Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Quando eravamo giovinetti

DSC_0323

Prima di tuffarci nei meandri del fiume della Storia, spesso a inizio anno a Scuolamagia ci dedichiamo alla storia minuscola delle pareti e dei pavimenti che ci ospitano. Come piccoli Champollion decifriamo incisioni sul legno di certe finestre, datiamo antichissimi “W Inter”, ci chiediamo il perché di misteriose scritte avvitate alle porte: “App. tecniche maschili”, saranno mica parenti delle app sul display dei nostri cell.? Complici vicende davvero notevoli legate alla nascita dell’edificio oggetto di studio, l’attività capita che appassioni un bel po’, specie nelle sue fasi dinamiche di “caccia all’indizio” storico, su e giù per le scale, chi qua e chi là e che vinca il migliore.

Le ricerche odierne hanno portato al rinvenimento di alcuni interessanti documenti cartacei. Un foglietto volante arancione, perso dentro un vecchio registro, non era altro che il decreto di un’espulsione. Il 29 gennaio 1969 la Prof. Taldeitali presenta a carico del giovinetto (avete letto bene: GIOVINETTO) Tizio Caio il seguente rapporto disciplinare: scarsa applicazione (ancora queste app… n.d.r.) e contegno scorretto. Va da sé: c’era stato il ’68 anche nelle scuolette di montagna. Quella specie di multa, in copia, doveva essere esposta all’albo ed inserita nella cartella personale dell’alunno, che avrebbe avuto la fedina penale sporca alla faccia del garante della privacy.

Altro documento ingiallito, sfogliato in una nuvola di polvere: una raccolta di temi risalenti all’anno scolastico ‘73-’74. Tracce brevi, piuttosto sul vago. Una mi colpisce. Parla di cosa trovi profondamente ingiusto. Da quella e da altre tracce sparse tra i fogli di protocollo deduco un profilo di insegnante sinistrorso, illuminato e forte dei suoi valori. Di altra estrazione l’autore del tema, a occhio. Il suo pensiero, esposto con elementare efficacia, in soldoni: chi ammazza una persona dev’essere condannato all’ergastolo; chi ne ammazza due merita la pena di morte. In proporzione diretta al numero delle vittime, la pena capitale vedrà incrementare l’atrocità della sua esecuzione. Immagino l’inchiostro rosso del collega bollire nella plastica della Bic. Proseguendo, altra grave ingiustizia: la fame nel mondo. E come dare torto al giovinetto? Che continua: mi chiedo perché si siano spesi tutti quei soldi per il referendum; uno solo di quei miliardi sarebbe bastato per aiutare tutti gli uomini affamati ed assetati del pianeta. Spietato, come si evince dall’immagine, il commento dell’insegnante.

Una chiosa in rosso appare anche a margine della chiusa. “I politici inoltre sanno soltanto parlare, ma non agire”. Il Prof., in corsivo nervoso: “da approfondire…”.

Si può star sicuri che hanno approfondito, i politici.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

I diari della bicicletta

«Prof., guarda lassù, quello è il Monte…»

«No, Marcello, oggi non sono il Prof., oggi sono il Capitano…».

Proprio così, un capitano che non sa la strada, che ignora i dislivelli, le pendenze, la quantità dei tornanti. Non conosce i nomi delle montagne e fatica a distinguere dall’alto i paesi che frequenta abitualmente. Però oggi gira così, in questo giro assurdo di tarda estate, nato per gioco, quasi per caso, da un dialogo via Skype.

Alle nove in punto il mio gregario mi aspetta già in sella ai piedi del Gigante. Dico gregario con grande rispetto, pari almeno all’ironia con cui mi sono definito capitano. Marcello non è uno sportivo in senso stretto, non indossa divise e non porta con sé tessere federali. Corre se c’è da correre, pedala se c’è da pedalare. Calcia per gioco, scia per divertimento. Deve muoversi, glielo impone l’istinto, e lo sa bene chi come me tra pochi giorni tornerà a fargli da carceriere tra le mura di un’aula.

La salita scivola nel bosco morbida e costante. La strada è stretta, il fondo liscio e curato. Il capitano procede composto, sa che va dosata ogni goccia di energia. Il rapporto è agile, la postura di sfinge dipinge traiettorie regolari nemiche di ogni zig zag. Non si alza mai sui pedali e sopporta stoicamente i malesseri del soprassella. Il gregario sale invece brillante e inquieto, tra una mezza impennata e un improvviso cambio di direzione per schivare un grillo. Ha quattordici anni, lo scudiero, e nonostante il parere contrario espresso dal suo superiore, decide di rompere il silenzio dell’ascesa con gli mp3 stivati nel suo cellulare. Mi sembra di bestemmiare quel paesaggio, penso allo sguardo di altri ciclisti puristi incrociati nell’ascesa, ma in fondo anche quelle canzoni han sostenuto questa piccola impresa. Laura Pausini, Ligabue, Il cielo d’Irlanda della Mannoia, i Beatles e una versione a me sconosciuta – e ne conosco tante – dell’Alleluja di Leonard Cohen.

Usciti dal bosco e dalle sue carezze d’ombra, la strada ci ha svelato il suo disegno. Un arabesco di tornanti tatuato sulla schiena verde della montagna. Una roba da sindrome di Stendhal, se non ci fosse il serio rischio di finire stesi dalla fatica. Quindi: testa bassa e pedalare.

Finisce l’asfalto, comincia lo sterrato. All’ansia di non farcela si somma quella di bucare. A scacciare i pensieri neri ci pensa Marcello, insegnandomi nomi di montagne e di versanti, indicandomi falchi e marmotte, lepri e uno stambecco maestoso che ci scruta da un metro sotto il cielo.  «Prof., guarda lassù…». Questa volta, però, a parlare sono io.

La meta di quest’avventura in bicicletta risponde al nome di “Panoramica delle Vette”. Lo sguardo, infatti, riesce ad abbracciare distanze colossali, orizzonti senza limiti. Scendo i sentieri della memoria, fino all’ultima volta davanti ad un’emozione così: in Cina, nel 2006, giocando a rincorrere con gli occhi la Grande Muraglia fin dove andava a perdersi, dentro nebbiose lontananze.

La discesa è insieme una faticaccia e una paura. Solo per me, però: il mio compagno di viaggio, annoiato dalla lentezza che gli ho imposto, battezza traiettorie insensate e appoggia il collo del piede sulla sella, la pianta sul manubrio. Gioca. Lo sgrido, vabbè, ma andiamo davvero piano. Mangiamo fragole di bosco e beviamo altri panorami. Planare sul primo luogo abitato dagli umani, ultima frazione sulla soglia della montagna, è un sapore variegato di gioia e tristezza. Ce l’abbiamo fatta, ma com’è insipido questo asfalto di “pianura”, e come sono già lontane quelle immagini così pure, che a filtrarle con Instagram ti sembra di sottoporre ad un bombardamento nucleare.

Standard
Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Mucche alla riscossa

C’è un qualunquismo ingenuo e quotidiano da cui nessuno può dichiararsi immune. Alzi la mano chi non abbia almeno una volta nella vita voluto cancellare una Comunità Montana, preferibilmente una di quelle a 39 metri d’altitudine sul livello del – e a due passi dal – mare.

Finisce poi che si perda il senso delle parole, però. Perché “comunità” è un termine stupendo, e “montana” è un aggettivo prezioso.

Sarebbe piaciuta un sacco ad Alex Langer, la storia raccontata oggi su “Repubblica” da Carlo Petrini.

Protagoniste sono 3 comunità montane, due in Italia e una in Bosnia. Le due italiane offrono in regalo rispettivamente un uomo di gran cuore e 48 vacche. Quella bosniaca riceve commossa gli animali e l’uomo, Gianni Rigoni Stern, figlio di Mario. Accogliendo quest’ultimo come un indispensabile “libretto delle istruzioni”. Perché a Sucéska, comunità montana della Bosnia Erzegovina, dal 1995 gli uomini che accudivano il bestiame e guidavano l’agricoltura non ci sono più, spazzati via dal più grande crimine commesso in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Gli anziani, le donne e i bambini che sono rimasti a vivere in quella terra di per sé difficile avevano bisogno di ricominciare, di ripartire. E da soli facevano fatica.

L’idea di aiutarli, e di farlo anche così, è venuta ad un’attrice di teatro, Roberta Biagiarelli, che da tutta questa storia ha tratto anche un film. Che io voglio assolutamente vedere e adesso metto a soqquadro Google finchè non scopro come procurarmelo.

Standard