Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

Riddando come pazzi in vetta ai roccioni

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Antonia Pozzi è morta il 3 dicembre 1938, suicida, a 26 anni. Sarebbe diventata il nostro poeta più grande. Per me lo è stata comunque.

Da ragazza  ha scritto versi come questi.

 

Questa notte è passato l’autunno:

l’accompagnava un’orchestrina arguta

di pioggia e folatelle e gli gemeva

una ballata, carezzosamente.

Tutto il corteo ha danzato sopra i tegoli

e zampettato dentro la grondaia

fin dopo il tocco; poi la brigatella

si è incamminata verso la montagna,

col suo fulvo signore. E tutta notte

hanno gozzovigliato in mezzo ai boschi,

i gaietti compari. In lunghe file,

hanno scalato i dossi più audaci,

hanno riddato come pazzi in vetta

ai roccioni più aspri. Verso l’alba,

si son scagliati in basso a precipizio,

scivolando sul capo dei castani,

investendo a rovina le betulle,

lacerando tra i ciuffi di robinie

le tuniche dorate, abbandonando

i drappeggi di nebbia in mezzo ai rovi.

Stamane, di buon’ora, quando il sole

ha profilato d’oro le montagne,

si sono dileguati. Ma sul dorso

d’ogni boscaglia, son rimaste tracce

del festino notturno: guizzi gialli,

guizzi rossastri, appesi ad ogni ramo

come stelle filanti; manciatelle

di ruggine nel folto del fogliame,

come pugni sfacciati di coriandoli;

tazzettine di colchici, smarrite

dalle fate nei prati, per la fretta;

e in noi, l’eco affiochita delle nenie

frusciate dalla pioggia, nella notte;

in noi una bontà dimenticata

– tenerezza calduccia di bambino –

in noi un abbandono senza nome

– desiderio di brace e di carezze –

 

Antonia Pozzi, 30 settembre 1929

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7 cose su Il nome del figlio

Ho visto Il nome del figlio. Dopo una settimana ho rivisto Il nome del figlio. Ora, forse, posso mettere a verbale due o tre cose che so di lui e della sua autrice.

  • Per prima cosa Il nome del figlio è (questo verbo ha vinto le primarie sbaragliando la concorrenza di “sembra”, “somiglia a”, “ricorda”) un film di Scola. Scorrono i titoli di coda e in quella casa ti ci muoveresti non dico con disinvoltura, ma quasi. Sapresti andare in bagno, andare a chiedere il curry ai vicini, affacciarti sul lato della ferrovia. Quella casa è un vero e proprio personaggio, probabilmente uno dei più complessi da gestire, davanti alla macchina da presa.
  • Francesca Archibugi ancora una volta dimostra di saper dirigere bambini e ragazzi come nessun altro. Capita che ottimi film facciano naufragio per colpa di adolescenti male ammaestrati. Archibugi sa scovare invece facce bimbesche più vere del vero. Ad esempio: da dove è uscita Scintilla, che porta il nome di una staffetta partigiana e una staffetta partigiana ricorda anche nei tratti del viso? (E a me ha ricordato pure Antonia Pozzi, ma quelle son p.d.r.: “perversioni del redattore”)
  • Ne Il nome del figlio come negli altri film della regista i personaggi cantano. In un modo o nell’altro, o prima o dopo, cantano sempre. Io non ho nulla in contrario e lascio fare. Se serve, do pure una mano. Una voce, pardon. Nelle visioni casalinghe, s’intende.
  • Nelle storie raccontate da Francesca Archibugi ci sono comportamenti mostruosi, modi di essere spigolosi, personalità ferite e traballanti; ognuno soffre la sua ombra e nessuno è privo di macchie d’unto sull’anima, più o meno lavabili. L’autrice, tuttavia, si rivela fortemente innocentista. Condanna le colpe e grazia il colpevole, guardato con indulgenza in quanto essere umano. A parte il personaggio interpretato da Guia Soncini, ça va sans dire, non ci sono veri cattivi. È una lezione, questa, che dal cinema di Francesca Archibugi cerco di trasferire nel mio mestiere di insegnante. Si fanno grosse cretinate, ma non esistono cretini. La realtà confuta ogni giorno la teoria, ma bisognerà pur credere in qualcosa.
  • Francesca Archibugi sorvola Roma da dio. In questo film va oltre, e sorvola anche una zuppa di broccoli.
  • I film della regista de Il nome del figlio traboccano di libri. Citati nei dialoghi dai personaggi, letti dalla voce fuori campo, appoggiati su un divano o dispersi in una borsetta tra un assorbente e un mazzo di chiavi.
  • I film di Francesca Archibugi sono scritti molto meglio di tanti libri. La preghiera di Siddharta ne L’albero delle pere, il discorso sull’amore e sulle lampadine pronunciato da Giovanna Mezzogiorno in Lezioni di Volo. Fino alla telefonata di Valeria Golino alla madre, nella pellicola ora nelle sale.

Ce ne sarebbero altri, di pallini. Ma questa è solo una piccola pozzanghera, mica i “Cahiers du cinéma”.

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Blu, una poesia…

 

BLU

 

A sbrissin i vistîts lizêrs

sbregâts, dismembrâts

de aghe sglonfe di otubar

    La tô ultime cjase:

    ramaçs secs

    e alighis di roie

e un cûr sul cuel

e un e cuarde ator dal cuel

e vergulis blu

i toi ultins vistîts lizêrs

    Un cuarp pûr

    sporcjât dal flât di chei oms

    che no domandavin nancje il to non

    La ultime olme

    des lôr scarpis pesantis

    sul to cûr

                 e vergulis blu

                        e lavris blu

                 e muse cence voi

                 e aghe, aghe

                 i toi ultins vistîts lizêrs.

 

Lucia Gazzino, Babel. Oms, feminis e cantonîrs, La Vita Felice.

 

 

BLU*

Scivolano gli abiti leggeri / strappati, smembrati / dall’acqua gonfia di ottobre / Rami secchi /alghe di torrente / la tua ultima casa / un cuore al collo un laccio al collo / e lividi blu i tuoi ultimi / vestiti leggeri / un corpo puro/ lordato da uomini /che non chiedevano / neppure un nome / L’ultima impronta / delle loro scarpe pesanti / sul tuo cuore / e lividi blu / e labbra blu / e viso senz’occhi / e acqua, acqua / i tuoi ultimi vestiti leggeri

 

 

Udine, 11 Ottobre 2004. Una prostituta è trovata strangolata ed affogata nella roggia fuori città

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Avere gli anni di una carezza, di un pianto leggero

La sera in cui per la prima volta ho visto Federico Tavan ero seduto in quarta fila. Uno scrittore di fama (prima che si riciclasse come sabotatore di cantieri…) e un grande fotografo stavano presentando un volume realizzato a quattro mani”. Spiegavano il perché di quell’impresa, la natura del loro rapporto, le dinamiche di una fruttuosa collaborazione. Spiegavano, ma nessuno poteva ascoltare. Tavan, infatti, camminava inquieto in fondo alla sala. Parlava a voce alta, infervorato, teatrale, imprigionato da una vitalità ingestibile, travolgente. Io non sapevo chi fosse, quell’uomo, e ovviamente mi sembrava strano che nessuno intervenisse censurandolo, invitandolo ad uscire. Gli organizzatori di quell’evento, ad esempio. Niente, tutti zitti con gli occhi rivolti ad uno scrittore muto e gli orecchi ricolmi delle parole incomprensibili di un matto.

Poi ho capito che quell’uomo era un poeta, uno dei più grandi. E che tutte quelle persone, silenziose e rispettose, conoscevano i suoi versi.

 

No stéi domandâme ce tanç ans che ài

 

Ài i ans

de Pasolini e Leopardi

del passero solitario

e de Silvia

dei fugulins

ch’i no clarìs pì

al cjant dei crics.

Ài i ans

de un nin

che la mestra

à trat davour la lavagna

parceche al era

cjatif e brut.

Ài i ans

de un Jesu Crist

ch’a no’l puarta

nissun lare

in paradis

de una carecja

de un vaî sutil

de un acuilon

sbregât dal vint.

Ài i ans

di una riduda

de un gjat

pecjacât

dai compagns de zouc

d’un ospedâl

a catordes ans

e d’una mare

ch’a resist

de un par cui nasce

al éis comunque biel.

 

[Non chiedetemi quanti anni ho. Ho gli anni di Pasolini e di Leopardi, del passero solitario e di Silvia, delle lucciole che non rischiarano più il canto dei grilli. Ho gli anni di un bambino che la maestra ha cacciato dietro la lavagna perché era brutto e cattivo. Ho gli anni di un Gesù Cristo che non porta nessun ladro con sé in paradiso, di una carezza, di un pianto leggero, di un aquilone strappato dal vento. Ho gli anni di un sorriso, di un gatto preso a calci dai compagni di gioco, di un ospedale a quattordici anni e di una madre che resiste, di uno per cui nascere è comunque bello.]

 

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Grido (Terza lezione su Antonia Pozzi)

Pozzi

Oggi Vito Mancuso su “Repubblica” dice di scrivere “Dio” con la maiuscola per riservare un piccolo onore “all’idea del principio di tutte le cose”. Antonia Pozzi – nel 1932, ventenne – sembra condividere, salvo subito concentrarsi sulle “cose”. Il vero problema, le cose. Il vero nocciolo. Più vere di Dio, più sguscianti della sua idea creatrice. Il vero banco di prova per la sua vita spezzata.

Sfugge – prima non c’è/poi c’è – anche la “i” aggiunta nel manoscritto alla parola accecare.

E che dire di quei due “non” al secondo e al terzo verso. Sembrano due “nn”, come in una crasi da sms. Come per un’ansia.

Adesso rileggete bene. Ad alta voce. Poi pensate forte all’ultima cosa viva che vi è sfuggita. Mano, bocca, sguardo, abbraccio, tenerezza, qualunque fosse.  

Le lezioni precedenti (1, 2)

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Il giorno che la mia poetessa preferita ha deciso di farla finita, settant’anni fa

«Corre una ragazza in bicicletta, ai bordi della strada: è un giorno d’inizio dicembre, uno di quelli in cui il gelo fa battere i denti e andare presto a casa, a bere qualcosa di caldo accanto alla stufa, ed è un accidentato percorso per campagne nude, brumose. Esce dalla città verso Chiaravalle, con un unico volo della bicicletta, senza sentire più i piedi sopra i pedali, senza poter muovere le dita dal manubrio, andando dove la città si perde, in uno slancio di ponti e di viali, con una meta in cuore che coincide con un solo, infinito, desiderio di pace.

Corre ma è sfinita, mentre le automobili la affiancano e la superano con un ironico strombazzare, i capelli volano attorno al viso magro, spiritato, velato dal vento. Il paltò azzurro si confonde nella nebbia. Il suo fiato produce una corona di nuvolette in quel grigio perla dell’aria come sbiancata. Sbanda leggermente nell’ansia della corsa, poi riprende il controllo. Gli occhi che s’imbevono d’azzurro, spalancati sul mondo, hanno quel giorno un riflesso terribile di durezza. Se qualcuno l’avesse guardata in volto, l’avrebbe fermata e raccolta. Così non è stato. Tra venti gironi è Natale: gli addobbi sono già stati preparati, qualche alberello decorato sui giardini e sui balconi annuncia la festa».

 

Alessandra Cenni, In riva alla vita. Storia di Antonia Pozzi poetessa

 

3 DICEMBRE

All’ultimo tumulto dei binari
hai la tua pace, dove la città
in un volo di ponti e di viali
si getta nella campagna
e chi passa non sa
di te come tu non sai
degli echi delle cacce che ti sfiorano.

Pace forse è davvero la tua
e gli occhi che noi richiudemmo
per sempre ora riaperti
stupiscono
che ancora per noi
tu muoia un poco ogni anno
in questo giorno.

 

Vittorio Sereni, 1941

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Tenerezza calduccia di bambino (Seconda lezione su Antonia Pozzi)

Nel 1929 Antonia Pozzi aveva 17 anni e una fantasia infinita. Giocava le parole, e ne faceva poesia come a quell’età si può saltare con la corda. Una notte ha immaginato di veder (di ascoltar) passare l’autunno, ne è nato un testo – il titolo è Fantasia settembrina – psichedelico prima della psichedelia. Parlano da soli, i versi, e non è nemmeno così importante rintracciare particolari trame di senso. Ci sono poesie da piluccare: parole acino, versi granello. Io comincio da manciatelle di ruggine e da tenerezza calduccia di bambino

 

 

Questa notte è passato l’autunno:

l’accompagnava un’orchestrina arguta

di pioggia e folatelle e gli gemeva

una ballata, carezzosamente.

Tutto il corteo ha danzato sopra i tegoli

e zampettato dentro la grondaia

fin dopo il tocco; poi la brigatella

si è incamminata verso la montagna,

col suo fulvo signore. E tutta notte

hanno gozzovigliato in mezzo ai boschi,

i gaietti compari. In lunghe file,

hanno scalato i dossi più audaci,

hanno riddato come pazzi in vetta

ai roccioni più aspri. Verso l’alba,

si son scagliati in basso a precipizio,

scivolando sul capo dei castani,

investendo a rovina le betulle,

lacerando tra i ciuffi di robinie

le tuniche dorate, abbandonando

i drappeggi di nebbia in mezzo ai rovi.

Stamane, di buon’ora, quando il sole

ha profilato d’oro le montagne,

si sono dileguati. Ma sul dorso

d’ogni boscaglia, son rimaste tracce

del festino notturno: guizzi gialli,

guizzi rossastri, appesi ad ogni ramo

come stelle filanti; manciatelle

di ruggine nel folto del fogliame,

come pugni sfacciati di coriandoli;

tazzettine di colchici, smarrite

dalle fate nei prati, per la fretta;

e in noi, l’eco affiochita delle nenie

frusciate dalla pioggia, nella notte;

in noi una bontà dimenticata

– tenerezza calduccia di bambino –

in noi un abbandono senza nome

– desiderio di brace e di carezze –

 

Antonia Pozzi, 30 settembre 1929

[per chi avesse perso la prima lezione]

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“…e la mia guancia sopra le tue vesti sarebbe dolce salvezza della vita”

L’uomo col blocchetto di appunti e la penna veloce qualche giorno fa mi ha chiesto della tesi di laurea. Quale argomento avrei preferito trattare, fosse dipeso da me? Boh, ho risposto. Andavo di fretta, avevo bisogno subito del titolo di studio e sono sceso a compromessi per quanto riguarda il titolo del mio lavoro. Quindi: boh, non c’ho davvero mai pensato.

Oggi sì. Il libro è già troppo consumato. Mi ha già seguito in troppe stanze, mi ha già atteso su troppi tavoli, comodini, pavimenti. Si è intrufolato nello zaino, ha tenuto compagnia ai quaderni dei ragazzi. Si è accomodato sui sedili della macchina. Un Elefante Garzanti, violato dal bollino rosso di uno sconto del 15% nelle librerie Feltrinelli. In copertina Il Sole di Giuseppe Pelizza da Volpedo.

Sì sì, è proprio amore, questo mio per Antonia Pozzi, poetessa disperata. Ventiseienne, suicida, dimenticata. Non so nemmeno scegliere una poesia da versare nella Pozzanghera.

Ma se dovessi cominciare oggi la mia tesi di laurea – l’incipit sarebbe lo stesso, ma stavolta sincero: “ci sono storie a cui si resta come impigliati” – parlerebbe di lei.

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