Ho visto Il nome del figlio. Dopo una settimana ho rivisto Il nome del figlio. Ora, forse, posso mettere a verbale due o tre cose che so di lui e della sua autrice.
- Per prima cosa Il nome del figlio è (questo verbo ha vinto le primarie sbaragliando la concorrenza di “sembra”, “somiglia a”, “ricorda”) un film di Scola. Scorrono i titoli di coda e in quella casa ti ci muoveresti non dico con disinvoltura, ma quasi. Sapresti andare in bagno, andare a chiedere il curry ai vicini, affacciarti sul lato della ferrovia. Quella casa è un vero e proprio personaggio, probabilmente uno dei più complessi da gestire, davanti alla macchina da presa.
- Francesca Archibugi ancora una volta dimostra di saper dirigere bambini e ragazzi come nessun altro. Capita che ottimi film facciano naufragio per colpa di adolescenti male ammaestrati. Archibugi sa scovare invece facce bimbesche più vere del vero. Ad esempio: da dove è uscita Scintilla, che porta il nome di una staffetta partigiana e una staffetta partigiana ricorda anche nei tratti del viso? (E a me ha ricordato pure Antonia Pozzi, ma quelle son p.d.r.: “perversioni del redattore”)
- Ne Il nome del figlio come negli altri film della regista i personaggi cantano. In un modo o nell’altro, o prima o dopo, cantano sempre. Io non ho nulla in contrario e lascio fare. Se serve, do pure una mano. Una voce, pardon. Nelle visioni casalinghe, s’intende.
- Nelle storie raccontate da Francesca Archibugi ci sono comportamenti mostruosi, modi di essere spigolosi, personalità ferite e traballanti; ognuno soffre la sua ombra e nessuno è privo di macchie d’unto sull’anima, più o meno lavabili. L’autrice, tuttavia, si rivela fortemente innocentista. Condanna le colpe e grazia il colpevole, guardato con indulgenza in quanto essere umano. A parte il personaggio interpretato da Guia Soncini, ça va sans dire, non ci sono veri cattivi. È una lezione, questa, che dal cinema di Francesca Archibugi cerco di trasferire nel mio mestiere di insegnante. Si fanno grosse cretinate, ma non esistono cretini. La realtà confuta ogni giorno la teoria, ma bisognerà pur credere in qualcosa.
- Francesca Archibugi sorvola Roma da dio. In questo film va oltre, e sorvola anche una zuppa di broccoli.
- I film della regista de Il nome del figlio traboccano di libri. Citati nei dialoghi dai personaggi, letti dalla voce fuori campo, appoggiati su un divano o dispersi in una borsetta tra un assorbente e un mazzo di chiavi.
- I film di Francesca Archibugi sono scritti molto meglio di tanti libri. La preghiera di Siddharta ne L’albero delle pere, il discorso sull’amore e sulle lampadine pronunciato da Giovanna Mezzogiorno in Lezioni di Volo. Fino alla telefonata di Valeria Golino alla madre, nella pellicola ora nelle sale.
Ce ne sarebbero altri, di pallini. Ma questa è solo una piccola pozzanghera, mica i “Cahiers du cinéma”.