Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Migliorare il 25 Aprile

Lib

Mi sono chiesto se si può fare meglio del 25 Aprile.
Mi sono chiesto se si può fare di meglio, il 25 Aprile.
Mi sono chiesto se di può lavorare ad un 25 Aprile migliore.

Ovviamente scrivo per chi, come me, è fortunatamente libero da impacci biografici. Non ho parenti tra le vittime innocenti di quella guerra, non ho memorie incandescenti da proteggere. Sento sulle spalle la memoria del mio Paese, ma anche il destino che va costruito per lui.

Premessa ulteriore: chi oggi si definisce ancora fascista è materia di ordine pubblico. Dovrebbe stare in un fascicolo sulla scrivania del Ministro dell’Interno, se non stesse già nella rubrica del telefono del Ministro dell’Interno. Per capirci, per costruire un 25 Aprile migliore non mi rivolgerei ad un Irriducibile della Lazio, anche se non posso dimenticarmi che esista o ridurlo ad un dettaglio di tutta questa faccenda (è appunto irriducibile, lo dice anche il nome).
La smettessimo per esempio di esaltare, con più o meno ironia, la pratica degli appendimenti a testa in giù. Si fa coi tiranni, ricorda qualcuno. Ok, di salamicidi è piena la storia, ma allora che ce ne facciamo dello stato di diritto? Con tutta la fatica che c’è costato dotarcene. Noi siamo – dovremmo essere – i BUONI. Sei un dittatore e hai mandato a morire gli innocenti? E noi ti diamo un avvocato d’ufficio, per marcare ancora di più la differenza che ci distingue da te. Se proprio dev’essere un derby, come dice quello, noi la squadra la schieriamo in tutt’altra maniera. Tu fai il catenaccio e incateni, noi facciamo il calcio totale di Cruijff, e LIBERI tutti.
La smettessimo di dire che in quella memorabile stagione e in quell’aprile “gli abbiamo fatto il culo”, a quelli. L’ho letto in duecento tweet e post, oggi. È scritto ancora su tanti cartelli, nelle piazze. Primo: LORO gli hanno fatto il culo. NOI siamo quelli venuti dopo. LORO stavano dentro una guerra. NOI “i nemici” dobbiamo portarli dentro una scuola, semmai. O dentro una pagina di un libro di storia. I nostri nemici sono quelli con cui dovremmo costruire il domani del pa… ma che paese e paese, almeno dell’Europa. Esistono casi emblematici di riconciliazioni nazionali post guerre civili che hanno dato risultati sorprendenti in pochissimo tempo. Non è un po’ poco che nel 2019 noi si rstia inchiodati alla rivendicazione di un culo fatto (da altri) nel 1945?
A Sant’Anna di Stazzema il sopravvissuto Enrico Pieri raccontò a me e ai miei alunni dell’incaponimento con cui fece studiare le lingue ai suoi figli, e di come scelse di indirizzarli, per ragioni di studio e lavoro, proprio verso la Germania degli sterminatori della sua famiglia. Andare avanti, aggiustando le cose storte. Questo fanno i Buoni.
La cosa che mi impressiona è lo stallo: da una parte duri e puri, dall’altra duri e neri. Ogni santissimo 25 Aprile. Ma qualcuno è davvero convinto che alla lunga una delle due fazioni avrà la meglio sull’altra? Pensiamo di convincerli delle nostre ragioni per sfinimento? Qualcuno riesce ad individuare anche una minuscola ragione che induca a sperare in un miglioramento di questo meccanismo bloccato? E in virtù di cosa?
Non sarà che, come in tutte le faccende identitarie, l’esistenza di un nemico in fondo ci conforta e ci conferma nel nostro impianto valoriale, buono o cattivo che sia? Perché diciamolo: chi scenderebbe in piazza un giorno di fine d’aprile, magari colla pioggia, se non percepisse un pericoloso autoritarismo strisciante, se non sentisse tanfo di fascio? (E viceversa.)
Lungi da me “mettere sullo stesso piano”, dare dignità a posizioni che non ne hanno.

C’era e c’è una parte giusta.

C’era e c’è una parte sbagliata.

(Lo sapeva anche il cuoco di Salò, che oggi forse giudicherebbe impiattamenti a Masterchef.)

C’erano e ci sono ancora. Ma il quadro è quello, il 25 Aprile 2019. Aspettiamo che un segnale di una qualche natura (distensione, riconciliazione, pace…) arrivi da un “Irriducibile”?
Oppure ci ricordiamo, in questa storia sgocciolata fuori dalla Storia, che noi siamo i BUONI?

 

“Ogni rimando a valori atemporali o metastorici altro non sarebbe che una fuga dal mondo, se non fosse accompagnato da una coraggiosa messa in relazione della propria esistenza con la storicità della stessa”. (Alex Langer)

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Ponte Morandi e le cose più grandi di noi

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Una cosa che non dice nessuno. Magari a ragione, ché sicuramente sbaglio io. Però, in mezzo a tutto questo pressapochismo dei tanti ingegneri autonominati, davanti ai distributori di colpe e di ammende (150.000.ooo di multa, abbiamo già la cifra tonda, come si trattasse di un divieto di sosta e non di una vicenda che andrà a sentenza tra 18 anni e 7 governi…), davanti a chi sulle macerie di questa tragedia marcia sopra da ore… ecco, pensare che qualcosa di davvero imprevedibile possa essere accaduto. Qualcosa che possa essersi infilato nel muro spesso dei calcoli matematici che facevano reggere la struttura di quell’opera, qualcosa di ovviamente associato a qualcos’altro che a sua volta era legato ad altro ancora, perché come diceva Gadda i fatti hanno cause e concause concatenate assieme e sono uno gnommero, diceva lui, un garbuglio inestricabile, insomma un gomitolo disordinato in cui i capi del filo va a finire che si smarriscono. Mettiamo pure che ci siano stati errori umani, a vari livelli, e superficialità – tante – ma che siano stati “piccoli”, trascurabili davanti alla forza di quell’imponderabile. Sono consapevole che quando costruisci un viadotto pieno di Tir sopra un condominio pieno di bambini l’imponderabile dovresti averlo domato, ma so anche che a volte noi umani ci siamo illusi delle nostre possibilità, e infinito è l’elenco dei nostri passi più lunghi della gamba.

Non fatalità, quindi, ma fallacità: l’immenso inganno del nostro essere uomini. Perché no?

(Poi ho sicuramente torto, ma se l’alternativa è Benetton che nuota nella piscina riempita di euro e ridacchia mentre sbatte giù il telefono ai tecnici che gli riferiscono gli scricchiolii sinistri del ponte, ecco…) 

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Ma di chi sarà complice chi da oggi tacerà? Solo di Salvini?

RS

C’è qualcosa che non torna. E giuro che non mi piace per niente rompere le scatole alla parte giusta, mentre i conti son da fare con la parte sbagliata. Però più guardo quelle righe colorate e quella scritta e più sono a disagio. Chiamare “Salvini” tutto quello che è successo. Sintetizzare dicendo “Salvini”. Da ora in poi sia scritto nero su bianco (vabbè: colorato su colorato): noi non stiamo con Salvini. Cioè: non state con Salvini dal luglio del 2018? Mi chiedo: Serra, Muccino e Tommaso Paradiso prima stavano con Salvini?

Ovvio che no, e allora perché affermare (e sottoscrivere?) una cosa che rischia di suonare come una colossale banalità?

Ho il sospetto che quella copertina voglia cominciare finalmente a remare contro una piega brutta che han preso le cose negli ultimi anni, che voglia opporsi ad una palla di neve che ha preso la ruzzola ed è diventata la valanga bella grossa che ci sta travolgendo. Un qualcosa di complicato che ha a che fare con la “pacchia” dei migranti, certo, ma ha a che fare altrettanto con i “taxi del mare” e con le questioni vaccinali (già ben affrontate proprio da “RS”), con i commenti contro Laura Boldrini e con tutti i rigurgiti qualunquisti che conosciamo bene perché ci arrivano ormai alla gola. Un qualcosa che con tutta la cattiva volontà e con tutta la fretta semplificatrice di questo mondo non possiamo chiamare – chiamare soltanto – “Salvini”.

Salvini c’era già e su Salvini non ha mai taciuto nessuno.

P.S.: nel frattempo molti dei nomi citati dall’iniziativa di “Rolling Stone Italia” si sono dissociati o hanno postato i loro distinguo. Confermandomi nell’idea che la faccenda è un filino più complessa. E che non lo sappiamo ancora dire, contro cosa stiamo, noi. Ecco, appunto: noi chi?

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#ANTIFA, ma basterà?

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Cosa vuol dire essere antifascisti? Vuol dire essere i buoni: è chiaro, non ci piove. Ma per essere i buoni è davvero sufficiente non comportarsi come fanno i cattivi? Ecco, questo è il punto.

Io nell’antifascismo, così come è andato configurandosi, vedo questo limite.

Il nervo è scoperto, benissimo. Gli allarmi suonano subito e suonano forte. Un fascista che spara su una folla di migranti ci fa saltare sulla sedia, ma provocherebbe la stessa reazione in noi anche la semplice foto della sua cameretta con scritti hitleriani in bella mostra, o la sua tempia decorata a svastiche. “Il Lupo” ci fa paura e ci indigna. Perfetto, ma se diciamo che tutto questo ci offende e ci fa schifo siamo stati sufficientemente antifascisti?

Secondo me, no. Per essere i buoni, bisogna fare le cose buone. Le cose buone scacciano le cose cattive, e i cattivi con loro. Oggi a Macerata – e il 24, a Roma – si canterà Bella ciao e molte persone grideranno che i fascisti fanno schifo, perché è vero e perché è giusto. Probabilmente non basterà. Il contrario della mancata strage marchigiana è una piazza aperta agli stranieri che vivono in Italia, ai loro canti e ai loro balli. Aperta ai loro nomi, perché siamo antifascisti e antirazzisti ma se ci chiedono di dire 5 nomi propri di africani dopo Abdul e Mohammed siamo già fermi al palo, mentre in Italia ormai i Mamadou sono più dei Giuseppe. Il partito che vuole davvero combattere Forza Nuova e Casa Pound apre le sue sedi ai migranti, li accoglie nelle sue fila anche se non può raccoglierne i voti o candidarli in un collegio, o affidare loro un assessorato.

Ci sono gruppi di intellettuali, penso ai Wu Ming, che fanno un lavoro meritorio di caccia al fascista contemporaneo: scovano minuscoli assessori che hanno fornito sporchi patrocini a iniziative nostalgiche, stanano candidati che hanno banchettato in passato coi gerarchi delle nuove formazioni nere. Con la pars destruens ci siamo, grazie di cuore, ma poi?

Periodicamente scattano infinite polemiche attorno all’antifascismo altrui. Leggendo queste righe sicuramente qualcuno potrebbe già mettere in discussione il mio livello di distanza dalla sporca idea. L’immagine di Gobetti in testa al blog parrebbe dare garanzie piuttosto solide, ma poi, se uno critica le manifestazioni di piazza contro i fasci…

L’antifascismo antagonista andrebbe accompagnato con qualcosa di nuovo proprio per una semplicissima ragione: fino ad ora non ha funzionato. Cosa succede alle teste rasate come “il Lupo” di Macerata mentre la città sta scandendo le classiche parole della tradizione antifascista? Succede che le stiamo caricando come fossero macchine elettriche. Le stiamo motivando, stiamo dando loro le ragioni per organizzare una rivincita (pure più eccitante perché – per ora, fortunatamente – clandestina).

Mai che qualcuno proponga di sparigliare. Siamo a tutti gli effetti davanti agli strascichi di una guerra civile e nel mondo non mancano gli esempi di soluzioni alternative, nel tentativo di ricucire le ferite di una nazione, anche quando la sproporzione tra le responsabilità dei contendenti è abissale. Non si tratta di trovare delle ragioni nel Fascismo per farci un compromesso. Si tratta di provare ad andare da qualche parte più o meno tutti insieme.

Sarebbe bello che quando “il Lupo” ci viene a cercare non ci trovasse in casa. Ripassa più tardi, sono usciti. Sono scesi nelle strade del mondo, dovevano compiere il loro dovere di buoni. Ci rimarrebbe male, e mai colpo più forte al Fascismo sarebbe stato assestato.

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Contro l’appello che vuol sconfiggere la buona scuola con la scuola morta


flea_PNG24Fare le pulci agli appelli accorati di intellettuali ha un suo fascino. Può essere pure divertente: quello che scrivi non deve avere una spina dorsale (usi la stessa creata degli estensori), non sei obbligato a seguire un filo. Mentre scrivi ti senti come un batterio, un virus, un corpo estraneo che si prefigge di mandare in crisi un sistema, inceppare un ingranaggio.

Questa volta, tuttavia, il divertimento è ostacolato dalla consapevolezza di voler infettare un organismo già gravemente malato di suo. La diagnosi mi pare impietosa: siamo un paese conservatore fino al midollo e non ce ne vergogniamo nemmeno un po’.

Io sono quello rosso, ça va sans dire.

Si parte.

Dalla Costituzione della Repubblica italiana:

Art. 3: ” [..]E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”

Art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento…”

Art. 34: “La scuola è aperta a tutti.  L’istruzione inferiore…”

Bene, il solito trucchetto. Ci eravamo dimenticati la Costituzione. Chi ha provato a confrontarsi con il nuovo, negli ultimi anni, dal legislatore fino all’ultima delle maestre dell’Emilia Romagna, lo ha fatto dimenticandosi della Carta, sputando su Calamandrei. E una moratoria sull’eccesso di strumentalizzazione forzata della Costituzione, no?

La premessa

L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista.

Mi sembra un ottimo modo per svelenire il clima e aprire un confronto con chi ha promosso i cambiamenti criticati dall’appello. Avete distrutto la scuola, parliamone. Siete il male, noi siamo il bene, quanto zucchero nel tè?

La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale.

È quanto mai necessario “rimettere al centro” (virgolette?) del dibattito la questione della scuola.

Come? In tre modi almeno:

  1. a) parlandone e molto, in un’informazione consapevole che spieghi in modo critico i processi in corso;
  2. b) ricostituendo un fronte comune di Insegnanti, Dirigenti Scolastici, Studenti, Genitori e Società civile tutta; e, soprattutto, (contro chi dovrebbe schierarsi, poi, questo fronte? Altri Insegnanti? Genitori cattivi? La Società incivile? Renzi?)
  3. c) riprendendo una lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa. (lotta e resistenza, trasformazione reale e creativa: ok, a che ora scatta l’okkupazione? Scherzi a parte, segnatevi la creatività. Da qui in poi non troverete uno straccio di proposta, qualcosa non dico di nuovo, almeno di concreto…)

Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce? Ora, gli estensori dell’appello vengono tutti dalle scuole Superiori. Tra loro non c’è una prof. delle Medie o un maestro d’asilo. Ovvio che ce l’abbiano a morte con l’alternanza scuola-lavoro e con la sua difficile applicazione. Comprensibile. Ma ha senso trasferire questa frustrazione da prof. di liceo all’intero corpaccione della scuola italiana? Davvero, ammesso che sia possibile percepirle nei licei, si sono innestate nelle scuole primarie italiane derive economiciste? Una maestra che porta la robotica in classe si rende complice di questa deriva? Lo pensate davvero? Anche guardandola negli occhi?

7 temi per un’idea di Scuola

da leggere come studente, genitore, insegnante, cittadino

  1. Conoscenze vs competenze
  2. Innovazione didattica e tecnologie digitali
  3. Lezione vs attività laboratoriale
  4. Scuola e lavoro
  5. Metrica dell’educazione e della ricerca
  6. Valutazione del singolo, valutazione di sistema
  7. Inclusione e dispersione

Il documento

  1. Conoscenze vs competenze

Una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Matematica, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro. Una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedono riferimenti che affondano le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia delle discipline.

Da qui sembra di capire che nella “nuova scuola” Letteratura, Arte, Matematica, Geografia, ecc. non esistano più. Che dalla scuola italiana stiano sparendo le opere. La Gioconda? Via. La Divina Commedia? Via. Le nostre radici sono sotto attacco. I barbari non avranno pietà.

Chiunque abbia un figlio a scuola potrebbe testimoniare come al massimo sia cambiato (era ora!) qualche approccio metodologico. Un figlio che guarda un video sui vulcani prima di studiare le pagine che il libro di scienze dedica ai vulcani. Per quelli dell’appello, invece: ci stanno scippando i vulcani.

 Crediamo che:

  1. i)Aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano, anche con l’appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”. Interessante notare come le tanto vituperate (dall’appello) competenze adottate negli ultimi decenni dalla scuola italiana siano nientemeno che riferimenti comuni a tutti i paesi Ue. Sono il prodotto dell’Europa migliore a cui spesso diciamo di voler assomigliare di più, ma che quando fa sul serio e innova davvero ci fa scappare a gambe levate. I grillini che vogliono uscire dall’euro (subito, forse, chissà, vedremo cosa dice il web…) sono la punta di un iceberg, ma il paese è bloccato da un ghiaccio più profondo e difficilmente scalfibile…) 
  2. ii)La competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi. La cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non è un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”. Insieme di rituali individuali da validare e certificare… vostra sorella. Migliaia di docenti insegnano cittadinanza a scuola nel 2017 lontani da questa macchietta da volantino ciclostilato a Bologna nel ’77. Cittadinanza che in realtà, nella scuola rimpianta dagli estensori, era qualcosa di vago e incompiuto (l’educazione civica, do you remember?), lasciato alla buona volontà dei docenti (che buona era in rarissimi casi). Qui ci si aspetterebbe un guizzo di quella auspicata creatività. Non pervenuto.

iii)  Non abbia senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche.

  1. Innovazione didattica e tecnologie digitali

Innovare non è bene di per sé, tantomeno in campo educativo. La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa. Innovazioni e tecnologie, nelle varie accezioni global-ministeriali GLOBAL-MINISTERIALI???? Ma come parlate? Come Manu Chao? (debate, CLIL, flipped classroom, etc), rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno. Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola.

Ok, prof. che fai gare di retorica coinvolgendo i ragazzi, che in classe tua pare d’essere nella Roma di Cicerone (a proposito di radici…), fermo: stai demolendo la scuola.

Ehi, prof.ssa che stacchi alle due di notte per preparare al meglio la tua lezione (CLIL) su Caravaggio in tedesco, non ti muovere: stai demolendo la scuola.

Tu, maestra che corri come una matta tra virtuosi circoli di banchi coordinando attività creative di bambini che poi verranno condivise con l’intera classe (flipped classroom), stop! Hai appena picconato a morte la scuola italiana.

 Crediamo che:

  1. i)Ogni innovazione metodologica o tecnologia digitale sia un possibile strumento di ampliamento e accesso a contenuti e conoscenze. Sul loro impiego l’insegnante è chiamato a riflettere e valutare in maniera incondizionata e libera. Codificare pratiche e metodi, presentati come la priorità della Scuola, è una semplificazione retorica arbitraria, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che ridefinisce finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio a un’ideologia indiscussa. E quale sarebbe questa ideologia indiscussa? Non è forse il caso di essere meno fumosi? C’è aria di complotto, pare d’intendere. E qui l’appello può già essere confuso con un post di Diego Fusaro. A proposito: ha già firmato?
  2. ii)L’inflazione di innovazioni didattiche e gli sperimentalismi digitali offrano spesso narrazioni impazienti ed elementari (slides, video, “prodotti”, progetti), propongano procedure stereotipate e associazioni banali, con grave danno per gli studenti e la loro crescita culturale, interiore e sociale. Vero, la scuola fa un uso eccessivo del termine “progetto”, e pure della sua sostanza. Ma cosa c’entrano i progetti in quella parentesi? E che cosa sono i “progetti”. Scusate, ma sembrate gente che non ne mastica proprio tantissimo, di fantomatiche novità. A occhio dovete ancora riprendervi dalle bizze di PowerPoint… solidarietà. 

iii) Non sia il mero ingresso di uno smartphone in classe a migliorare l’apprendimento o l’insegnamento. In quel caso si potrà, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento. Il miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento passa, però, per altre strade: quelle dell’attuazione del dettame della nostra Costituzione. Ecco i mulini a vento. Una frase della Ministra che prende consistenza di legge. Nessuna imposizione di smartphone in classe. La situazione è questa: molte scuole li hanno vietati, altrove qualche docente sostiene ci si possa far lezione con profitto. No, dall’appello si evince che sia scattato un vincolo per tutte le scuole del Regno. Via la grammatica italiana, dentro WhatsApp. Soluzioni alternative? La solita: attuiamo la Costituzione (!!??!!??). Grande assente nel ragionamento: la logica.

  1. Lezione vs attività laboratoriale

Nell’era di instagram, twitter e dell’ e-learning, la relazione e la comunicazione “viva” allievo/insegnante – nella comunità della classe – rappresentano fortezze da salvaguardare e custodire. La saldatura del legame intergenerazionale, la trasmissione coerente di conoscenze, percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle reazioni di sguardi e comportamenti. Tutto questo è fare lezione, un incontro fra persone in cammino in una comunità inclusiva. Gli appellativi di “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale” sono rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti e cambiamenti di ciascuno, insegnante incluso.

Qui si entra nel vivo. Ricordiamo ai docenti italiani cos’è una lezione. Primo, non c’entra nulla con Twitter. Ok, me lo segno. Davanti ai tuoi studenti fai lezione, non postare stories su Instagram. A lezione, poi, si cammina in una comunità inclusiva. Da Facebook invece puoi cacciare chi vuoi, gli togli l’amicizia. Ma cosa state dicendo??? Ma chi ha mai torto un capello alla “trasmissione coerente di conoscenze, percorsi e temi”? Quale insegnante “innovatore” ha smesso di “problematizzare insieme”, chi ha mai smesso di “prestare attenzione agli sguardi”? Ma come vi permettete? Voi non prestate attenzione alla realtà. Fateci caso, c’è ancora. Lì, dietro i fumi dell’ideologia.

 Crediamo che:

  1. i)L’insegnante, come educatore, sia responsabile e garante di quell’ “incontro” che dà senso e valore ai fatti culturali della propria disciplina. La relazione di pari dignità ma asimmetrica tra maestro e studente, nel microcosmo della collettività di classe, permette agli allievi di imbattersi nel non conosciuto, di praticare l’incontro con la difficoltà del reale e del vivere in comunità, di aprire un orizzonte culturale diverso da quello familiare o sociale. (E quindi? qualcuno ha mai negato queste cose?)
  2. ii)Attenzione concentrata, aumento dei tempi di ascolto, siano condizioni per un “saper fare” come “agire intelligente”, che non si consegue assecondando l’uso delle tecnologie o seducendo gli alunni con dispositivi smart, ma in contesti di applicazione laboriosa, tempo quieto per pensare, discussione nel gruppo. (ma voi che non seducete i ragazzi con dispositivi smart come facciamo noi demolitori, precisamente come fate? Vi aiuta il dettato costituzionale o avete fatto qualche corso alla scuola Holden di Baricco?)
  1. Scuola e lavoro

Non si va a scuola semplicemente per trovare un lavoro, non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione. Dal liceo del centro storico al professionale di estrema periferia, la scuola era e deve restare, per primo, un “luogo potenziale” in cui immaginare destini e traiettorie individuali, rimettere in discussione certezze, diventare qualcos’altro dalla somma di “tagliandi di competenza” accumulati e certificati. L’apertura alla realtà sociale e produttiva può realizzarsi, volontariamente, attraverso forme e progetti di scambio organizzati autonomamente dagli istituti scolastici. Non imposti ex lege dal combinato Jobs Act e Buona Scuola. Pratiche calibrate in base ai contesti e alle finalità educative, che in nessun modo gravino sulle famiglie o sugli allievi in termini di sostenibilità e gestione.

 Crediamo che:

  1. i)L’alternanza scuola lavoro non rappresenti affatto un’opportunità formativa per i ragazzi, quanto piuttosto una surrettizia sperimentazione del “lavoro reale” che entra fin dentro i curricula scolastici, sottraendone tempo e qualità e distorcendone le finalità.
  2. ii) Oltre ad approfondire il solco tra sapere teoricoe pratico, alternanza è sinonimo di disuguaglianza. Percorsi ineguali in base a contesti, tessuti sociali e reti familiari, che peggiorano in proporzione alla fragilità delle condizioni economiche e delle opportunità culturali di luoghi e famiglie.

iii) Bisogna recuperare l’idea di Scuola come luogo della vita dotato di un tempo e spazio propri, non corridoio di passaggio tra infanzia e adolescenza – considerate età “minori” – e occupazione adulta.

  1. iv)Sia necessario portare la conoscenza del lavoro nelle classi, non gli studenti a lavorare. Logiche, dinamiche e problematiche dell’occupazione entrino nel dialogo educativo, per aiutare i giovani ad orientarsi, attrezzarsi a comprenderle e intervenire per modificarle.
  1. Metrica dell’educazione e della ricerca

Educazione e ricerca accademica sono oggi terreno di confronto tra tutti i soggetti sociali, politici, economici ad esse interessati. Gli orientamenti internazionali delle politiche formative e di ricerca lo testimoniano e innescano una competizione globale in cui ranking internazionali (OCSE) e nazionali (INVALSI, ANVUR) comprimono gli scopi formativi e di studio sulla dimensione apparentemente neutra di “risultato”, oltre ad indurre a paragoni privi di rigore logico. Educazione e ricerca universitaria non sono riducibili ad un insieme di pratiche psicometriche globali, a cui sottoporsi in nome del principio di etica e responsabilità. Il futuro della Scuola e dell’Università sono questioni politiche nazionali, da collocare in un contesto europeo e interculturale di confronto e valorizzazione delle differenze, libero e democratico.

 Crediamo che:

  1. i)Scuola e Ricerca universitaria siano oggetto di vera e propria “ossessione quantitativa”, da parte di organismi internazionali e nazionali.
  2. ii)La logica dell’adempimento e della competizione azzerino il lavoro di personalizzazione nella formazione scolastica ed erodano progressivamente spazi di progettualità libera nella ricerca universitaria (attraverso la sottomissione a criteri di valutazione non condivisi).

iii) Le scelte operate da MIUR, INVALSI ed ANVUR, modifichino profondamente comportamenti e strategie nelle Scuole e nelle Università, generando condotte di mero opportunismo metodologico-didattico e scientifico nonché la perdita di “biodiversità culturale”, strumento indispensabile per affrontare le complessità del futuro, oggi imprevedibili.

Insegnando nel primo ciclo ne so troppo poco sull’alternanza scuola-lavoro per chiosare anche qui. Il linguaggio spocchioso barricadero è al solito irritante, pensando soprattutto ai colleghi che si impegnano quotidianamente per realizzare al meglio le perfettibilissime novità introdotte recentemente. Qualcosa di simile all’alternanza esiste in tutti i paesi avanzati, viene il sospetto che qualsiasi formula si studi per attuarla sarà sempre aprioristicamente una demolizione, uno sfruttamento, la peste bubbonica. 

  1. Valutazione del singolo, valutazione di sistema

La valutazione degli studenti è impegno unico, qualificante e delicato dell’insegnante, condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli del cambiamento tipico dei processi di apprendimento. È un’osservazione “prossimale” (e responsabile) modulata su tempi lunghi, sull’evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto. È impensabile che enti terzi, estranei al rapporto educativo, entrino nel merito della valutazione formativa, come previsto dalla Buona Scuola. Singolarmente anacronistico appare che, dopo decenni di ‘crisi del fordismo’ in economia, si voglia introdurre la ‘fordizzazione’ nell’educazione. Le menti, soprattutto durante le prime fasi della formazione, sono delicate, creative e si conciliano con “tempi e metodi” d’antan assai meno delle berline. (delle berline, delle berline, delle berline, avete presente quando una parola sembra finita lì per caso?)

 Crediamo che:

  1. i) Accostare una valutazione di agenzie esterne a quella del corpo docente nel “curriculum dello studente”, mini la relazione di fiducia scuola-famiglia, spostando l’attenzione sull’esito, più che sul processoe sul percorso, togliendo ogni significato agli obiettivi di personalizzazione ed inclusione che la Scuola afferma di perseguire;
  2. ii)Un’agenzia “terza” (INVALSI) non possa svolgere compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola: la terzietà non è, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità.

iii) La presenza di agenzie esterne nella valutazione del singolo rappresenti un’espropriazione di quella responsabilità complessa, raffinata negli anni con l’esperienza e la condivisione collegiale, della professionalità di ogni insegnante: la valutazione dei propri studenti;

  1. Inclusione e dispersione

La dispersione scolastica, l’inclusione autentica e la riduzione delle disuguaglianze necessitano di interventi politici sistematici, di fondi strutturali, impegni comunitari, di monitoraggio costante, conoscenza e capitalizzazione delle pratiche esistenti. A partire da investimenti e piani territoriali: infrastrutture, associazioni, biblioteche; fino ad arrivare a Scuola, con risorse costanti per costruire una fitta ed efficiente rete di recupero dei disagi, delle solitudini e delle difficoltà degli allievi più fragili. Se è vero che la Scuola e i buoni insegnanti fanno la differenza, è ancor più vero che la dispersione ha una sua mappa che si sovrappone a quella geografica ed economica dei tessuti degradati e delle periferie impoverite, di situazioni e storie difficili da ribaltare e su cui incidere. Dare alle Scuole risorse e spazi adeguati alla costruzione di didattiche di recupero e opportunità di accoglienza non è sperpero di denaro pubblico, ma progettazione politica di inclusione autentica, unica vera prospettiva di crescita e ricchezza del paese.

Qui siamo alla demagogia pura. Il punto 7 si apre con la parola INCLUSIONE. La parola viene ripetuta, richiamando un’inclusione “autentica”. Ad opera di tutto il sistema, senza attribuire meriti a nessuno in particolare, la scuola italiana ha fatto più passi avanti sul tema dell’inclusione negli ultimi 10 anni che nei 60 precedenti di storia repubblicana. Eravamo in ritardo, abbiamo recuperato un bel po’. Tanti docenti hanno svolto percorsi di formazione, alcune importanti leggi sono state varate. Si è appurato che il vituperato digitale applicato alla didattica può fare molto. Si sono fatti piccoli passi anche sul versante del linguaggio. La scuola recentemente demolita, quella che praticava inclusione autentica, vedeva i suoi docenti conversare in maniera bizzarra, “quanti 104 hai?”, “oh, quest’anno c’ho un H, ma un H…”. Poco costituzionale, no?

Ecco, l’appello dice inclusione, ma poi non cita nessuna presunta magagna. Al massimo si può intuire che l’inclusione che oggi non c’è verrebbe introdotta (come? creatività? Costituzione?) seduta stante dagli estensori dell’appello.

Crediamo che:

  1. i)I temi in gioco siano cruciali e non ci si possa limitare a chiedere alla Scuola di fare meglio solo con ciò che ha. Semplificare compiti e programmi, organizzare corsi di recupero pomeridiani che ricalchino quelli antimeridiani, medicalizzare le diversità, sono scorciatoie che restano agli atti come prove burocratiche di adempimenti amministrativi;
  2. ii)La Scuola abbia un valore politico. Dunque ha il diritto di chiedere di indirizzare risorse pubbliche su questioni di importanza sociale e morale che ritiene prioritarie. Dispersione scolastica e abbandoni precoci non sono solo capi d’imputazione su cui è chiamata a rispondere, ma problematiche che nelle attuali condizioni assorbe e subisce.

In virtù di queste considerazioni:

1)      Chiediamo un’azione di moratoria su:

  • obbligo dei percorsi di alternanza-scuola lavoro e del requisito di effettuazione per l’accesso all’esame di Stato conclusivo del II ciclo
  • obbligo di impiego metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning, apprendimento integrato di contenuti disciplinari in lingua straniera) L’appello non fa capire cosa ci sia di male in queste famigerate lezioni in lingua straniera. Mai preparata una, manco sarei capace, ma ho sempre ammirato molto i docenti che si avventurano in quel compito, invidiato quelli che lo svolgono con nonchalance… Io in questa azione moratoria non riesco a vederci che pigrizia, soltanto pigrizia, considerato che anche nella scuola più avanguardista le lezioni CLIL saranno sì e no una su 100.
  • uso dei dispositivi INVALSI a test censuario per la valutazione degli esiti scolastici, obbligatorietà della somministrazione funzionale all’ammissione agli esami di licenza del primo e secondo ciclo
  • modifiche relative all’esame di Stato, che renderebbero di fatto sempre più marginale la didattica disciplinare.

2) Chiediamo l’apertura di un ampio dibattito governo-Scuola di base-organizzazioni sindacali-cittadinanza sulle questioni di cui al punto precedente e su tutto l’impianto della Legge 107/2015.

In conclusione e ricapitolando, questi dicono:

  • no al quadro delle competenze uniformato a livello europeo
  • no all’azione didattica trasversale alla varie discipline attuata dai docenti, sì ai compartimenti stagni
  • no al digitale nella didattica 
  • no alle lezioni laboratoriali, sì alla lezione frontale
  • no alla didattica capovolta (che si è negli anni soltanto aggiunta alle pratiche tradizionali senza proporsi di eliminarle) 
  • no all’inclusione praticata oggi delle scuole italiane (a cui non si muovono critiche si sorta), sì all’inclusione “autentica”
  • no all’alternanza scuola-lavoro

So di aver semplificato, ma anche di averlo fatto a casa dei Semplificatori.

Ovviamente l’appello cui ho fatto le pulci sta circolando per la nazione attraverso una comunicazione “viva” e comunitaria, senza utilizzare canali alla moda come Facebook e Twitter, peraltro mai citati in Costituzione.

Se qualcuno ha letto – me e loro – fin qui, grazie.

E buon 2018.

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Tra gli odiatori di Gentiloni e i bibliofili di Lodovica Comello

Lodo

Fate quest’esperienza, o se non avete tempo lasciate che ve la faccia fare io nelle poche righe che seguono.

Andate sul profilo Twitter del Presidente del Consiglio. Il 27 dicembre, ieri rispetto a questo post, ha fatto gli auguri alla Costituzione. Piuttosto banalmente, ha scritto “Evviva”. Banale, ma le banalità bisogna sapersele permettere. Oggi, infatti, nel corso della conferenza stampa di fine anno ha  riconosciuto ridacchiando di aver pronunciato poco prima una Frase Storica. Aveva detto che “il Governo governerà”. Ecco, adesso però leggete cos’hanno scritto sotto (al momento) 605 italiani come me, come voi. Adulti con nome  e cognome, gente con un titolo di studio ed un lavoro, appassionati di politica, non profili fake dai nomi improbabili.

Ok, so che non ci siete andati, a leggere. E vi capisco. Però avete capito cosa avreste trovato.

Andiamo avanti.

Andate ora sul profilo Instagram di Lodovica Comello. Esatto, sì, proprio lei, la mia conterranea. 28 dicembre: la giovane cantante è in partenza per Buenos Aires. Raggiunta Milano, prima di arrivare farà scalo a San Paolo. Una bella maratona, tant’è che la Nostra esibisce sulle ginocchia il libro che l’accompagnerà durante il viaggio: David Grossman, Qualcuno con cui correre.

Ora fate come con Gentiloni: leggete sotto. Tenete a mente che l’illustre friulana spopola tra i tredicenni e forse l’età l’ho pure sparata grossa. Spopola tra ragazzine che si autonominano “lodo.my.heaven”, “lodofanatica” e “lodofanaticaxsempre”…

Ecco, invece, sorpresa.

Sotto quella foto trovate un ricco elenco di letture. Sì, le fan, quasi tutte femmine, ricambiano il consiglio e elencano ognuna la lettura del cuore, quella che ti cambia la vita.

Una festa di libri, un elenco che manderebbe felicemente in soffitta gli elenchi distribuiti da certi insegnanti di lettere prima dell’estate, con Il sentiero dei nidi di ragno stufo anch’esso di starsene lì da 25 anni, tra Pavese e Edgar Allan Poe.

Questo Cormac McCarthy, Lodo, segnatelo. E anche quel Ray Bradbury.

Il diario di Anna Frank, sì cara, quello dei tifosi della Lazio.

E poi Stieg Larsson, Carlos Ruiz Zafon.

Ma anche Wonder, magari complice il film nelle sale.

Un amore di Buzzati, oh yeah. Cime tempestose e la biografia di Bebe Vio, Delitto e castigo e Macbeth.

L’arte della Gioia, Lodoooooo, di Goliarda Sapienza: “Bello impegnativo ma di un’intensità pazzesca”. Come dare torto alla tua fan?

Poi c’è quella che non ricorda il titolo e quella che ha scordato l’autore, pazienza.

Io intanto sto molto meglio e penso all’idea che hanno gli adulti dei ragazzini sui social.

(Nel frattempo, Comello ha già detto se si candida con Renzi o con Liberi e Uguali?)

 

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Insegnanti per la cittadinanza

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Il 7 settembre ho avuto l’onore di intervistare il maestro Franco Lorenzoni nel corso di un convegno di insegnanti. Negli ultimi anni, da quando mi sono interessato alla sua figura e alle sue idee, ho potuto notare che parlare di lui come “il Maestro”, da parte di un buon numero di docenti, non ha nulla di diverso dal modo in cui per mezzo secolo abbondante gli italiani si sono riferiti ad un uomo, ricco di rughe e molto altro, chiamandolo “L’Avvocato”. Con la differenza non irrilevante che Lorenzoni il maestro lo fa per davvero, da un sacco di anni, tanto che dopo un minuto di chiacchierata con lui hai già davanti agli occhi la faccia di quel tal bambino Lorenzo che non riesce a stare fermo (beato lui) e quell’arguta bimba marocchina che non ama la matematica. Dopo un minuto, forse anche meno.

Al termine della conversazione pubblica, riferendomi ad un’intervista in cui dichiarava di non essere stato molto bravo, a inizio carriera, nel calmare i bambini e nell’aver avuto successo piuttosto nella missione di agitarli, gli ho chiesto cortesemente di provare ad “agitare” la platea che gli sedeva davanti. Non aveva molte pretese, quella domanda. Confesso che mi sarebbe bastato, dopo avergli fatto toccare altri temi alti e spinosi, un riferimento scherzoso su quell’episodio biografico.

E invece no.

Probabilmente per agitare qualcuno è necessario prima agitarsi. E Lorenzoni si è agitato. Non riusciva a stare composto, si contorceva sulla sedia. Ha quindi detto di essere in difficoltà davanti a un particolare momento della vita scolastica, quello in cui lo Stato italiano gli chiede per legge sacrosanta di insegnare agli alunni la disciplina “Cittadinanza e Costituzione” e lui davanti ha sempre più spesso bambini nati in Italia che quella cittadinanza non la possono esercitare, in quanto stranieri. La lezione diventa a quel punto una sorta di ora di religione da cui gli studenti di altre confessioni non possono, meno ipocritamente, essere esentati. Una situazione assurda, come impartire lezioni di alta cucina a chi non possa per legge esercitare il mestiere di cuoco. Come insegnare il rinnovato piano per la mobilità di una grande città (metropolitana, piste ciclabili, zone pedonali) agli inquilini del suo carcere di massima sicurezza.

Il Maestro ha quindi accennato ad un appello che aveva in mente di scrivere e diffondere. Un appello rivolto agli insegnanti, quelli che ogni giorno misurano concretamente la necessità di un provvedimento come quello arenato presso il Senato della Repubblica.

QUI il testo dell’appello.

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Prendete gli iPhone ché vi detto i compiti (quando il dibattito sugli smartphone smette di essere smart)

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Prima ora, due ragazzine stanno lavorando attorno ad alcune fotografie d’autore. Sfogliano le pagine di un volume patinato, discutono, fanno alcune scelte, selezionano e scartano. Una si chiede se dietro quel nome straniero scritto in copertina si celi un fotografo maschio o una fotografa femmina. Il prof, che conosce quegli scatti a memoria, confessa di non saperlo, prende l’iPhone, googla e risponde: è un maschio. I capelli sono da femmina, però, chiosa l’alunna. Il mondo è complicato.

Terza ora, nei dintorni della grammatica. Tra soggetti di verbi attivi e passivi, complementi oggetto e di luogo, piove in classe un nome una coppia di nomi un po’ insolita: Diabolik e Eva Kant. Le idee sono confuse, qualcuno è convinto c’entrino con Wonder Woman, altri ne sanno tantissimo, così tanto che con loro nei panni di Ginko i due personaggi marcirebbero in galera. Il prof. è democratico, tutti devono sapere. IPhone, Google, Ok abbiamo capito.

Quarta ora, italiano. La ragazza ha letto un libro, quest’estate. Lo cita ma non le viene il titolo, soltanto qualcosa di somigliante, perciò si contorce insoddisfatta, mette a ferro e fuoco la punta della lingua ma niente da fare. Probabilmente un iPhone X interverrebbe anche da solo, quello presente in classe ha bisogno del suo padrone, ma in 10 secondi titolo e autore sono lì, belli e squadernati. Un altro ragazzino annota curioso, rigorosamente a mano. Leggerà anche lui, forse.

Il dibattito sullo smartphone in classe nasce già esausto. Pensosi editoriali mettono in guardia e annunciano più o meno prossime fini di mondo e elencano le competenze tecniche e umane che perderemo delegando alle infernali macchine.

Nella mia scuola media i telefonini sono da sempre proibiti. Quello che questa mattina ha in qualche modo sbloccato virtuosamente tre situazioni è il mio. Mi si dirà: i ragazzi avrebbero potuto tenersi il dubbio sul sesso del fotografo, avrebbero potuto rintracciare un’immagine di Diabolik nel corso del pomeriggio. Ok, ma perché? Se un giorno con un Pc mostro ai ragazzi un quadro esposto al Louvre, devo per caso censurarmi pensando che un domani potranno recarsi fisicamente nel museo parigino?

Alcuni commentatori chiamano in causa la scomparsa delle competenze calligrafiche e di mille altre imprescindibili abilità manuali. Ma sono davvero convinti che in una scuola che non demonizza i cellulari siano bandite altre forme di didattica? I ragazzi di questo post, nel corso della stessa mattinata di Diabolik e Eva, hanno redatto e corretto brutte copie, ricopiato in bella copia, impostato, realizzato e colorato infografiche, hanno discusso e verbalizzato il frutto del loro dibattito, hanno intrecciato spaghi, piantato chiodi e restaurato carte geografiche. Cosa si sarebbero persi se avessero googlato al posto mio?

Hanno presente, i paladini della scrittura non digitale, che se gli alunni italiani hanno nel corso degli anni almeno dimezzato la quantità (e di conseguenza la qualità) della loro scrittura è a causa del proliferare delle prove di verifica “a crocette”, nella rincorsa estasiata al mito originario della valutazione oggettiva (o della correzione rapida, secondo altre scuole)? Lo sanno che ci sono più parole e frasi in italiano in due chat del Samsung scassato di un ragazzino di prima media che in tutti i suoi quaderni delle elementari ricolmi di fotocopie appiccicate?

Oggi su “Repubblica” lo scrittore Marco Lodoli chiede sarcastico la fine dell’accanimento terapeutico nei confronti dei libri e scrive: “…lo smartphone riluce trionfante; il libro è un reperto, un coccio etrusco, un capitello scheggiato dai secoli…”. Ma quando mai i ragazzi hanno posto i due oggetti in una prospettiva di aut aut! Preferire il telefono è un conto, essere scemi un altro paio di maniche.

Un tempo da un dibattito così il buon insegnante di lettere avrebbe tratto la traccia di un tema da assegnare alla sua classe. Gli smartphone e il futuro della scuola, la cultura a un bivio, opportunità e rischi. Uno studente del 2017 consegnerebbe in fretta il suo foglio a righe.

“Svolgimento.

Prof, ma lo sa di cosa parla?”.

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Le Ong, i migranti e la sinistra che preferisce di no

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Chi lavora per una Ong conosce perfettamente il significato del termine “persecuzione”. Lo conosce perché ha visto con i propri occhi delle persecuzioni in atto. Gli può essere capitato di operare addirittura nel mezzo, di una persecuzione, non soltanto dopo. Per questo ne conosce i colori, i rumori, gli odori.

Chi lavora per una Ong impegnata a salvare vite nel Mediterraneo sa benissimo che la questione sul tappeto in queste settimane – il codice Minniti, le indagini della procura di Taranto, le procedure di intervento in mare vecchie e nuove – non ha niente a che vedere con una persecuzione. Potrà chiamarla rogna, intoppo, ostacolo, pastoia burocratica, strumentalizzazione a fini politici, la chiamerà come ritiene, ma non utilizzerà mai il termine persecuzione.

Da ieri in Italia, un nutrito gruppo di intellettuali ha lanciato un appello che quella parola la usa eccome. Dice proprio così: “il Governo italiano perseguita le Ong”.

Altre espressioni di quel breve testo mi hanno colpito.

“È in corso un nuovo sterminio di massa“. Sterminio di massa, do you know?

“…il governo italiano si accanisce contro chi approda…”. Accanisce, come fa un cane rabbioso.

“Il nostro governo non è indifferente a questa carneficina, ma complice“. Carneficina, chiaro?

Alla fine, l’appello stigmatizza l’uso di parole enfatiche come “assedio” riferite all’approdo di migranti sul suolo italiano. Giustissimo, fa soltanto un po’ ridere se a scriverlo sono quelli di perseguita sterminio di massa carneficina, ecc.

Hanno letto e firmato invitando gli italiani a fare altrettanto. Sono una sessantina. Scrittori di cui ho letto i romanzi, uomini politici che ho seguito con interesse, uomini di chiesa, giornalisti. Li conosco praticamente tutti. Non essere quasi mai d’accordo con quello che affermano mi mette spesso in crisi, ultimamente, perché loro sono quelli che custodiscono il brand Sinistra® in Italia.

Ma io non voglio usare le parole a caso.

Io non chiamo olocausto tutto ciò che di brutto accade sul pianeta.

Io non voglio diventare uno che punta il dito, individua in quattroequattrotto i colpevoli (i carnefici…) dentro questioni complessissime di portata epocale.

Io non voglio affidarmi a una classe di intellettuali che firma svogliatamente, sulla fiducia, l’ennesimo appello senza prima manco correggerne i refusi.

Come al solito, l’appello indignato è anche rigorosamente un appello antifascista (il gruppo ha i diritti anche sul marchio Antifascismo®, si sa). Lo fa indirettamente, citando i 12 professori che non presero la tessera del Duce. Modestamente, ci fanno sapere, noi che abbiam firmato siamo come quelli lì.

Con la piccola differenza che i 12 all’epoca misero in gioco le loro cattedre e si abbonarono ad un futuro di persecuzioni vere, verissime. E questi? (Facile dire che Di Maio non è Pertini e dio solo sa quanto non sia Pertini, ma questi?).

Questi hanno “preferito di no” su whattsapp un venerdì d’agosto, e di coraggio non troveranno nemmeno quello di unirsi per evitare le soglie di sbarramento che verranno. E di migrazioni non si occuperanno mai se non così.

(Come è ovvio, questo post non sottovaluta e non dimentica i drammi dei migranti, le condizioni di chi si imbarcherà nonostante tutto e di chi invece sarà costretto a rimanere nella Libia di oggi. Questo post parla della mia parte politica che per non cambiare il proprio abito mentale, nel contempo vecchio e adolescenziale, ha rinunciato non solo a cambiare il mondo, ma anche a lenirne blandamente le ferite.)

 

 

 

 

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Le rose che non colsi, stavo svolgendo una prova Invalsi (il solito post polemico)

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Non possiedo un e-reader. Non ho mai letto un libro digitale. Accumulo soltanto testi cartacei ed ho due passioni: leggerli e lasciarli impolverare. Ciononostante, oggi la Prova Nazionale Invalsi mi ha fatto arrabbiare più del solito.

Come se non bastasse il consueto nozionismo grammatical-linguistico spacciato per test di logica, la prova odierna era pessima anche per un’altra ragione, questa volta tutta ideologica.

Tra tutte le tematiche in cui pescare un testo argomentativo da leggere e comprendere, il Miur ha scelto un brano che mette a confronto un testo cartaceo con un testo digitale. Promuovendo a pieni voti il primo e bocciando inesorabilmente il secondo.

Perché non scegliere un brano sugli accordi di Parigi sul clima?

Perché non optare per un articolo sulla mobilità alternativa nelle metropoli avanzate?

Ecco, perché?

Molte delle ragioni illustrate nel testo dall’autore sono le stesse che fanno di me un convinto mancato possessore di e-reader. Tuttavia, 3/4 delle letture effettuate nel corso della loro vita dai ragazzi che avevo davanti stamattina sono avvenute su uno schermo. A occhio e croce accadrà lo stesso per la quasi totalità di quello che leggeranno in futuro.

E allora: perché non metterli alla prova con un bel pezzo sugli ogm?

Perché non testare le loro competenze con un breve saggio sull’inquinamento degli oceani?

Perché no. Perché c’è una scuola dentro la scuola. Una scuola che vive fuori dalla realtà e che la realtà non accetta.

La scuola dei 600 prof. universitari che firmano appelli e chiedono gran voce il ritorno dei dettati.

Nel frattempo i ragazzi italiani leggono romanzi sullo smartphone e scrivono agli autori per influenzare gli sviluppi della trama.

E quelli del Miur oggi avrebbero potuto scegliere 60 righe sul massiccio ritorno degli orsi sulle Alpi. Avrebbero potuto incuriosire i quattordicenni con un bel testo sulle auto senza pilota progettate in California.

E invece no. Han preferito comunicare ai loro utenti, noti surfisti del web, che se sono a pagina 220 di un libro giallo tradizionale di 440 pagine possono con il tatto percepire la distanza che li separa dal nome dell’assassino. La scritta “220 di 440” su un Kindle non sembra al momento altrettanto esplicita.

Un testo sui pannelli solari: perché no?

Un reportage sui bonobo del Congo?

Il treno a levitazione magnetica di Shanghai?

Le virtù dello zenzero?

[…]

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Ariana Grande, Manchester e una giornata a scuola

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Ti ho pensata, dico stamani all’alunna che mi ha introdotto un anno fa, per tramite del suo quaderno, alla figura di Ariana Grande, star planetaria.

Ti ho pensata stanotte, appena ho saputo della strage al concerto. Non ho nominato la cantante, però. Ho detto “il tuo idolo”, e tanto è bastato per generare un equivoco. Si sa che i miti cambiano in fretta, a quell’età, durano un soffio di vento, o la vita di uno smartphone gonfio di mp3. Di quelli passati resta un nebuloso ricordo, come accade a noi adulti con la penultima delle città sfregiate dal terrore. Parigi? Bruxelles? O era Berlino?

Non ho avuto voglia di fare il solito viaggio nell’attualità, scompaginando il diario di bordo di questa mattinata di scuola. Quegli stessi occhietti mezzi addormentati sono già stati Charlie, hanno già visto il Bataclan, hanno riflettuto a settembre sui camion assassini dell’estate. Non ce l’ho fatta, oggi. Troppo poche le ore trascorse dall’attentato, troppo simili a loro le vittime. Troppa morte, davvero, troppa. Come fosse facile smaltire il peso anche soltanto di un angelo motociclista falciato in bicicletta. Come fosse facile.

Oggi poi c’erano le prove per lo spettacolo teatrale di fine anno, la cosa più lontana da un lutto che mi venga in mente. Anche quando in palestra si gioca a chi muore meglio, freddati da due dita di pistola. Quindi è finita che abbiamo riso più del solito, il giorno dopo Manchester, abbiamo scritto battute, abbiamo fatto andare avanti lo show che deve andare avanti.

Perché noi siamo quelli che devono farlo andare avanti.

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When We Were Grillo, quando eravamo tutti grillini

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Noterella a margine della notizia del giorno: il “New York Times” che accusa Grillo di aver alimentato la sfiducia nei confronti dei vaccini, agire del quale si cominciano ad avvertire i serissimi danni.

Il comico smentisce sdegnato: tutte balle.

La rete, tuttavia, non perdona e smaschera: migliaia di citazioni dal sacro blog, spezzoni video, documenti audio, proposte di legge antivax a firma M5S.

Mi capita quindi di vedere per la prima volta dai giornali online alcuni passaggi tratti dagli spettacoli di Grillo, anche apparentemente lontani nel tempo, almeno a giudicare dalla grana delle immagini. Non li ho frequentati, anche se ricordo un certo clamore da grande evento quando passavano dalle mie parti. C’erano quelli, poi, che ti dicevano “se vuoi ti passo il DVD di Grillo”, in genere una copia fresca di masterizzatore, e ti mostravano la custodia con modi da spacciatore guardingo. Era roba contro, era roba che scottava.

Nessuno che aggiungesse: è roba molto stupida.

Dov’era la nostra ragione in quegli anni?

Perché quelle parole non ci hanno fatto schifo fin da subito? Soltanto perché tra una porcheria antiscientifica e l’altra c’era una battuta di spirito?

Perché quegli spettacoli sono stati recensiti quasi sempre come gli exploit di una voce libera, di un guitto profetico?

Perché è andata così, ammettiamolo. Certo, il comico non candidava ancora nessuno alle elezioni e tutte quelle panzane sembravano morire lì dov’eran nate, nei tendoni, nei teatri.

Non sarà che in fondo è anche un po’ colpa nostra? Ci siamo fatti due risate, abbiamo detto “che matto”. Qualcuno avrà sinceramente pensato “che coraggio, che cane sciolto…”.

E quello ci stava dicendo di non vaccinare i bambini.

Lo abbiamo applaudito. Ci siamo fatti sputare addosso mentre blaterava passeggiando tra le seggiole dei teatri strapieni.

L’uomo si sarà pure montato un po’ la testa, ai tempi, si capisce, e oggi probabilmente i pochi che non lo votano gli sembreranno dei traditori.

 

 

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Forza Gabriele Del Grande, viva i suoi libri!

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C’è una cosa che possiamo fare davvero, e tutti, e subito, per Gabriele Del Grande.

Leggerlo.

Non è il momento per le polemiche, anche se fa impressione vederlo definito “documentarista” e blogger dalle testate che avrebbero dovuto contendersi il suo sguardo e la sua firma, negli anni in cui era palesemente il più attento e il più informato sul grande tema che avrebbe finito per sommergerci.

Non dev’essere un tipo che si perde d’animo, Gabriele, e nonostante le porte sbattute in faccia ha saputo tentare nuove strade e nuovi viaggi, per capire e raccontare ancora, in altre forme.

Non dev’essere nemmeno il tipo che si accanisce con i “ve l’avevo detto”, nonostante sia accaduto puntualmente tutto quello che già dieci anni fa lui andava scrivendo mentre navigava attorno ai muri della Fortress Europe, già assediata di assediati.

Ora si tratta di stargli accanto, si tratta di pronunciare e scrivere il suo nome. Vanno bene gli hashtag, gli #iostocongabriele (proprio come lui ci aveva insegnato a “stare con la Sposa”). Va bene tutto, ma va bene anche leggerlo.

I suoi libri si trovano ancora, gli scaffali online dicon “disponibilità immediata”.

Cosa aspettiamo a svuotarli?

Mamadou va a morire e Il mare di mezzo sono due fonti di inestimabile valore. Non saranno aggiornati sugli ultimissimi eventi, ma fanno luce su un fenomeno che – ahinoi – è rimasto lo stesso e scavano nei suoi tragici dettagli. Fanno di più: indagano il lessico delle migrazioni, componendone un utile glossario. Sono costruiti su testimonianze raccolte sul campo, sanno di deserto e mare, di prigione e di stiva.

Forza Gabriele Del Grande.

Ma anche: viva il suo lavoro!

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I danni che fa Report

2016-10-10aOrmai da 10 anni, in una stanza della mia scuoletta che si improvvisa ambulatorio, due volte all’anno un simpatico medico vaccina le mie alunne contro il papilloma virus. Da un po’ di tempo a questa parte si mettono in fila anche i maschietti, portatori del virus e a loro volta possibili vittime. Non sono mattine come tutte le altre. I ragazzi hanno il tesserino delle vaccinazioni ben in vista sul banco, si distraggono per ogni auto che sembra aver parcheggiato nel cortile della scuola, si allarmano per ogni sbattere di portone.

Poi, finalmente, il rito comincia. Si mettono in coda. Entrano nella stanza di cui sopra, uno alla volta. All’uscita a qualcuno scappa una lacrima, qualcuno chiede di essere esentato da ogni attività didattica per i postumi dell’iniezione.

L’ho chiamato rito.

Succede nella mia scuola, ma succede in migliaia di altre. Cambiano solo numeri e facce. Il dottore non sarà sempre simpatico, spessissimo sarà una dottoressa. Succede in Italia, ma succede anche nel Sichuan e in Alabama.
Succederà finché la scienza, e quindi la massima espressione della ragione umana, non avrà trovato una soluzione migliore. Succederà finché lo Stato laico sarà alleato della scienza e se ne servirà per il bene di tutti.

L’inchiesta di Report sui vaccini anti papilloma visus ha dato ieri sera una goffa spallata a quel rito civile.

Con le mani avanti di chi è consapevole esistano ben altre diaboliche ciarlatanerie sul tema vaccini, la trasmissione ha soltanto (!) insinuato, ha soltanto (!) alluso. Il terreno era già stato arato: si sa che le le industrie farmaceutiche sono il Male fattosi consiglio di amministrazione. Aggiungici un medico corrotto che non manca mai, una spruzzatina di tangenti e la postverità è  bella impiattata.

Grande assente: la scienza. C’è un medico specializzato su quel tema che da mesi fa parlare di sé per la sua strenua battaglia a favore delle pratiche vaccinatorie, che dite, lo sentiamo? No. Chissà perchè… Ne va bene anche un altro, uno qualsiasi, bastano tre clic per individuare una serie di nomi autorevoli. No. Vien da pensar male, ma si dia il caso che sia vietato pensar male dei professionisti del pensare male. Si passa subito per censori, per gente che dà la caccia all’Uomo Ragno mentre bande di criminali imperversano in città.

[Mi viene in mente la puntata di Report dedicata al mondo dei colossi del web, in particolare a YouTube. Una coppia di genitori lamentava l’utilizzo delle immagini del figlioletto di pochi mesi, girate e caricate sulla piattaforma al solo scopo di commuovere una nonna australiana, finite invece in un losco servizio Tv sui pedofili e ora a disposizione dei peggiori naviganti dell’intero pianeta. L’inchiesta metteva in guardia dal mostro YouTube, guidato da indicibili interessi economici manco si trattasse un’industria farmaceutica, e trascurava l’unica vera missione da servizio pubblico: indicare ai telespettatori la spunta da fare sul sito (tutt’altro che occultata) se non si vuol rendere visibile a tutti un video caricato.]

Stamani, intanto,  online c’erano già genitori che ringraziavano lo storico programma scoperchiatore di pentole. Grazie, abbiamo visto, non vaccineremo la bimba!

Bingo.

Dove andremo a finire di questo passo è difficile immaginarlo.

Tra un c’è sotto qualcosa, una puzza di bruciato e un conto che non torna, toccherà magari a Sigfrido Ranucci riportarci tutti alla ragione, nel suo discorso di capodanno a reti unificate.

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POZZANGHERA VS 600 PROFUNIVERSITARI

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Ho fatto le pulci all’appello dei 600 prof. sull’italiano a scuola.

Io sono quello colorato di blu, se non fosse chiaro.

Lo dico per i lettori più giovani, quelli deboli nella comprensione dei testi. Pronti, via.

 

Al Presidente del Consiglio

Alla Ministra dell’Istruzione

Al Parlamento

È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano (1), leggono poco (2) e faticano a esprimersi oralmente. (3) (Ma che ordine – logico? – è mai questo? Scrivere, leggere, parlare. Sembra una sciocchezza ma pensateci: in quanti avreste scritto le tre carenze in quell’ordine?). Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare (Le “Elementari” si chiamano ormai da molti anni “Scuola Primaria”. So perfettamente che diciamo ancora tutti così, ma questo è un appello indirizzato al Presidente del Consiglio, al Parlamento e alla Ministra che di scuola si occupa al livello più alto. Parliamo come mangiamo in un testo che denuncia la lingua approssimativa di molti italiani?). Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana.

A fronte di una situazione così preoccupante il governo del sistema scolastico non reagisce in modo appropriato,  anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico più o meno da tutti i governi (Par di capire che esistano altri piani su cui declinare il tema dell’ortografia, e che generalmente se ne occupino i governi). Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema.

Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né il generoso impegno di tanti validissimi insegnanti né l’acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti. Dobbiamo dunque porci come obiettivo urgente il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente (Ops, che succede? A nessuno dei 600 è venuto in mente un aggettivo che evitasse la proliferazione dei “sufficienti”? Consoliamoci: la “i” c’è entrambe le volte. Il lessico è poverello, ma l’ortografia è salva) possesso degli strumenti linguistici  di base da parte della grande maggioranza degli studenti. 

A questo scopo, noi sottoscritti docenti universitari ci permettiamo di proporre le seguenti linee di intervento:

– una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari. Tali indicazioni dovrebbero contenere i traguardi intermedi imprescindibili da raggiungere e le più importanti tipologie di esercitazioni;

–  l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale (E l’analisi logica? Soprassediamo? Ma sì, è troppo astratta, cosa si credono quelli, dei filosofi? Mica si va a scuola per discettare di cause e di fini, a scuola si va per spaccare il pronome in quattro e sondare il magico mondo dei verbi difettivi) e scrittura corsiva a mano (Meglio specificare, affinché nessuno si confonda e pensi a delle verifiche nazionali di “scrittura corsiva digitale”. Al massimo regionali, quelle.).

–  Sarebbe utile (In un elenco di sostantivi – revisione, introduzione, … – cosa ci fa un “sarebbe utile”?) la partecipazione di docenti delle medie e delle superiori rispettivamente alla verifica in uscita dalla primaria (ma allora lo sapete…) e all’esame di terza media (che non si chiama più così, ma tanto basta capirsi…), anche per stimolare su questi temi il confronto professionale tra insegnanti dei vari ordini di scuola.

(So di essere antipatico e saccente, ma se un elenco puntato si compone di n. elementi, al termine di ognuno di essi e fino al penultimo bisogna decidere se metterci il punto e virgola – sarebbe preferibile – oppure il punto o magari anche nulla. Se faccio un po’ come capita, poi corro il rischio di passare per un cialtrone sedicenne…)

Siamo convinti che l’introduzione di momenti di seria verifica durante l’iter scolastico sia una condizione indispensabile per l’acquisizione e il consolidamento delle competenze di base (Lo so che ci sono sempre quel saggetto da finire e quel pensoso editoriale da limare, ma anche rileggersi, a volte, non farebbe male. Sempre per quella faccenda del lessico e soprattutto per quella del suono. Eppure gli amati dettati dovrebbero avervi allenati all’ascolto, cari Profs. Le stonature sono dietro l’angolo e i vostri studenti fanno presto a recapitarvi un bel ciaone.) Questi momenti costituirebbero per gli allievi un incentivo a fare del proprio meglio e un’occasione per abituarsi ad affrontare delle prove, pur senza drammatizzarle, mentre gli insegnanti avrebbero finalmente dei chiari obiettivi comuni a tutte le scuole a cui finalizzare una parte significativa del loro lavoro (3 righe, 7 verbi, 5 infiniti, de gustibus…).

(Sono almeno trent’anni che Cacciari vi dice che lui gli appelli li firma anche, ma voi li dovete almeno rileggere. E voi niente, sempre la stessa storia! Sgrunt!)

P.S.:

Ovviamente, si è fatto un po’ per scherzare. Tuttavia, sotto la polvere dell’appello ammuffito – ignorante di cosa sia già accaduto e stia accadendo nelle società contemporanee, apparentemente  inconsapevole di sconvolgimenti antropologici epocali – si staglia il profilo di un’Italietta smunta, sbiadita, allergica a qualunque progresso. Che torna sempre indietro – si tratti del proporzionale o del dettato ortografico – senza nemmeno la scusa di dover prender la rincorsa. 

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L’Amaca di Michele Serra, sospesa tra il passato e il futuro

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Le mani dei soccorritori, la marcia notturna sugli sci.

Come tutti, anche Michele Serra porta addosso i segni di una storia che ci ha condotti dinanzi all’essenza di tutto: “c’è un ritorno all’osso”, scrive, “alla materia bruta di cui sono fatte vita e morte, e la tecnologia torna ad essere un accessorio”.

Eccoci, di nuovo lì, al solito posto. Dopo poche righe, nell’Amaca in prima pagina, spunta una ragazza di quell’Abruzzo innevato: si lamenta per l’assenza di campo. Il telefonino non prende. Si capisce che per Serra, il contrario di quell’eroismo d’altri tempi sono i tempi odierni fatti di connessioni e di clic, di condivisioni e cinguettii digitali.

Eppure, è sullo schermo di un cellulare che ieri pomeriggio ho visto la faccia di quel vigile incredulo davanti al bambino che stava aiutando a riemergere da quel gelido abisso; l’immagine, quel viso barbuto, più vicina alla felicità che mi sia capitato di vedere da molto tempo a questa parte.

Gli sci, le mani, le pale e le ruspe (quelle buone, mica quelle metaforiche degli sciacalli coi doposci). Ma anche gli smartphone e Facebook. Tutto sta insieme a tutto, quello che c’è sempre stato con quello che è appena arrivato e dobbiamo ancora imparare a digerire. Siamo anche lì dentro, Michele Serra, ci possiamo riconoscere anche nei gesti nuovi. Siamo nei gesti stupidi così come nei gesti eroici. Il vigile del fuoco che si cala nella pancia delle valanghe domani mattina getterà alle ortiche venti minuti solo per scegliere il filtro giusto per una foto su Instagram, e la ragazza che non trovava campo potrà andare a trovare il bambino superstite all’ospedale di Pescara.

L’Amaca online verrà letta e meditata, se ci sarà campo verrà condivisa e arriverà più lontano.

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#BastaunNo, fermiamo sul nascere un nuovo dibattito sulla Sinistra

#BastaunNo, davvero.

Siete ancora in tempo.

Stoppate il dibattito sulla sinistra, vi prego.

Poi lo sapete che non riuscite a fermarvi, che vi fate prendere la mano. Vi parte quel gran rimescolo di ricordi, rimorsi e rimpianti e va a finire che davanti agli occhi non vi resta che quella grande nebbia avvolgente.

Michele Serra con il suo articolo di oggi ha evocato il grande sabba delle spocchie e delle superiorità morali. Uno tsunami di opinioni – le stesse già espresse in altre 56 occasioni, ristampe delle ristampe delle ristampe – sta ora per abbattersi sulla nazione. Un profluvio di brillanti allusioni, di maliziose insinuazioni e di orgogliose rivendicazioni di appartenenza. Il tutto ancora una volta meravigliosamente inutile, mentre il Paese rivolge il suo sguardo sempre più spesso verso visioni del mondo inedite e – ahinoi – basiche.

Per una marea di italiani a cui prude la matita copiativa

  • siamo invasi dai migranti (va da sé: bisogna cacciare i migranti)
  • la politica è il regno dei ladri
  • l’Europa è una merda
  • e comunque decide tutto qualche banca d’affari americana

E questi che fanno?

Dibattono della Sinistra, se debba o non debba accogliere Renzi tra le sue fila. Sminuzzano il 60% del 4 dicembre chiedendosi se fosse un No alle riforme, un No al Pd, un No a Renzi, un No alla seconda repubblica nel suo complesso, un No al Sì di Pisapia. Disquisiscono fondamentalmente di ombelichi, i loro.

Serra & Co: anziani che bisticciano – cardigan di lana beige,  mani intrecciate dietro la schiena – davanti al cantiere del nostro sciagurato domani.

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6 ragioni abbastanza originali per votare Sì il 4 dicembre

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Domenica 4 dicembre voterò convintamente “sì”.

Nel corso di questa estenuante campagna elettorale non ho mai cambiato idea, ma ho cercato di mettere in crisi il più possibile la mia posizione. Ho letto i libri di Zagrebelsky, di Onida e di Pertici: tutti e tre paladini del No. Mentana, Gruber, Floris, Semprini, Berlinguer, Vespa: ho dato. Quando ho cominciato ad addormentarmi nonostante gli ospiti dei dibattiti stessero litigando furiosamente, ho capito che ne sapevo abbastanza.

Credo che le differenti posizioni emerse in questi mesi siano tutte più o meno rispettabili: c’è chi ritiene salvifica la riforma costituzionale e chi la reputa una sciagura; tra gli equidistanti c’è chi ritiene brutta la Carta vigente e pessima quella che potrebbe nascere, ma c’è anche chi giudica ininfluenti per i destini dell’Italia entrambe le versioni, la vecchia e la nuova, perché i problemi starebbero altrove.

Quelle che seguono sono pertanto alcune considerazioni a margine, che tentano fondamentalmente di non ripetere troppo il già detto. Si tratta di pensieri che non fanno finta si tratti soltanto di faccende costituzionali, ma hanno ben chiaro come oggetto del contendere – tutto politico – siano pure l’alba del 5 dicembre e gli anni che ci aspettano.

Pensiero numero uno: la metafora della foresta

Ogni fautore del No ha sventolato i suoi spauracchi. Onida e Zagrebelsky non temono affatto gli stessi effetti nefasti derivanti dalla nuova Costituzione. Entrambi non sembrano dare tutto questo peso all’immunità parlamentare dei Senatori additata invece dal manettaro Travaglio. Alcuni invitano a considerare i rischi del combinato disposto, altri ne fanno una questione di forma (il nuovo testo sarebbe scritto in fretta e male). C’è chi vede derive autoritarie e chi premette con forza che derive autoritarie all’orizzonte non ce ne sono.

Se mi dicono che una buia foresta nordica è pericolosa, io mi spavento e arresto i miei passi. Qualcuno mi dice che è un ambiente gelido. Qualcun altro accenna a belve feroci pronte a sbranarmi. Un terzo consigliere non sa nulla di bestie e mi mette in guardia da certe bacche velenose. Arriva un tizio che mi sconsiglia di avventurarmi perché è in arrivo una tempesta, ma in compenso non ha notizia di frutti mortiferi. Insomma, continuo a considerare quel luogo un inferno oppure provo a proseguire con le precauzioni del caso contro gelo, animali, bacche, gocce di pioggia e altre cose che capitano normalmente nelle foreste?

Pensiero numero due: Maria Elena Boschi

Ormai ne ho fatto una ragione di approfondimento quotidiano, di studio, di analisi. Una piccola ossessione. Io devo capire perché la Ministra delle Riforme sarebbe inadeguata a ricoprire quel ruolo. Inadeguata, anche se quelli più tosti preferiscono “unfit”. Da subito, hanno cominciato a dirlo. Niente a che vedere con questa legge di riforma che ha preso il nome della giovane esponente del Pd: fior di Costituzionalisti  criticano aspramente la nuova Costituzione, ma molti loro colleghi altrettanto titolati la promuovono a pieni voti. Uno dei ritornelli più cantati in questa campagna elettorale è stato l’evergreen “entrare nel merito”. E io, nel merito fino al collo, non ho trovato uno straccetto di prova per l’inadeguatezza presunta della Ministra. Uno strafalcione, un qui pro quo, un capire fischi per fiaschi: nulla, zero pezze d’appoggio per la tesi “Boschi-unfit”, ma il paese sembra unanime: quella donna siede sulla poltrona sbagliata. In un paese (anche) di femministe agguerrite, la Boschi può diventare “la fatina delle riforme” senza che si levi una voce critica. Zero, inadeguata e priva di esperienza, punto. In un paese che in quel ruolo ha visto operare un dentista che se vede un’africana pensa subito (e solo) alle banane.

Posso immaginare un coro di voci pronte a smentirmi: c’è la frase sui Partigiani (che poi basta guardare il video…), c’è la Banca Etruria… Nulla che abbia qualcosa a che vedere con le competenze in materia di riforme, quelle che fin da subito han fatto dire ad una (ahimè) maggioranza di italiani che Maria Elena Boschi non era all’altezza.

Ecco, l’improbabile vittoria del Sì avrebbe di buono la sconfitta di un pregiudizio come quello.

Pensiero numero tre: la scuola

L’anno scolastico 2006-2007 si aprì con un annuncio dell’allora Ministro Fioroni (esponente della Margherita, oggi Pd), ai tempi del secondo governo Prodi. “Sarà un ministero-ponte, e io sarò un ministro-ponte”. Come a dire: “mi han messo qui e so che sarà per poco. Sappiate che non intendo rompervi le scatole”. Non accadde nulla e durò quel battito di ciglia, e nessuno nel mondo della scuola ha un ricordo cattivo di quell’esperienza. Nessuno ha nemmeno un ricordo qualsiasi, però. In buona sostanza, fu il contrario del renzismo furibondo e sgraziato applicato alla scuola. Dal 2014 più di centomila assunzioni, una gran bella botta al precariato storico (quella auspicata da tutti), un’iniezione di denari come non accadeva da decenni. Parole d’ordine roboanti, confusione ma anche idee e non solo idee confuse. Bandi sull’innovazione e bandi sull’inclusione. Una comunicazione sbagliata, un po’ di supponenza, chi lo può negare, ma soprattutto soldi, soldi, soldi. Piovuti sopra la scuola italiana che li chiedeva senza risposte da tanto, troppo tempo.

Vincerà il no e tornerà un ministro-ponte. Sarà comunque meglio di un Ministro dell’Istruzione grillino (ve lo immaginate?), che arriverà comunque a breve. Sarà quello dopo.

Pensiero numero quattro: la laicità

Il Governo di cui ci stiamo per liberare è il più laico della storia repubblicana. Vi viene da ridere, vero? Forse è perché non ci avete mai pensato. Il merito va equamente diviso con il Papato meno ingombrante e intrusivo per la vita civile della nazione, lo so. Ma tant’è. Le unioni civili sono lì a testimoniare questa verità: il “cattolico adulto” Prodi, con i suoi governi molto rimpianti, è riuscito solamente a dare un sacco di nomi – pure brutti – ad un diritto sacrosanto. La sinistra che più sinistra non si può ha definito la Cirinnà una legge che discrimina. Ottimo, intanto mille coppie di omosessuali si sono potute unire civilmente e la lingua italiana, libera dal capestro di commi e codicilli, ha fatto il resto: viva gli sposi!

Pensiero numero cinque: i migranti

Poche le critiche all’operato dell’esecutivo in materia di accoglienza. Il problema è enorme: imprevedibili e inquietanti sono i suoi sviluppi. Le istituzioni centrali, tuttavia, hanno gestito l’emergenza e in alcuni casi si sono distinte per slanci umanitari non certo scontati (…lo stesso non si può dire di moltissimi comuni). Abbiamo soccorso i vivi e anche recuperato i cadaveri dei morti. Di tanti morti. Era scontato? No, non lo era. Vent’anni fa, in epoca pre-crisi (i recuperi in mare aperto costano), il primo governo Prodi lasciò sul fondo del Mediterraneo i fantasmi di Portopalo, nonostante l’accorato appello di tutti i nostri premi Nobel.

Immaginate, quando ai comandi ci sarà un governo leghista o quando sul recupero di una nave di disperati si pronuncerà il web.

Pensiero numero sei: la lista

Mi sono allontanato dalla carta costituzionale da modificare o non modificare. Ci torno per l’ultima considerazione. Gira in rete quel meme, quella foto che campeggia sulla bacheca di un italiano su due. Ci son due colonne, il gioco è semplice: da una parte i Costituenti del ’46, dall’altra la banda di Matteo Renzi. Calamandrei contro Boschi, Croce contro Del Rio, Di Vittorio contro Scalfarotto, La Pira contro il Ministro Martina. Sfida impari, no? Volete mettere? Qualcuno ha risposto alla provocazione invitando ad immaginare una nuova colonna inserita a sinistra, dove iscrivere i nomi di Mazzini, Garibaldi, Cavour, ecc. Ci sarà sempre qualcuno di più grande e autorevole, qualcuno che sarà per forza venuto prima. Io provo invece ad immaginare una colonna inserita a destra, con i nomi tutti nuovi da inserire a partire da lunedì 5 dicembre 2016. Sono sicuro che molti di voi la stileranno in un lampo, con ottimismo. Io c’ho provato, mi sono intristito e ho cominciato a scrivere questo post.

 

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Il mondo salvato da Bebe Vio

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Piccola noterella divergente.

Bebe Vio alla Casa Bianca, una notizia di cui si è parlato molto. Come? Così:

  • un 96% di italiani fieri e toccati, quasi commossi;
  • un 2% (fisiologico) di idioti;
  • un 2% di speculatori (“è un gesto strumentale, la campionessa vale, ma nella fattispecie serve solo a raccattare in vista del referendum”).

Poteva andare peggio.

La notizia a mio parere era un’altra. Se Renzi avesse cercato la storia di uno sportivo paralimpico emancipatosi da un passato di dolore, voltato clamorosamente in gioia di vivere come fosse un calzino, avrebbe potuto pescare nel mazzo dei tanti atleti esemplari del Team Italia reduce da Rio. Nessuno avrebbe avuto nulla in contrario se al tavolo di Obama si fosse seduto a banchettare Alex Zanardi. Quella casella – chiedo scusa per la semplificazione – sarebbe stata comunque degnamente riempita.

Bebe Vio, invece, è soprattutto una ragazza. Una ragazza che, se uno non sapesse già diplomata e sul punto di intraprendere una carriera lavorativa, male non starebbe dentro la definizione di ragazzina. Sarà l’aria sbarazzina, sarà per quel sorriso che – en garde – è come una stoccata vincente. Una giovane italiana sul punto di chiudere il cartone dell’adolescenza, prima di dimettersi da quello sporco lavoro fatto di scelte ed errori, sbalzi d’umore e sbalzi d’amore, pianti e brufoli, eroi di cartone, interrogazioni di diritto, selfie e ricerche disperate di identità smarrite. Una tipologia di persona di cui tutti conosciamo l’esistenza, ma che tutti lasciamo spesso lì parcheggiata, in attesa di compiersi, né carne né pesce.

Metti una sera a cena da Obama e invece, per una volta, no.

Premi Oscar, donne che portano sulle spalle responsabilità enormi e hanno meriti universalmente riconosciuti, leader di potenze mondiali e una ragazzina che ricorda a tutti come la vita sia sostanzialmente una figata.

Un punto di vista indispensabile, direttamente da un pianeta misconosciuto.

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I compiti per le vacanze e il papà Ikea

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Ritorna – c’era d’aspettarselo – il dibattito sui compiti delle vacanze/compiti per casa. Sterile come pochi, questa volta finisce in prima pagina grazie alla lettera di un padre che spiega ai docenti del figlio come quest’ultimo risulterà privo di consegne domestiche svolte, alla ripresa settembrina delle lezioni. Mi sforzo di pensare che i colleghi capitati in sorte al giovane Mattia siano insegnanti della peggior specie e che i compiti in questione fossero esercitazioni sterili, noiose ripetizioni di meccanismi già rodati, applicazione di schemi acquisiti da tempo. Tuttavia, i compiti non sono sempre e soltanto quello che “la gente” pensa che siano. La parola compiti può significare tante diversissime cose: tutte faticose, siamo d’accordo, tutte implicanti un sacrificio che mai assoceremmo al concetto di vacanza. Mai mi sono illuso che possano essere divertenti, i compiti. Utili, molto spesso sì.

I compiti devono essere sfidanti. Devono stanarti, venirti a cercare nella tua quiete intellettuale per colpirti con un sasso. Un buon esempio? La scrivania che il padre finito sui giornali dice di aver costruito insieme al figlio, in sostituzione dei compiti. Esattamente così, sono i compiti.

C’era una scatola di cartone spigolosa che a fatica era entrata in macchina. Era piena di tavolette di legno e di un numero imprecisato di viti e altri pezzetti di plastica. Era accompagnata da un unico foglietto di istruzioni per niente chiaro, reticente su tanti indispensabili passaggi. Una sfida. Accettata e alla fine magari vinta, anche se a voler esser puntigliosi quel cassetto proprio dritto dritto non è. (Daddy, letterina all’Ikea?).

O popolo che numeroso ti sei schierato con il coraggioso genitore, sappi che i compiti non sono sempre una maledizione. Alcuni sono molto meglio di montare una scrivania. I migliori, per esempio, escludono addirittura la partecipazione attiva dei familiari. Proprio non la rendono possibile, sono strutturati affinché la farina provenga tutta dal sacco giusto. Li auguro a tutti i papà, regalano un sacco di tempo libero e permettono, che so…, di montare (senza i figli) una libreria in mogano.

A proposito, il buon Mattia non ha nemmeno letto un libro quest’estate? C’era sicuramente qualche indicazione in proposito, tra i suoi compiti delle vacanze. La lettera non fa cenno a buone letture, si parla di biciclette, campeggi, gestione della casa (non hanno pedalato, forse, i bimbi in regola con la compitazione? Non hanno attraversato boschi e piantato tende? Non lavano i piatti? Non stendono calzini?). Durante l’estate, sul loro blog delle vacanze, i miei alunni mi hanno giorno per giorno raccontato avventure, bagni, viaggi, escursioni, partite di questo e di quello, sogni, ambizioni… Mi hanno raccontato quella vita che stanno giorno per giorno scoprendo anche, come è giusto, da soli. Sostenuti ovviamente da mamme e papà, ma senza che di quelle giovani vite si sentano artefici soltanto perché tengono in mano le istruzioni, in svedese, della libreria da montare.

P.S.

Pochi hanno notato questo passaggio nella lettera del babbo di Mattia. “Diversi docenti, psicologi e avvocati condividono i mio pensiero…”. Avvocati??? E cosa diavolo c’entrano gli avvocati? Che ne sa un avvocato di compiti per le vacanze? Che ne sa più di un panettiere, di un architetto, di un disoccupato?

Evidentemente, si tratta di una nemmeno troppo velata minaccia.

Ebbene sì, il papà conosce un principe del foro che lo aiuta con il trapano a montare le scrivanie.

P.S. 2

La lettera che il papà ha recapitato ai docenti del figlio è scritta a mano, in bella grafia.

Lungi da me ogni tecnoestremismo, ma non sarà il caso di regalare a Mattia un pc economico con una stampante? Magari i suoi insegnanti, passate le vacanze e caduto il divieto, voglion darci dentro con classi virtuali, lezioni capovolte, episodi di apprendimento situato, raffiche di link… La vita di Mattia è proprio finita, tocca rassegnarsi.

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