte sbagliata.

(Lo sapeva anche il cuoco di Salò, che oggi forse giudicherebbe impiattamenti a Masterchef.)

C’erano e ci sono ancora. Ma il quadro è quello, il 25 Aprile 2019. Aspettiamo che un segnale di una qualche natura (distensione, riconciliazione, pace…) arrivi da un “Irriducibile”?
Oppure ci ricordiamo, in questa storia sgocciolata fuori dalla Storia, che noi siamo i BUONI?

 

“Ogni rimando a valori atemporali o metastorici altro non sarebbe che una fuga dal mondo, se non fosse accompagnato da una coraggiosa messa in relazione della propria esistenza con la storicità della stessa”. (Alex Langer)

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Se in Italia esistesse una sinistra, pronuncerebbe il nome di Alice

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Se in Italia esistesse oggi una sinistra, non avrebbe dubbi e si schiererebbe con forza dalla parte di Alice Sebesta, la giovane donna tedesca protagonista del tragico gesto nel carcere di Rebibbia.

Se esistesse una parte politica che ha a cuore gli svantaggiati, i dimenticati, chi meglio di quella persona sola e disperata potrebbe essere il centro del suo agire, l’oggetto delle sue attenzioni.

Non sarebbe una bestemmia: quale ultimo è più ultimo di quella madre malata e disperata? Chi ha più bisogno di cura, di attenzione e forse, un giorno, di una nuova chance?

Se in Italia esistesse oggi una sinistra, direbbe forte che nessun bambino deve entrare in un carcere, a sei mesi così come a 15 anni. Se in Italia esistesse oggi una sinistra, non tratterebbe la vita di un bambino ed un astratto afflato legalitario come fossero la stessa moneta.

Contrariamente a quanto accade con i delitti che riempiono cronache e palinsesti, dove c’è sempre un byte libero per uno Ziomichele da mandare a memoria, Alice che ha bisogno di noi, oggi come non mai, nemmeno troviamo il coraggio di nominarla. “La madre”, e ce la siamo cavata.

Scrive oggi Adriano Sofri:

“Tutto questo e molto altro si pensa e si discute, finché si sta dentro il cerchio, il recinto stretto e irto del famoso consorzio civile e della sua scorza annerita. Ma ad uscirne per un momento, ad avere ancora un consunto ricordo dell’essere umani, della tragedia che è la vita, allora non c’è da discutere o da distinguere: c’è solo da gridare all’infamia e alla pazzia, c’è solo da sentire quale colpa deliberata, stagionata, incistata sta addosso a una società simile, che prende distrattamente in un giorno qualsiasi di agosto quella madre e quei bambini e li butta via, coloro che lo fanno per mestiere e coloro in nome dei quali viene fatto”.

Altro da dire, proprio non c’è.

 

 

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Claudio Lolli, Poeta

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Se questo blog si chiama Pozzanghera è colpa di un verso di Claudio Lolli, intanto.

Poi penso al destino che lo accomunava ad Andrea Pazienza, che disegnava le copertine dei suoi LP. Essere conosciuti e ricordati quasi esclusivamente per la dimensione politica della loro arte – l’impegno, il Movimento, la ribellione, Bologna, il ’77, “quegli anni” – mentre sfugge, incanalata come pioggia in un tombino, la grandezza inarrivabile della Poesia. Ogni volta che ho visto Lolli muoversi quasi svogliatamente sopra un palco, con tra le mani il libro ingiallito e consumato dei suoi testi, ho pensato che fosse l’unico cantautore a poter essere davvero soltanto letto, senza chitarre, arpeggi, bassisti e ritornelli. Come un poeta, appunto.

Un altro poeta, Gianni D’Elia, di Claudio Lolli scriveva così.

 

Claudio, sapessi
quanta malinconia
nell’attacco arioso del sax
quanta via
fatta dagli anni della nostalgia

quanta vita
riemersa ma vaga
una sola fitta strana
uno struggimento
nel movimento ampio del sax
che risoffia la sua fiammata
e riapre la ferita d’ogni giornata.

Claudio, sapessi
verso il mare
mentre il passo trasale
e i brividi
arrivano ai denti
come la canzone dei tuoi zingari
che suona più nel petto che nel sole
come i lividi
il languore e lo smarrimento
che risuona dentro
nel solco del cuore.

Claudio, quello non fu
il sogno di un momento
e fu l’amore
fu il sogno vero
fu il vento
di cambiare con la testa
il cuore la gioia
di fare della gioventù un portento.

No, venuta su in mezzo alle bombe
generazione
contro il muro dei padri schiantata
educata a un dolore senza amore
a sparare nello specchio
aizzata
per una giustizia di strada sbarrata.
non fosti
il sogno di un momento
generazione.

Claudio, sapessi
quanta malinconia
nel sax
che risoffia la sua fiammata
e riapre la ferita d’ogni giornata
per quegli anni già pieni d’energia
per la speranza comune a ogni cuore
che risuona più nel petto che nel sole
come i lividi, il languore e lo smarrimento
stracciata nel vento col suo amore.

Claudio, ricanta la nostra canzone

 

Gianni D’Elia, Riascoltando gli Zingari Felici

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Ponte Morandi e le cose più grandi di noi

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Una cosa che non dice nessuno. Magari a ragione, ché sicuramente sbaglio io. Però, in mezzo a tutto questo pressapochismo dei tanti ingegneri autonominati, davanti ai distributori di colpe e di ammende (150.000.ooo di multa, abbiamo già la cifra tonda, come si trattasse di un divieto di sosta e non di una vicenda che andrà a sentenza tra 18 anni e 7 governi…), davanti a chi sulle macerie di questa tragedia marcia sopra da ore… ecco, pensare che qualcosa di davvero imprevedibile possa essere accaduto. Qualcosa che possa essersi infilato nel muro spesso dei calcoli matematici che facevano reggere la struttura di quell’opera, qualcosa di ovviamente associato a qualcos’altro che a sua volta era legato ad altro ancora, perché come diceva Gadda i fatti hanno cause e concause concatenate assieme e sono uno gnommero, diceva lui, un garbuglio inestricabile, insomma un gomitolo disordinato in cui i capi del filo va a finire che si smarriscono. Mettiamo pure che ci siano stati errori umani, a vari livelli, e superficialità – tante – ma che siano stati “piccoli”, trascurabili davanti alla forza di quell’imponderabile. Sono consapevole che quando costruisci un viadotto pieno di Tir sopra un condominio pieno di bambini l’imponderabile dovresti averlo domato, ma so anche che a volte noi umani ci siamo illusi delle nostre possibilità, e infinito è l’elenco dei nostri passi più lunghi della gamba.

Non fatalità, quindi, ma fallacità: l’immenso inganno del nostro essere uomini. Perché no?

(Poi ho sicuramente torto, ma se l’alternativa è Benetton che nuota nella piscina riempita di euro e ridacchia mentre sbatte giù il telefono ai tecnici che gli riferiscono gli scricchiolii sinistri del ponte, ecco…) 

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Leoni da tastiera, però buoni, che fanno #RoarForJess

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Premessa indispensabile: si tratta di un post buonista.

Contiene tracce di umanità ed empatia, frammenti di cura per gli altri e bontà gratuita. Si astengano pure i cinici, gli odiatori seriali, gli svelatori di complotti e i fustigatori di migranti invasori.

Non so voi, ma io ogni tanto ho bisogno di pensare che in queste pagine che scorriamo con il dito, che commentiamo, cuoriciniamo o non cuoriciniamo, ci sia ancora qualcosa di buono che ci avvicina invece che dividerci. Ho bisogno di trovarci il contrario di quel buco nero rappresentato da un mio simile che legge di un incidente con 12 vittime con la pelle di un altro colore e ci scrive sotto “meno 12”. E non lo fa come si può fare di notte con un secchio di vernice a macchiare un muro in maniera anonima. Lo fa con la sua faccia, con il suo nome ed il suo cognome, e poi si mette lì tranquillo a contare i like e gli improperi di quelli che s’incazzano, felice per l’esistenza di entrambi.

Ecco, a me serve il contrario di quella cosa lì.

E ieri l’ho trovato.

Complice del ritrovamento, il leader laburista britannico Jeremy Corbyn.

(“Comunista!”, diranno i miei 25 lettori di destra. Proprio lui, ma la politica questa volta non c’entra).

Il tweet di Corbyn che metto a fuoco sul mio telefono è una sorta di messaggio per qualcuno che non conosco. Si apre con un saluto (Hi!) e continua con un gran bel complimento (you are a shining star) e contiene una lode decisamente impegnativa: sei una fonte di ispirazione per tutti noi.

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Destinataria: Jess.

E chi è Jess?

Clicco sull’hashtag riportato dal capo del Labour e tutto diventa subito più chiaro.

DcIZvYCWkAElUYHJess è una bambina di 10 anni. Gli ultimi 7 li ha trascorsi lottando contro un male brutto, un male osceno che mi si conficca negli occhi appena clicco su qualche foto e lui sta proprio lì, a pochi centimetri da quel musetto allegro e intelligente. Un male che si vede con la stessa evidenza con cui è possibile inquadrare la dolcezza, la simpatia, la luce di quegli occhi bambini.

Il mondo dei social conosce già Jess, in passato sono esistite raccolte di fondi per permetterle di affrontare cure nuove e particolarmente costose. Questa volta, però, i familiari della piccola hanno lanciato un altro tipo di appello.

Pare, infatti, che non ci sia proprio più nulla da fare. Che le speranze di guarigione siano tramontate. Si tratta vivere il tempo che manca e la cosa che deve essere sembrata chiara e lampante a quelle persone devastate ma inclini al pragmatismo è che una giornata trascorsa attendendo il messaggio di un tuo idolo di bambina possa essere migliore di una giornata priva di quell’elemento emotivo.

Tra i primi messaggi giunti al capezzale di Jess, quello della popstar Katy Perry. Sua la canzone preferita dalla bimba, entrata di prepotenza nell’hashtag ufficiale di questa strana missione: #RoarForJess. L’idea del ruggito forse è appartenuta ad una fase in cui la medicina nutriva ancora qualche speranza per la giovane londinese, ma chi può negare che i prossimi giorni non richiedano comunque un coraggio da leonessa?

Così, rincorrendo l’hashtag di Jess ci si imbatte in attori britannici che ruggiscono in video o per iscritto, in giovani cantanti che hanno composto per l’occasione allegri ruggenti ritornelli, squadre professionistiche di pallavolo che fanno 1, 2, 3 ROOOOAR in favore di telecamera. Ho scoperto grazie a Jess che esiste ancora la cantante Belinda Carlisle: in prima liceo mi avevano regalato una sua audiocassetta.

La protagonista di un talent show britannico, il format per bimbi di “The Voice”, tale @astridsingsjazz. ha preso talmente a cuore la faccenda da riempire le sue giornate con pensieri e opere rivolti alla coetanea costretta a letto. La talentuosa cantante in erba rende un aereo e costringe il pilota a registrare un videomessaggio pieno di coccole, al quale si associa con loghi, livree e profili social ufficiali l’intera compagnia aerea.

Esistono in rete tutta una serie di bizzarri account Twitter di animali: eccoli accorrere in massa, la volpe, il gufo e l’elefante. Ognuno ha un messaggio carino, la gif di un unicorno o qualche emoticon da lasciare in dono. Ti distrai un attimo ed ecco un tweet dello zoo di Edimburgo: con gli auguri celebra l’odierna e mai più azzeccata giornata del leone: roarrrr!

Io di star system britannico capisco poco, ma piovono messaggi di cantanti, attori, dj, ballerine e disegnatori, tutte celebrità rigorosamente certificate dal social network con la sua “v” azzurra a fianco del nome. Perché i Personaggi conoscano la storia di Jess, però, è indispensabile il lavorio incessante dei mille taggatori sconosciuti che invitano i propri beniamini ad unirsi alla causa, stanando calciatori milionari e primi ministri. Messaggi hanno già raggiunto Justin Bieber e Paul McCartney, J. K. Rowling e Theresa May. Nei prossimi giorni per Jess potrebbero esserci altre sorprese.

Ogni sera, i familiari stilano un tweet per relazionare il mondo sulla giornata appena trascorsa dalla bambina. Al mattino abbastanza bene, al pomeriggio abbiamo dovuto aumentare la dose di morfina. Oggi Jess ha riso molto, ieri è andata un po’ peggio.

Jeremy Corbyn, Belinda Carlisle ed io aspettiamo quel tweet, ci sentiamo un po’ buonisti ma non certo scemi. Poi ruggiamo piano, quasi in silenzio, perché forse Jess si è già addormentata.

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Josefa salvata dal mare mentre i grillini ci salvano dai frigoriferi

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Fateci caso. Arriva Josefa – col suo corpo, coi suoi occhi – e puff, i grillini spariscono.

Una foto che è un fatto, al di là delle responsabilità dei libici e delle accuse del Viminale alla ONG Open Arms, produce un effetto inaspettato: riduce al silenzio il più rumoroso dei movimenti, quella minoranza per nulla silenziosa fattasi col tempo maggioranza roboante. Invece ieri niente: tacciono i ministri, i portavoce, i parlamentari semplici, i sindaci. Non dice nulla Di Battista, massimo esperto pentastellato di migrazioni, continua a specchiarsi negli occhi di un bambino nero che oggi gli sputerebbe. Muti i giornalisti simpatizzanti. Zitta la base degli attivisti, anche quelli capaci di paragonare le immagini di quella tragedia ad un set costruito ad hoc dai soccorritori spagnoli sembrano tutti ascrivibili all’elettorato leghista. Parla solo Grillo, a un certo punto. Anzi scrive: di frigoriferi americani che emettono troppo carbonio. Frigoriferi, capite?

 

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Ma di chi sarà complice chi da oggi tacerà? Solo di Salvini?

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C’è qualcosa che non torna. E giuro che non mi piace per niente rompere le scatole alla parte giusta, mentre i conti son da fare con la parte sbagliata. Però più guardo quelle righe colorate e quella scritta e più sono a disagio. Chiamare “Salvini” tutto quello che è successo. Sintetizzare dicendo “Salvini”. Da ora in poi sia scritto nero su bianco (vabbè: colorato su colorato): noi non stiamo con Salvini. Cioè: non state con Salvini dal luglio del 2018? Mi chiedo: Serra, Muccino e Tommaso Paradiso prima stavano con Salvini?

Ovvio che no, e allora perché affermare (e sottoscrivere?) una cosa che rischia di suonare come una colossale banalità?

Ho il sospetto che quella copertina voglia cominciare finalmente a remare contro una piega brutta che han preso le cose negli ultimi anni, che voglia opporsi ad una palla di neve che ha preso la ruzzola ed è diventata la valanga bella grossa che ci sta travolgendo. Un qualcosa di complicato che ha a che fare con la “pacchia” dei migranti, certo, ma ha a che fare altrettanto con i “taxi del mare” e con le questioni vaccinali (già ben affrontate proprio da “RS”), con i commenti contro Laura Boldrini e con tutti i rigurgiti qualunquisti che conosciamo bene perché ci arrivano ormai alla gola. Un qualcosa che con tutta la cattiva volontà e con tutta la fretta semplificatrice di questo mondo non possiamo chiamare – chiamare soltanto – “Salvini”.

Salvini c’era già e su Salvini non ha mai taciuto nessuno.

P.S.: nel frattempo molti dei nomi citati dall’iniziativa di “Rolling Stone Italia” si sono dissociati o hanno postato i loro distinguo. Confermandomi nell’idea che la faccenda è un filino più complessa. E che non lo sappiamo ancora dire, contro cosa stiamo, noi. Ecco, appunto: noi chi?

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#ANTIFA, ma basterà?

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Cosa vuol dire essere antifascisti? Vuol dire essere i buoni: è chiaro, non ci piove. Ma per essere i buoni è davvero sufficiente non comportarsi come fanno i cattivi? Ecco, questo è il punto.

Io nell’antifascismo, così come è andato configurandosi, vedo questo limite.

Il nervo è scoperto, benissimo. Gli allarmi suonano subito e suonano forte. Un fascista che spara su una folla di migranti ci fa saltare sulla sedia, ma provocherebbe la stessa reazione in noi anche la semplice foto della sua cameretta con scritti hitleriani in bella mostra, o la sua tempia decorata a svastiche. “Il Lupo” ci fa paura e ci indigna. Perfetto, ma se diciamo che tutto questo ci offende e ci fa schifo siamo stati sufficientemente antifascisti?

Secondo me, no. Per essere i buoni, bisogna fare le cose buone. Le cose buone scacciano le cose cattive, e i cattivi con loro. Oggi a Macerata – e il 24, a Roma – si canterà Bella ciao e molte persone grideranno che i fascisti fanno schifo, perché è vero e perché è giusto. Probabilmente non basterà. Il contrario della mancata strage marchigiana è una piazza aperta agli stranieri che vivono in Italia, ai loro canti e ai loro balli. Aperta ai loro nomi, perché siamo antifascisti e antirazzisti ma se ci chiedono di dire 5 nomi propri di africani dopo Abdul e Mohammed siamo già fermi al palo, mentre in Italia ormai i Mamadou sono più dei Giuseppe. Il partito che vuole davvero combattere Forza Nuova e Casa Pound apre le sue sedi ai migranti, li accoglie nelle sue fila anche se non può raccoglierne i voti o candidarli in un collegio, o affidare loro un assessorato.

Ci sono gruppi di intellettuali, penso ai Wu Ming, che fanno un lavoro meritorio di caccia al fascista contemporaneo: scovano minuscoli assessori che hanno fornito sporchi patrocini a iniziative nostalgiche, stanano candidati che hanno banchettato in passato coi gerarchi delle nuove formazioni nere. Con la pars destruens ci siamo, grazie di cuore, ma poi?

Periodicamente scattano infinite polemiche attorno all’antifascismo altrui. Leggendo queste righe sicuramente qualcuno potrebbe già mettere in discussione il mio livello di distanza dalla sporca idea. L’immagine di Gobetti in testa al blog parrebbe dare garanzie piuttosto solide, ma poi, se uno critica le manifestazioni di piazza contro i fasci…

L’antifascismo antagonista andrebbe accompagnato con qualcosa di nuovo proprio per una semplicissima ragione: fino ad ora non ha funzionato. Cosa succede alle teste rasate come “il Lupo” di Macerata mentre la città sta scandendo le classiche parole della tradizione antifascista? Succede che le stiamo caricando come fossero macchine elettriche. Le stiamo motivando, stiamo dando loro le ragioni per organizzare una rivincita (pure più eccitante perché – per ora, fortunatamente – clandestina).

Mai che qualcuno proponga di sparigliare. Siamo a tutti gli effetti davanti agli strascichi di una guerra civile e nel mondo non mancano gli esempi di soluzioni alternative, nel tentativo di ricucire le ferite di una nazione, anche quando la sproporzione tra le responsabilità dei contendenti è abissale. Non si tratta di trovare delle ragioni nel Fascismo per farci un compromesso. Si tratta di provare ad andare da qualche parte più o meno tutti insieme.

Sarebbe bello che quando “il Lupo” ci viene a cercare non ci trovasse in casa. Ripassa più tardi, sono usciti. Sono scesi nelle strade del mondo, dovevano compiere il loro dovere di buoni. Ci rimarrebbe male, e mai colpo più forte al Fascismo sarebbe stato assestato.

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Contro l’appello che vuol sconfiggere la buona scuola con la scuola morta


flea_PNG24Fare le pulci agli appelli accorati di intellettuali ha un suo fascino. Può essere pure divertente: quello che scrivi non deve avere una spina dorsale (usi la stessa creata degli estensori), non sei obbligato a seguire un filo. Mentre scrivi ti senti come un batterio, un virus, un corpo estraneo che si prefigge di mandare in crisi un sistema, inceppare un ingranaggio.

Questa volta, tuttavia, il divertimento è ostacolato dalla consapevolezza di voler infettare un organismo già gravemente malato di suo. La diagnosi mi pare impietosa: siamo un paese conservatore fino al midollo e non ce ne vergogniamo nemmeno un po’.

Io sono quello rosso, ça va sans dire.

Si parte.

Dalla Costituzione della Repubblica italiana:

Art. 3: ” [..]E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”

Art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento…”

Art. 34: “La scuola è aperta a tutti.  L’istruzione inferiore…”

Bene, il solito trucchetto. Ci eravamo dimenticati la Costituzione. Chi ha provato a confrontarsi con il nuovo, negli ultimi anni, dal legislatore fino all’ultima delle maestre dell’Emilia Romagna, lo ha fatto dimenticandosi della Carta, sputando su Calamandrei. E una moratoria sull’eccesso di strumentalizzazione forzata della Costituzione, no?

La premessa

L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista.

Mi sembra un ottimo modo per svelenire il clima e aprire un confronto con chi ha promosso i cambiamenti criticati dall’appello. Avete distrutto la scuola, parliamone. Siete il male, noi siamo il bene, quanto zucchero nel tè?

La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale.

È quanto mai necessario “rimettere al centro” (virgolette?) del dibattito la questione della scuola.

Come? In tre modi almeno:

  1. a) parlandone e molto, in un’informazione consapevole che spieghi in modo critico i processi in corso;
  2. b) ricostituendo un fronte comune di Insegnanti, Dirigenti Scolastici, Studenti, Genitori e Società civile tutta; e, soprattutto, (contro chi dovrebbe schierarsi, poi, questo fronte? Altri Insegnanti? Genitori cattivi? La Società incivile? Renzi?)
  3. c) riprendendo una lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa. (lotta e resistenza, trasformazione reale e creativa: ok, a che ora scatta l’okkupazione? Scherzi a parte, segnatevi la creatività. Da qui in poi non troverete uno straccio di proposta, qualcosa non dico di nuovo, almeno di concreto…)

Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce? Ora, gli estensori dell’appello vengono tutti dalle scuole Superiori. Tra loro non c’è una prof. delle Medie o un maestro d’asilo. Ovvio che ce l’abbiano a morte con l’alternanza scuola-lavoro e con la sua difficile applicazione. Comprensibile. Ma ha senso trasferire questa frustrazione da prof. di liceo all’intero corpaccione della scuola italiana? Davvero, ammesso che sia possibile percepirle nei licei, si sono innestate nelle scuole primarie italiane derive economiciste? Una maestra che porta la robotica in classe si rende complice di questa deriva? Lo pensate davvero? Anche guardandola negli occhi?

7 temi per un’idea di Scuola

da leggere come studente, genitore, insegnante, cittadino

  1. Conoscenze vs competenze
  2. Innovazione didattica e tecnologie digitali
  3. Lezione vs attività laboratoriale
  4. Scuola e lavoro
  5. Metrica dell’educazione e della ricerca
  6. Valutazione del singolo, valutazione di sistema
  7. Inclusione e dispersione

Il documento

  1. Conoscenze vs competenze

Una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Matematica, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro. Una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedono riferimenti che affondano le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia delle discipline.

Da qui sembra di capire che nella “nuova scuola” Letteratura, Arte, Matematica, Geografia, ecc. non esistano più. Che dalla scuola italiana stiano sparendo le opere. La Gioconda? Via. La Divina Commedia? Via. Le nostre radici sono sotto attacco. I barbari non avranno pietà.

Chiunque abbia un figlio a scuola potrebbe testimoniare come al massimo sia cambiato (era ora!) qualche approccio metodologico. Un figlio che guarda un video sui vulcani prima di studiare le pagine che il libro di scienze dedica ai vulcani. Per quelli dell’appello, invece: ci stanno scippando i vulcani.

 Crediamo che:

  1. i)Aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano, anche con l’appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”. Interessante notare come le tanto vituperate (dall’appello) competenze adottate negli ultimi decenni dalla scuola italiana siano nientemeno che riferimenti comuni a tutti i paesi Ue. Sono il prodotto dell’Europa migliore a cui spesso diciamo di voler assomigliare di più, ma che quando fa sul serio e innova davvero ci fa scappare a gambe levate. I grillini che vogliono uscire dall’euro (subito, forse, chissà, vedremo cosa dice il web…) sono la punta di un iceberg, ma il paese è bloccato da un ghiaccio più profondo e difficilmente scalfibile…) 
  2. ii)La competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi. La cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non è un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”. Insieme di rituali individuali da validare e certificare… vostra sorella. Migliaia di docenti insegnano cittadinanza a scuola nel 2017 lontani da questa macchietta da volantino ciclostilato a Bologna nel ’77. Cittadinanza che in realtà, nella scuola rimpianta dagli estensori, era qualcosa di vago e incompiuto (l’educazione civica, do you remember?), lasciato alla buona volontà dei docenti (che buona era in rarissimi casi). Qui ci si aspetterebbe un guizzo di quella auspicata creatività. Non pervenuto.

iii)  Non abbia senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche.

  1. Innovazione didattica e tecnologie digitali

Innovare non è bene di per sé, tantomeno in campo educativo. La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa. Innovazioni e tecnologie, nelle varie accezioni global-ministeriali GLOBAL-MINISTERIALI???? Ma come parlate? Come Manu Chao? (debate, CLIL, flipped classroom, etc), rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno. Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola.

Ok, prof. che fai gare di retorica coinvolgendo i ragazzi, che in classe tua pare d’essere nella Roma di Cicerone (a proposito di radici…), fermo: stai demolendo la scuola.

Ehi, prof.ssa che stacchi alle due di notte per preparare al meglio la tua lezione (CLIL) su Caravaggio in tedesco, non ti muovere: stai demolendo la scuola.

Tu, maestra che corri come una matta tra virtuosi circoli di banchi coordinando attività creative di bambini che poi verranno condivise con l’intera classe (flipped classroom), stop! Hai appena picconato a morte la scuola italiana.

 Crediamo che:

  1. i)Ogni innovazione metodologica o tecnologia digitale sia un possibile strumento di ampliamento e accesso a contenuti e conoscenze. Sul loro impiego l’insegnante è chiamato a riflettere e valutare in maniera incondizionata e libera. Codificare pratiche e metodi, presentati come la priorità della Scuola, è una semplificazione retorica arbitraria, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che ridefinisce finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio a un’ideologia indiscussa. E quale sarebbe questa ideologia indiscussa? Non è forse il caso di essere meno fumosi? C’è aria di complotto, pare d’intendere. E qui l’appello può già essere confuso con un post di Diego Fusaro. A proposito: ha già firmato?
  2. ii)L’inflazione di innovazioni didattiche e gli sperimentalismi digitali offrano spesso narrazioni impazienti ed elementari (slides, video, “prodotti”, progetti), propongano procedure stereotipate e associazioni banali, con grave danno per gli studenti e la loro crescita culturale, interiore e sociale. Vero, la scuola fa un uso eccessivo del termine “progetto”, e pure della sua sostanza. Ma cosa c’entrano i progetti in quella parentesi? E che cosa sono i “progetti”. Scusate, ma sembrate gente che non ne mastica proprio tantissimo, di fantomatiche novità. A occhio dovete ancora riprendervi dalle bizze di PowerPoint… solidarietà. 

iii) Non sia il mero ingresso di uno smartphone in classe a migliorare l’apprendimento o l’insegnamento. In quel caso si potrà, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento. Il miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento passa, però, per altre strade: quelle dell’attuazione del dettame della nostra Costituzione. Ecco i mulini a vento. Una frase della Ministra che prende consistenza di legge. Nessuna imposizione di smartphone in classe. La situazione è questa: molte scuole li hanno vietati, altrove qualche docente sostiene ci si possa far lezione con profitto. No, dall’appello si evince che sia scattato un vincolo per tutte le scuole del Regno. Via la grammatica italiana, dentro WhatsApp. Soluzioni alternative? La solita: attuiamo la Costituzione (!!??!!??). Grande assente nel ragionamento: la logica.

  1. Lezione vs attività laboratoriale

Nell’era di instagram, twitter e dell’ e-learning, la relazione e la comunicazione “viva” allievo/insegnante – nella comunità della classe – rappresentano fortezze da salvaguardare e custodire. La saldatura del legame intergenerazionale, la trasmissione coerente di conoscenze, percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle reazioni di sguardi e comportamenti. Tutto questo è fare lezione, un incontro fra persone in cammino in una comunità inclusiva. Gli appellativi di “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale” sono rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti e cambiamenti di ciascuno, insegnante incluso.

Qui si entra nel vivo. Ricordiamo ai docenti italiani cos’è una lezione. Primo, non c’entra nulla con Twitter. Ok, me lo segno. Davanti ai tuoi studenti fai lezione, non postare stories su Instagram. A lezione, poi, si cammina in una comunità inclusiva. Da Facebook invece puoi cacciare chi vuoi, gli togli l’amicizia. Ma cosa state dicendo??? Ma chi ha mai torto un capello alla “trasmissione coerente di conoscenze, percorsi e temi”? Quale insegnante “innovatore” ha smesso di “problematizzare insieme”, chi ha mai smesso di “prestare attenzione agli sguardi”? Ma come vi permettete? Voi non prestate attenzione alla realtà. Fateci caso, c’è ancora. Lì, dietro i fumi dell’ideologia.

 Crediamo che:

  1. i)L’insegnante, come educatore, sia responsabile e garante di quell’ “incontro” che dà senso e valore ai fatti culturali della propria disciplina. La relazione di pari dignità ma asimmetrica tra maestro e studente, nel microcosmo della collettività di classe, permette agli allievi di imbattersi nel non conosciuto, di praticare l’incontro con la difficoltà del reale e del vivere in comunità, di aprire un orizzonte culturale diverso da quello familiare o sociale. (E quindi? qualcuno ha mai negato queste cose?)
  2. ii)Attenzione concentrata, aumento dei tempi di ascolto, siano condizioni per un “saper fare” come “agire intelligente”, che non si consegue assecondando l’uso delle tecnologie o seducendo gli alunni con dispositivi smart, ma in contesti di applicazione laboriosa, tempo quieto per pensare, discussione nel gruppo. (ma voi che non seducete i ragazzi con dispositivi smart come facciamo noi demolitori, precisamente come fate? Vi aiuta il dettato costituzionale o avete fatto qualche corso alla scuola Holden di Baricco?)
  1. Scuola e lavoro

Non si va a scuola semplicemente per trovare un lavoro, non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione. Dal liceo del centro storico al professionale di estrema periferia, la scuola era e deve restare, per primo, un “luogo potenziale” in cui immaginare destini e traiettorie individuali, rimettere in discussione certezze, diventare qualcos’altro dalla somma di “tagliandi di competenza” accumulati e certificati. L’apertura alla realtà sociale e produttiva può realizzarsi, volontariamente, attraverso forme e progetti di scambio organizzati autonomamente dagli istituti scolastici. Non imposti ex lege dal combinato Jobs Act e Buona Scuola. Pratiche calibrate in base ai contesti e alle finalità educative, che in nessun modo gravino sulle famiglie o sugli allievi in termini di sostenibilità e gestione.

 Crediamo che:

  1. i)L’alternanza scuola lavoro non rappresenti affatto un’opportunità formativa per i ragazzi, quanto piuttosto una surrettizia sperimentazione del “lavoro reale” che entra fin dentro i curricula scolastici, sottraendone tempo e qualità e distorcendone le finalità.
  2. ii) Oltre ad approfondire il solco tra sapere teoricoe pratico, alternanza è sinonimo di disuguaglianza. Percorsi ineguali in base a contesti, tessuti sociali e reti familiari, che peggiorano in proporzione alla fragilità delle condizioni economiche e delle opportunità culturali di luoghi e famiglie.

iii) Bisogna recuperare l’idea di Scuola come luogo della vita dotato di un tempo e spazio propri, non corridoio di passaggio tra infanzia e adolescenza – considerate età “minori” – e occupazione adulta.

  1. iv)Sia necessario portare la conoscenza del lavoro nelle classi, non gli studenti a lavorare. Logiche, dinamiche e problematiche dell’occupazione entrino nel dialogo educativo, per aiutare i giovani ad orientarsi, attrezzarsi a comprenderle e intervenire per modificarle.
  1. Metrica dell’educazione e della ricerca

Educazione e ricerca accademica sono oggi terreno di confronto tra tutti i soggetti sociali, politici, economici ad esse interessati. Gli orientamenti internazionali delle politiche formative e di ricerca lo testimoniano e innescano una competizione globale in cui ranking internazionali (OCSE) e nazionali (INVALSI, ANVUR) comprimono gli scopi formativi e di studio sulla dimensione apparentemente neutra di “risultato”, oltre ad indurre a paragoni privi di rigore logico. Educazione e ricerca universitaria non sono riducibili ad un insieme di pratiche psicometriche globali, a cui sottoporsi in nome del principio di etica e responsabilità. Il futuro della Scuola e dell’Università sono questioni politiche nazionali, da collocare in un contesto europeo e interculturale di confronto e valorizzazione delle differenze, libero e democratico.

 Crediamo che:

  1. i)Scuola e Ricerca universitaria siano oggetto di vera e propria “ossessione quantitativa”, da parte di organismi internazionali e nazionali.
  2. ii)La logica dell’adempimento e della competizione azzerino il lavoro di personalizzazione nella formazione scolastica ed erodano progressivamente spazi di progettualità libera nella ricerca universitaria (attraverso la sottomissione a criteri di valutazione non condivisi).

iii) Le scelte operate da MIUR, INVALSI ed ANVUR, modifichino profondamente comportamenti e strategie nelle Scuole e nelle Università, generando condotte di mero opportunismo metodologico-didattico e scientifico nonché la perdita di “biodiversità culturale”, strumento indispensabile per affrontare le complessità del futuro, oggi imprevedibili.

Insegnando nel primo ciclo ne so troppo poco sull’alternanza scuola-lavoro per chiosare anche qui. Il linguaggio spocchioso barricadero è al solito irritante, pensando soprattutto ai colleghi che si impegnano quotidianamente per realizzare al meglio le perfettibilissime novità introdotte recentemente. Qualcosa di simile all’alternanza esiste in tutti i paesi avanzati, viene il sospetto che qualsiasi formula si studi per attuarla sarà sempre aprioristicamente una demolizione, uno sfruttamento, la peste bubbonica. 

  1. Valutazione del singolo, valutazione di sistema

La valutazione degli studenti è impegno unico, qualificante e delicato dell’insegnante, condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli del cambiamento tipico dei processi di apprendimento. È un’osservazione “prossimale” (e responsabile) modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto. È impensabile che enti terzi, estranei al rapporto educativo, entrino nel merito della valutazione formativa, come previsto dalla Buona Scuola. Singolarmente anacronistico appare che, dopo decenni di ‘crisi del fordismo’ in economia, si voglia introdurre la ‘fordizzazione’ nell’educazione. Le menti, soprattutto durante le prime fasi della formazione, sono delicate, creative e si conciliano con “tempi e metodi” d’antan assai meno delle berline. (delle berline, delle berline, delle berline, avete presente quando una parola sembra finita lì per caso?)

 Crediamo che:

  1. i) Accostare una valutazione di agenzie esterne a quella del corpo docente nel “curriculum dello studente”, mini la relazione di fiducia scuola-famiglia, spostando l’attenzione sull’esito, più che sul processoe sul percorso, togliendo ogni significato agli obiettivi di personalizzazione ed inclusione che la Scuola afferma di perseguire;
  2. ii)Un’agenzia “terza” (INVALSI) non possa svolgere compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola: la terzietà non è, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità.

iii) La presenza di agenzie esterne nella valutazione del singolo rappresenti un’espropriazione di quella responsabilità complessa, raffinata negli anni con l’esperienza e la condivisione collegiale, della professionalità di ogni insegnante: la valutazione dei propri studenti;

  1. Inclusione e dispersione

La dispersione scolastica, l’inclusione autentica e la riduzione delle disuguaglianze necessitano di interventi politici sistematici, di fondi strutturali, impegni comunitari, di monitoraggio costante, conoscenza e capitalizzazione delle pratiche esistenti. A partire da investimenti e piani territoriali: infrastrutture, associazioni, biblioteche; fino ad arrivare a Scuola, con risorse costanti per costruire una fitta ed efficiente rete di recupero dei disagi, delle solitudini e delle difficoltà degli allievi più fragili. Se è vero che la Scuola e i buoni insegnanti fanno la differenza, è ancor più vero che la dispersione ha una sua mappa che si sovrappone a quella geografica ed economica dei tessuti degradati e delle periferie impoverite, di situazioni e storie difficili da ribaltare e su cui incidere. Dare alle Scuole risorse e spazi adeguati alla costruzione di didattiche di recupero e opportunità di accoglienza non è sperpero di denaro pubblico, ma progettazione politica di inclusione autentica, unica vera prospettiva di crescita e ricchezza del paese.

Qui siamo alla demagogia pura. Il punto 7 si apre con la parola INCLUSIONE. La parola viene ripetuta, richiamando un’inclusione “autentica”. Ad opera di tutto il sistema, senza attribuire meriti a nessuno in particolare, la scuola italiana ha fatto più passi avanti sul tema dell’inclusione negli ultimi 10 anni che nei 60 precedenti di storia repubblicana. Eravamo in ritardo, abbiamo recuperato un bel po’. Tanti docenti hanno svolto percorsi di formazione, alcune importanti leggi sono state varate. Si è appurato che il vituperato digitale applicato alla didattica può fare molto. Si sono fatti piccoli passi anche sul versante del linguaggio. La scuola recentemente demolita, quella che praticava inclusione autentica, vedeva i suoi docenti conversare in maniera bizzarra, “quanti 104 hai?”, “oh, quest’anno c’ho un H, ma un H…”. Poco costituzionale, no?

Ecco, l’appello dice inclusione, ma poi non cita nessuna presunta magagna. Al massimo si può intuire che l’inclusione che oggi non c’è verrebbe introdotta (come? creatività? Costituzione?) seduta stante dagli estensori dell’appello.

Crediamo che:

  1. i)I temi in gioco siano cruciali e non ci si possa limitare a chiedere alla Scuola di fare meglio solo con ciò che ha. Semplificare compiti e programmi, organizzare corsi di recupero pomeridiani che ricalchino quelli antimeridiani, medicalizzare le diversità, sono scorciatoie che restano agli atti come prove burocratiche di adempimenti amministrativi;
  2. ii)La Scuola abbia un valore politico. Dunque ha il diritto di chiedere di indirizzare risorse pubbliche su questioni di importanza sociale e morale che ritiene prioritarie. Dispersione scolastica e abbandoni precoci non sono solo capi d’imputazione su cui è chiamata a rispondere, ma problematiche che nelle attuali condizioni assorbe e subisce.

In virtù di queste considerazioni:

1)      Chiediamo un’azione di moratoria su:

  • obbligo dei percorsi di alternanza-scuola lavoro e del requisito di effettuazione per l’accesso all’esame di Stato conclusivo del II ciclo
  • obbligo di impiego metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning, apprendimento integrato di contenuti disciplinari in lingua straniera) L’appello non fa capire cosa ci sia di male in queste famigerate lezioni in lingua straniera. Mai preparata una, manco sarei capace, ma ho sempre ammirato molto i docenti che si avventurano in quel compito, invidiato quelli che lo svolgono con nonchalance… Io in questa azione moratoria non riesco a vederci che pigrizia, soltanto pigrizia, considerato che anche nella scuola più avanguardista le lezioni CLIL saranno sì e no una su 100.
  • uso dei dispositivi INVALSI a test censuario per la valutazione degli esiti scolastici, obbligatorietà della somministrazione funzionale all’ammissione agli esami di licenza del primo e secondo ciclo
  • modifiche relative all’esame di Stato, che renderebbero di fatto sempre più marginale la didattica disciplinare.

2) Chiediamo l’apertura di un ampio dibattito governo-Scuola di base-organizzazioni sindacali-cittadinanza sulle questioni di cui al punto precedente e su tutto l’impianto della Legge 107/2015.

In conclusione e ricapitolando, questi dicono:

  • no al quadro delle competenze uniformato a livello europeo
  • no all’azione didattica trasversale alla varie discipline attuata dai docenti, sì ai compartimenti stagni
  • no al digitale nella didattica 
  • no alle lezioni laboratoriali, sì alla lezione frontale
  • no alla didattica capovolta (che si è negli anni soltanto aggiunta alle pratiche tradizionali senza proporsi di eliminarle) 
  • no all’inclusione praticata oggi delle scuole italiane (a cui non si muovono critiche si sorta), sì all’inclusione “autentica”
  • no all’alternanza scuola-lavoro

So di aver semplificato, ma anche di averlo fatto a casa dei Semplificatori.

Ovviamente l’appello cui ho fatto le pulci sta circolando per la nazione attraverso una comunicazione “viva” e comunitaria, senza utilizzare canali alla moda come Facebook e Twitter, peraltro mai citati in Costituzione.

Se qualcuno ha letto – me e loro – fin qui, grazie.

E buon 2018.

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Tra gli odiatori di Gentiloni e i bibliofili di Lodovica Comello

Lodo

Fate quest’esperienza, o se non avete tempo lasciate che ve la faccia fare io nelle poche righe che seguono.

Andate sul profilo Twitter del Presidente del Consiglio. Il 27 dicembre, ieri rispetto a questo post, ha fatto gli auguri alla Costituzione. Piuttosto banalmente, ha scritto “Evviva”. Banale, ma le banalità bisogna sapersele permettere. Oggi, infatti, nel corso della conferenza stampa di fine anno ha  riconosciuto ridacchiando di aver pronunciato poco prima una Frase Storica. Aveva detto che “il Governo governerà”. Ecco, adesso però leggete cos’hanno scritto sotto (al momento) 605 italiani come me, come voi. Adulti con nome  e cognome, gente con un titolo di studio ed un lavoro, appassionati di politica, non profili fake dai nomi improbabili.

Ok, so che non ci siete andati, a leggere. E vi capisco. Però avete capito cosa avreste trovato.

Andiamo avanti.

Andate ora sul profilo Instagram di Lodovica Comello. Esatto, sì, proprio lei, la mia conterranea. 28 dicembre: la giovane cantante è in partenza per Buenos Aires. Raggiunta Milano, prima di arrivare farà scalo a San Paolo. Una bella maratona, tant’è che la Nostra esibisce sulle ginocchia il libro che l’accompagnerà durante il viaggio: David Grossman, Qualcuno con cui correre.

Ora fate come con Gentiloni: leggete sotto. Tenete a mente che l’illustre friulana spopola tra i tredicenni e forse l’età l’ho pure sparata grossa. Spopola tra ragazzine che si autonominano “lodo.my.heaven”, “lodofanatica” e “lodofanaticaxsempre”…

Ecco, invece, sorpresa.

Sotto quella foto trovate un ricco elenco di letture. Sì, le fan, quasi tutte femmine, ricambiano il consiglio e elencano ognuna la lettura del cuore, quella che ti cambia la vita.

Una festa di libri, un elenco che manderebbe felicemente in soffitta gli elenchi distribuiti da certi insegnanti di lettere prima dell’estate, con Il sentiero dei nidi di ragno stufo anch’esso di starsene lì da 25 anni, tra Pavese e Edgar Allan Poe.

Questo Cormac McCarthy, Lodo, segnatelo. E anche quel Ray Bradbury.

Il diario di Anna Frank, sì cara, quello dei tifosi della Lazio.

E poi Stieg Larsson, Carlos Ruiz Zafon.

Ma anche Wonder, magari complice il film nelle sale.

Un amore di Buzzati, oh yeah. Cime tempestose e la biografia di Bebe Vio, Delitto e castigo e Macbeth.

L’arte della Gioia, Lodoooooo, di Goliarda Sapienza: “Bello impegnativo ma di un’intensità pazzesca”. Come dare torto alla tua fan?

Poi c’è quella che non ricorda il titolo e quella che ha scordato l’autore, pazienza.

Io intanto sto molto meglio e penso all’idea che hanno gli adulti dei ragazzini sui social.

(Nel frattempo, Comello ha già detto se si candida con Renzi o con Liberi e Uguali?)

 

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La ragazza del risciò

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C’era una volta una ragazza che aveva un sogno. Si trattava di un sogno fragile e prezioso, da pronunciare quasi come un sussurro. “Voglio raccontare la Cina”, diceva.

Da quel paese avevano cominciato ad arrivare, in effetti, un sacco di notizie. Sarà stato il botto di quel boom economico, saranno stati gli articoli e i libri di quel Rampini che ci dava dentro con l’informazione, ma raccontare no, raccontare era un’altra cosa. La ragazza intanto aveva preso casa in affitto a Pechino ed era certa che la cosa giusta da fare, prima di mettere mano al suo sogno, fosse osservare e capire, farsi formica tra quei milioni di formiche, farsi bicicletta tra tutte quelle biciclette. No, i cinesi non erano soltanto soldi nelle mani e sputi per terra, e quella società – al netto delle spinose questioni aperte – non andava rinchiusa nel luogo comune della dittatura. L’aria era frizzante, nella capitale si respirava un’energia estranea al vecchio continente. La ragazza che voleva raccontare non ha smesso per un attimo di guardare, di impicciarsi con gli occhi di quelle faccende che stavano cambiando il mondo e prima ancora, la vita di centinaia di migliaia di esseri umani.

È salita sui grattacieli, la ragazza, ma prima ha passeggiato tra gli ultimi hutong. Della Cina ha visto tutto: i circuiti automobilistici e gli impianti sportivi dell’Olimpiade, le rare chiese cristiane e gli ospedali psichiatrici, le dighe chilometriche e gli hangar giganteschi dove milioni di babbinatale imparano ad arrampicarsi come l’uomo ragno sulle facciate delle case d’Occidente. Con tutto si è spostata dentro quel “continente”: aerei e treni, autobus, metropolitane e barche, fino agli immancabili taxi. All’occorrenza, quando certe piogge estive esagerano e allagano le vie di Pechino, ha detto sì al traino umano di un risciò.

La ragazza ha incontrato cinesi di ogni sorta, gettando nella mischia del dialogo quotidiano il suo cinese d’università. Strana faccenda anche quella della lingua: trovi lo scrittore di grido che ti rivolge sentiti complimenti per la tua pronuncia e dopo un paio d’ore la vecchietta che ti vende 2 pesche dal carretto ti abbruttisce come se stessi parlando in coreano. Un capitolo a parte, i bambini. Li ha fotografati spesso, la ragazza. Di nascosto, acquattandosi a margine di un gioco o di una fragola succhiata piano come un piccolo rosso tesoro. Scopro in questo istante che Flickr non è morto come pensavo, e allora andate a verificare se non dicono qualcosa di bello anche a voi, i bambini immortalati dalla ragazza.

Un giorno la ragazza è entrata in un ospedale di Pechino. C’era già stata qualche giorno prima con una troupe della Rai, per raccontare la storia di Li Yue, rimasta sepolta tra le macerie del terremoto in Sichuan, e rivelatasi stella, ballerina senza una gamba, nel corso della cerimonia d’apertura delle Paralimpiadi 2008. La ragazza cercava Li Yue per consegnarle un regalo da parte di sua sorella bambina, prima tra gli italiani a ricevere quel racconto.

La vita in Cina della ragazza è durata sei lunghi anni, nel corso dei quali ha assaggiato ogni aspetto di quel mondo. Raccontare, tuttavia, non è mai stato semplice. Dopo i Giochi l’interesse per quel paese è vagamente scemato, la crisi dei giornali si è giorno per giorno acuita e l’idea di qualcuno che documenta il presente appoggiandoci sopra le suole è parsa a molti direttori eccessivamente costosa. Per vedersi concessa una pagina, servivano storie pazzesche, e la ragazza non si è fatta mancare neanche quelle. Basti pensare alla volta che si è infilata in un’assurda città ai confini con la Mongolia, celebre per i ritrovamenti paleontologici (celebrati da riproduzioni gigantesche di dinosauri in giro per le strade) e per la vivacissima vita dei suoi bordelli. Scambiata per una prostituta russa, ha raccontato la vita dei papponi e, soprattutto, delle vittime del traffico, in uno degli ultimi numeri del glorioso “Diario”.

Tornata in Italia, la ragazza ha fatto altro. Radio e Tv, soprattutto. Il sogno è rimasto lì, sottotraccia. Ogni tanto ha forse pensato di averlo perso, o che si fosse giocoforza prosciugato, estinto. Non è accaduto, invece.

Da oggi la ragazza ci riprova. Unite le forze con uno dei più attenti osservatori di quel mondo (dopo averlo anche lui lungamente percorso), si è inventata un Risciò parlante. Nel suo podcast la ragazza vi racconterà il presente del paese probabilmente già oggi più influente, ma lo farà alla luce di quegli anni di studio matto e disperato.

Lo farà come a qualcuno – a pochi – riesce di dare corpo ai propri sogni.

 

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Insegnanti per la cittadinanza

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Il 7 settembre ho avuto l’onore di intervistare il maestro Franco Lorenzoni nel corso di un convegno di insegnanti. Negli ultimi anni, da quando mi sono interessato alla sua figura e alle sue idee, ho potuto notare che parlare di lui come “il Maestro”, da parte di un buon numero di docenti, non ha nulla di diverso dal modo in cui per mezzo secolo abbondante gli italiani si sono riferiti ad un uomo, ricco di rughe e molto altro, chiamandolo “L’Avvocato”. Con la differenza non irrilevante che Lorenzoni il maestro lo fa per davvero, da un sacco di anni, tanto che dopo un minuto di chiacchierata con lui hai già davanti agli occhi la faccia di quel tal bambino Lorenzo che non riesce a stare fermo (beato lui) e quell’arguta bimba marocchina che non ama la matematica. Dopo un minuto, forse anche meno.

Al termine della conversazione pubblica, riferendomi ad un’intervista in cui dichiarava di non essere stato molto bravo, a inizio carriera, nel calmare i bambini e nell’aver avuto successo piuttosto nella missione di agitarli, gli ho chiesto cortesemente di provare ad “agitare” la platea che gli sedeva davanti. Non aveva molte pretese, quella domanda. Confesso che mi sarebbe bastato, dopo avergli fatto toccare altri temi alti e spinosi, un riferimento scherzoso su quell’episodio biografico.

E invece no.

Probabilmente per agitare qualcuno è necessario prima agitarsi. E Lorenzoni si è agitato. Non riusciva a stare composto, si contorceva sulla sedia. Ha quindi detto di essere in difficoltà davanti a un particolare momento della vita scolastica, quello in cui lo Stato italiano gli chiede per legge sacrosanta di insegnare agli alunni la disciplina “Cittadinanza e Costituzione” e lui davanti ha sempre più spesso bambini nati in Italia che quella cittadinanza non la possono esercitare, in quanto stranieri. La lezione diventa a quel punto una sorta di ora di religione da cui gli studenti di altre confessioni non possono, meno ipocritamente, essere esentati. Una situazione assurda, come impartire lezioni di alta cucina a chi non possa per legge esercitare il mestiere di cuoco. Come insegnare il rinnovato piano per la mobilità di una grande città (metropolitana, piste ciclabili, zone pedonali) agli inquilini del suo carcere di massima sicurezza.

Il Maestro ha quindi accennato ad un appello che aveva in mente di scrivere e diffondere. Un appello rivolto agli insegnanti, quelli che ogni giorno misurano concretamente la necessità di un provvedimento come quello arenato presso il Senato della Repubblica.

QUI il testo dell’appello.

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Prendete gli iPhone ché vi detto i compiti (quando il dibattito sugli smartphone smette di essere smart)

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Prima ora, due ragazzine stanno lavorando attorno ad alcune fotografie d’autore. Sfogliano le pagine di un volume patinato, discutono, fanno alcune scelte, selezionano e scartano. Una si chiede se dietro quel nome straniero scritto in copertina si celi un fotografo maschio o una fotografa femmina. Il prof, che conosce quegli scatti a memoria, confessa di non saperlo, prende l’iPhone, googla e risponde: è un maschio. I capelli sono da femmina, però, chiosa l’alunna. Il mondo è complicato.

Terza ora, nei dintorni della grammatica. Tra soggetti di verbi attivi e passivi, complementi oggetto e di luogo, piove in classe un nome una coppia di nomi un po’ insolita: Diabolik e Eva Kant. Le idee sono confuse, qualcuno è convinto c’entrino con Wonder Woman, altri ne sanno tantissimo, così tanto che con loro nei panni di Ginko i due personaggi marcirebbero in galera. Il prof. è democratico, tutti devono sapere. IPhone, Google, Ok abbiamo capito.

Quarta ora, italiano. La ragazza ha letto un libro, quest’estate. Lo cita ma non le viene il titolo, soltanto qualcosa di somigliante, perciò si contorce insoddisfatta, mette a ferro e fuoco la punta della lingua ma niente da fare. Probabilmente un iPhone X interverrebbe anche da solo, quello presente in classe ha bisogno del suo padrone, ma in 10 secondi titolo e autore sono lì, belli e squadernati. Un altro ragazzino annota curioso, rigorosamente a mano. Leggerà anche lui, forse.

Il dibattito sullo smartphone in classe nasce già esausto. Pensosi editoriali mettono in guardia e annunciano più o meno prossime fini di mondo e elencano le competenze tecniche e umane che perderemo delegando alle infernali macchine.

Nella mia scuola media i telefonini sono da sempre proibiti. Quello che questa mattina ha in qualche modo sbloccato virtuosamente tre situazioni è il mio. Mi si dirà: i ragazzi avrebbero potuto tenersi il dubbio sul sesso del fotografo, avrebbero potuto rintracciare un’immagine di Diabolik nel corso del pomeriggio. Ok, ma perché? Se un giorno con un Pc mostro ai ragazzi un quadro esposto al Louvre, devo per caso censurarmi pensando che un domani potranno recarsi fisicamente nel museo parigino?

Alcuni commentatori chiamano in causa la scomparsa delle competenze calligrafiche e di mille altre imprescindibili abilità manuali. Ma sono davvero convinti che in una scuola che non demonizza i cellulari siano bandite altre forme di didattica? I ragazzi di questo post, nel corso della stessa mattinata di Diabolik e Eva, hanno redatto e corretto brutte copie, ricopiato in bella copia, impostato, realizzato e colorato infografiche, hanno discusso e verbalizzato il frutto del loro dibattito, hanno intrecciato spaghi, piantato chiodi e restaurato carte geografiche. Cosa si sarebbero persi se avessero googlato al posto mio?

Hanno presente, i paladini della scrittura non digitale, che se gli alunni italiani hanno nel corso degli anni almeno dimezzato la quantità (e di conseguenza la qualità) della loro scrittura è a causa del proliferare delle prove di verifica “a crocette”, nella rincorsa estasiata al mito originario della valutazione oggettiva (o della correzione rapida, secondo altre scuole)? Lo sanno che ci sono più parole e frasi in italiano in due chat del Samsung scassato di un ragazzino di prima media che in tutti i suoi quaderni delle elementari ricolmi di fotocopie appiccicate?

Oggi su “Repubblica” lo scrittore Marco Lodoli chiede sarcastico la fine dell’accanimento terapeutico nei confronti dei libri e scrive: “…lo smartphone riluce trionfante; il libro è un reperto, un coccio etrusco, un capitello scheggiato dai secoli…”. Ma quando mai i ragazzi hanno posto i due oggetti in una prospettiva di aut aut! Preferire il telefono è un conto, essere scemi un altro paio di maniche.

Un tempo da un dibattito così il buon insegnante di lettere avrebbe tratto la traccia di un tema da assegnare alla sua classe. Gli smartphone e il futuro della scuola, la cultura a un bivio, opportunità e rischi. Uno studente del 2017 consegnerebbe in fretta il suo foglio a righe.

“Svolgimento.

Prof, ma lo sa di cosa parla?”.

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le Ong, i migranti e la sinistra che preferisce di no

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Chi lavora per una Ong conosce perfettamente il significato del termine “persecuzione”. Lo conosce perché ha visto con i propri occhi delle persecuzioni in atto. Gli può essere capitato di operare addirittura nel mezzo, di una persecuzione, non soltanto dopo. Per questo ne conosce i colori, i rumori, gli odori.

Chi lavora per una Ong impegnata a salvare vite nel Mediterraneo sa benissimo che la questione sul tappeto in queste settimane – il codice Minniti, le indagini della procura di Taranto, le procedure di intervento in mare vecchie e nuove – non ha niente a che vedere con una persecuzione. Potrà chiamarla rogna, intoppo, ostacolo, pastoia burocratica, strumentalizzazione a fini politici, la chiamerà come ritiene, ma non utilizzerà mai il termine persecuzione.

Da ieri in Italia, un nutrito gruppo di intellettuali ha lanciato un appello che quella parola la usa eccome. Dice proprio così: “il Governo italiano perseguita le Ong”.

Altre espressioni di quel breve testo mi hanno colpito.

“È in corso un nuovo sterminio di massa“. Sterminio di massa, do you know?

“…il governo italiano si accanisce contro chi approda…”. Accanisce, come fa un cane rabbioso.

“Il nostro governo non è indifferente a questa carneficina, ma complice“. Carneficina, chiaro?

Alla fine, l’appello stigmatizza l’uso di parole enfatiche come “assedio” riferite all’approdo di migranti sul suolo italiano. Giustissimo, fa soltanto un po’ ridere se a scriverlo sono quelli di perseguita sterminio di massa carneficina, ecc.

Hanno letto e firmato invitando gli italiani a fare altrettanto. Sono una sessantina. Scrittori di cui ho letto i romanzi, uomini politici che ho seguito con interesse, uomini di chiesa, giornalisti. Li conosco praticamente tutti. Non essere quasi mai d’accordo con quello che affermano mi mette spesso in crisi, ultimamente, perché loro sono quelli che custodiscono il brand Sinistra® in Italia.

Ma io non voglio usare le parole a caso.

Io non chiamo olocausto tutto ciò che di brutto accade sul pianeta.

Io non voglio diventare uno che punta il dito, individua in quattroequattrotto i colpevoli (i carnefici…) dentro questioni complessissime di portata epocale.

Io non voglio affidarmi a una classe di intellettuali che firma svogliatamente, sulla fiducia, l’ennesimo appello senza prima manco correggerne i refusi.

Come al solito, l’appello indignato è anche rigorosamente un appello antifascista (il gruppo ha i diritti anche sul marchio Antifascismo®, si sa). Lo fa indirettamente, citando i 12 professori che non presero la tessera del Duce. Modestamente, ci fanno sapere, noi che abbiam firmato siamo come quelli lì.

Con la piccola differenza che i 12 all’epoca misero in gioco le loro cattedre e si abbonarono ad un futuro di persecuzioni vere, verissime. E questi? (Facile dire che Di Maio non è Pertini e dio solo sa quanto non sia Pertini, ma questi?).

Questi hanno “preferito di no” su whattsapp un venerdì d’agosto, e di coraggio non troveranno nemmeno quello di unirsi per evitare le soglie di sbarramento che verranno. E di migrazioni non si occuperanno mai se non così.

(Come è ovvio, questo post non sottovaluta e non dimentica i drammi dei migranti, le condizioni di chi si imbarcherà nonostante tutto e di chi invece sarà costretto a rimanere nella Libia di oggi. Questo post parla della mia parte politica che per non cambiare il proprio abito mentale, nel contempo vecchio e adolescenziale, ha rinunciato non solo a cambiare il mondo, ma anche a lenirne blandamente le ferite.)

 

 

 

 

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Soletta, Stream of consciousness

Soltanto una scena

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La scena di un film, soltanto la scena di un film che probabilmente vi siete persi.

Prima i personaggi.

La mamma. Una donna sui 35/40 anni, malata terminale, ricoverata in un hospice, costretta a letto. Non dirà una parola, non sarà necessario. Apparirà per pochi secondi.

La bambina. Si tratta di sua figlia, massimo 10 anni, due occhi vivaci, magra come un chiodo, capelli lisci e scuri.

Il padre. Sulla cinquantina, non è il genitore della bambina e quindi nemmeno il compagno della donna malata. È il padre di un ragazzo di 25 anni da poco deceduto nella stessa struttura ospedaliera. Conosce la mamma e la bambina per aver frequentato gli stessi asettici corridoi e le stesse stanze.

Il giovane uomo. Vedendolo – la barba incolta, i capelli lunghi e spettinati, i pantaloni corti, gli auricolari perennemente penzolanti – l’avreste chiamato “il ragazzo”, ma viaggia verso i 30. Vicino di casa e amico d’infanzia della giovane vittima del cancro, di cui si è detto sopra, quella da poco deceduta. Amico d’infanzia non significa inseparabile, i due si erano persi di vista. Il giovane uomo non è quindi disperato, soffre il giusto e prova piuttosto pena per il dolore dell’altro personaggio, il padre.

La scena facciamola cominciare da qui. Il padre è distrutto: non va, vaga. Deambula per la casa e per la strada. Decide di recarsi in ospedale per reclamare una coperta colorata, coloratissima, dimenticata dopo la morte del figlio. Si fa accompagnare dal giovane uomo. Mentre parla – e un pochino litiga – con un infermiere che non si applica nella ricerca di quell’oggetto, il giovane uomo incontra la bambina. Meglio: la bambina raggiunge il giovane uomo incuriosita dalla stranezza dei suoi gesti, mentre seduto aspetta il ritorno del padre.

Si sta allenando, il giovane uomo. Ascolta musica con le cuffiette e pratica l’air guitar. Il passatempo più stupido dell’universo. Suona una chitarra che non c’è. Si contorce, il corpo e il viso. Il trionfo della cazzonaggine, l’apoteosi del suo essere un bamboccione spiantato.

Ma la bambina è curiosa e si avvicina. “Cosa stai facendo? E cos’è quella?” – indicando la chitarra che non c’è.

Stacco.

Torniamo sul padre. Chinato sul bancone della reception continua a reclamare la coperta.

Mentre discute con un infermiere ciccione succede qualcosa a cui all’inizio non fai nemmeno caso.

Arrivano correndo la bambina e il giovane uomo. Evidentemente vanno d’accordo, si stanno simpatici. Corrono e sono sorridenti. In mano hanno delle lenzuola bianche. No, non sono lenzuola, sono camici. In un attimo li indossano. Un terzo lo passano al padre, che stranito si dimentica della coperta.

Stacco. La scena si fa interessante.

Siamo ora in una corsia d’ospedale. Uguale a tutte le corsie d’ospedale: corridoio e stanze.

Fuori attendono i due maschi. La bambina esce da una stanza e li rassicura: si può fare. Ha ottenuto il consenso. Ok anche per il mare, dopo.

Entrano.

Tocca alla colonna sonora.

Una canzone bellissima.

Dolce il giusto, ma anche moderna.

Indossano tutti e tre il camice.

Si dispongono attorno al letto.

Inizia la magia.

Air surgery. A questo punto credo si possa chiamare così.

Le mani della bambina, del padre e del giovane uomo indossano guanti invisibili. Panni che non si vedono tamponano sulle fronti un sudore che non c’è.

Le dita danzano, leggere. Affondano il bisturi, immergono le mani, cuciono intrecciando fili. Sorridono, ma sono concentratissimi.

La madre – su quel letto c’è la madre – è perfettamente immobile. Gli occhi sono aperti e guardano la bambina. Sul suo corpo, una coperta colorata (!).

Le mani riemergono, hanno trovato ciò che stavano cercando. Qualcosa di viscido e sgusciante: il padre lo passa alla bambina e la scena finisce. L’intervento chirurgico è perfettamente riuscito. Anche la scena è riuscita: sì, a commuovermi a morte.

Stacco.

Le mani della bambina si schiudono. Sono immerse nel mare. L’intruso è liberato come un pesce guizzante e fortunato.

Fine.

La scena di un film. Israeliano, del 2016. Una settimana e un giorno. Dentro c’è anche molto altro, e merita davvero.

Ma questa poesia non potevo non raccontarvela.

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Soletta, Stream of consciousness

La consegna espressa del bambino virgola

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Proprio accanto al cancello della scuola su cui un’infermiera dipinta somministrava a un bambino dipinto una vaccinazione antipolio dipinta, un circolo di donne assonnate, lavoratrici itineranti del cantiere stradale poco lontano, attorniava un bimbetto accovacciato come una virgola sull’orlo di un tombino aperto. le donne stavano in piedi appoggiate a badili e picconi in attesa che il divo si esibisse. La virgola teneva gli occhi fissi su una delle donne. La madre. Gli venne l’ispirazione. Produsse una piccola pozza. Una foglia gialla. La madre posò il piccone e gli lavò il sederino con l’acqua fangosa di una vecchia bottiglia di Bisleri. Con il liquido rimasto si sciacquò le mani e inondò la foglia per mandarla a finire nel tombino. Nulla in città apparteneva a quelle donne. Non un minuscolo lotto di terreno, non una baracca in uno slum, non un tetto di lamiera sopra la testa. Nemmeno il sistema fognario. Ma adesso avevano lasciato un poco ortodosso deposito diretto, una consegna espressa spedita nel sistema. Forse quello era il primo passo per appropriarsi della metropoli. La madre prese in braccio la virgola, si mise in spalla il piccone, e il piccolo contingente si  allontanò.

Arundhati Roy, Il Ministero della Suprema Felicità

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Le rose che non colsi, stavo svolgendo una prova Invalsi (il solito post polemico)

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Non possiedo un e-reader. Non ho mai letto un libro digitale. Accumulo soltanto testi cartacei ed ho due passioni: leggerli e lasciarli impolverare. Ciononostante, oggi la Prova Nazionale Invalsi mi ha fatto arrabbiare più del solito.

Come se non bastasse il consueto nozionismo grammatical-linguistico spacciato per test di logica, la prova odierna era pessima anche per un’altra ragione, questa volta tutta ideologica.

Tra tutte le tematiche in cui pescare un testo argomentativo da leggere e comprendere, il Miur ha scelto un brano che mette a confronto un testo cartaceo con un testo digitale. Promuovendo a pieni voti il primo e bocciando inesorabilmente il secondo.

Perché non scegliere un brano sugli accordi di Parigi sul clima?

Perché non optare per un articolo sulla mobilità alternativa nelle metropoli avanzate?

Ecco, perché?

Molte delle ragioni illustrate nel testo dall’autore sono le stesse che fanno di me un convinto mancato possessore di e-reader. Tuttavia, 3/4 delle letture effettuate nel corso della loro vita dai ragazzi che avevo davanti stamattina sono avvenute su uno schermo. A occhio e croce accadrà lo stesso per la quasi totalità di quello che leggeranno in futuro.

E allora: perché non metterli alla prova con un bel pezzo sugli ogm?

Perché non testare le loro competenze con un breve saggio sull’inquinamento degli oceani?

Perché no. Perché c’è una scuola dentro la scuola. Una scuola che vive fuori dalla realtà e che la realtà non accetta.

La scuola dei 600 prof. universitari che firmano appelli e chiedono gran voce il ritorno dei dettati.

Nel frattempo i ragazzi italiani leggono romanzi sullo smartphone e scrivono agli autori per influenzare gli sviluppi della trama.

E quelli del Miur oggi avrebbero potuto scegliere 60 righe sul massiccio ritorno degli orsi sulle Alpi. Avrebbero potuto incuriosire i quattordicenni con un bel testo sulle auto senza pilota progettate in California.

E invece no. Han preferito comunicare ai loro utenti, noti surfisti del web, che se sono a pagina 220 di un libro giallo tradizionale di 440 pagine possono con il tatto percepire la distanza che li separa dal nome dell’assassino. La scritta “220 di 440” su un Kindle non sembra al momento altrettanto esplicita.

Un testo sui pannelli solari: perché no?

Un reportage sui bonobo del Congo?

Il treno a levitazione magnetica di Shanghai?

Le virtù dello zenzero?

[…]

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Ariana Grande, Manchester e una giornata a scuola

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Ti ho pensata, dico stamani all’alunna che mi ha introdotto un anno fa, per tramite del suo quaderno, alla figura di Ariana Grande, star planetaria.

Ti ho pensata stanotte, appena ho saputo della strage al concerto. Non ho nominato la cantante, però. Ho detto “il tuo idolo”, e tanto è bastato per generare un equivoco. Si sa che i miti cambiano in fretta, a quell’età, durano un soffio di vento, o la vita di uno smartphone gonfio di mp3. Di quelli passati resta un nebuloso ricordo, come accade a noi adulti con la penultima delle città sfregiate dal terrore. Parigi? Bruxelles? O era Berlino?

Non ho avuto voglia di fare il solito viaggio nell’attualità, scompaginando il diario di bordo di questa mattinata di scuola. Quegli stessi occhietti mezzi addormentati sono già stati Charlie, hanno già visto il Bataclan, hanno riflettuto a settembre sui camion assassini dell’estate. Non ce l’ho fatta, oggi. Troppo poche le ore trascorse dall’attentato, troppo simili a loro le vittime. Troppa morte, davvero, troppa. Come fosse facile smaltire il peso anche soltanto di un angelo motociclista falciato in bicicletta. Come fosse facile.

Oggi poi c’erano le prove per lo spettacolo teatrale di fine anno, la cosa più lontana da un lutto che mi venga in mente. Anche quando in palestra si gioca a chi muore meglio, freddati da due dita di pistola. Quindi è finita che abbiamo riso più del solito, il giorno dopo Manchester, abbiamo scritto battute, abbiamo fatto andare avanti lo show che deve andare avanti.

Perché noi siamo quelli che devono farlo andare avanti.

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