Sono allergico a espressioni del tipo “se fossimo un paese civile…”…
Però.
Se fossimo un paese civile il Premier elogerebbe pubblicamente un lavoro come quello odierno di Gabriele Del Grande.
Sono allergico a espressioni del tipo “se fossimo un paese civile…”…
Però.
Se fossimo un paese civile il Premier elogerebbe pubblicamente un lavoro come quello odierno di Gabriele Del Grande.
«Ieri in classe i bambini erano pochi, e d’improvviso mi sembravano tutti più alti di qualche mese fa, quando li ho visti per la prima volta. Più alti e già un po’ più seri, indaffarati nelle loro cose, un castello, un foglio da colorare, pupazzi da animare. Gabriele giocava con tre dinosauri, papà, mamma e figlio, mi ha detto. Li strofinava tra loro, poi li faceva azzannare, uno cadeva riverso sul pavimento, gli altri lo prendevano a zampate, poi si baciavano tutti con quei musi e quei dentacci, si mettevano a letto: fanno la nanna perché sono tanto stanchi, diceva. È vero che non esistono più i dinosauri? Mi ha domandato dopo un poco. Si sono estinti, Gabriele. Estinti, vero? Significa che non ci sono più, Gabriele. Stanno in cielo con nonna, vero?
Ho immaginato un cielo pieno di tirannosauri e nonni morti, una vallata antica.
Martina teneva in braccio una bambola senza una gamba, la cullava e le cantava piano una ninna nanna. Non dorme, diceva, io sono una brava mamma ma lei non dorme. Non mangia nemmeno. Io la imbocco e lei sputa tutto. Ogni tanto le baciava la testa clava, e la bambola mandava un singulto di pile mezze scariche.
Coraggio, ho detto, adesso incrociate tutti le braccia sul banco e poggiateci sopra le testoline, chiudete gli occhi e dormite un poco. Ho abbassato gli avvolgibili mentre i bambini si sistemavano. Lo stanzone è calato in una penombra serena, traversata appena da sottili lame di luce, da una polvere dorata. Dopo pochi minuti erano altrove, nel sonno che pulisce.
Eppure anche dormendo qualcuno si muoveva un poco, e mugolava, e diceva no e di più e mamma. Nemmeno laggiù la vita li lasciava in pace, entrava nelle pieghe della mente e scuoteva quei piccoli corpi. Ognuno ha dentro di sé la propria dannazione, più cerchi di distanziarla più quella ti si aggrappa addosso. Bevi, viaggi, preghi, cambi nome, posto, pensieri, compagni ma lei non ti molla. E non cambia mai, è sempre la stessa da quando sei bambino, sempre intera e presente, come un cane in una gabbia che non si apre.
Solo Luca non dorme mai. Gli altri bambini stanno col capo reclinato tra le braccia, ma lui sta dritto, i palmi aperti poggiati sul banco, e lo sguardo grande e vuoto.
Ieri però non c’era, in questi ultimi giorni manca sempre più spesso. Avrei voluto dirgli sono pronta, tutto accadrà domani che è domenica. Ma forse lui già lo sa».
Marco Lodoli, Sorella, Einaudi
Bisognerebbe sussurrare a Pistorius che deve stringere i denti e tirare fuori la grinta e crederci fino in fondo. La cosa che consola è che sono tutte azioni che abbiamo imparato da lui.
C’è un film nelle sale che fa relativizzare lo schifo di queste ore, e allontana un po’ il disgusto per le parole volgari, per le ingerenze sui corpi umani e sui corpi sociali. C’è una frase, nel film. La dice una madre che ne ha passate di tutti i colori (perfino peggiori di quelle di chi ha la vita appesa alla “sensibilità” di Berlusconi…), ma che è rimasta immobile lì, davanti a ciò che le è accaduto e che ha fermato tutto. Per sempre.
«La peggior prigione è la morte del tuo bambino, da quella non si esce mai»
Ma il tempo, passa davvero? A scuola tornano i grembiulini e sono spesso neri. A scuola neri dovrebbe essere soltanto certi pennarelli, indispensabili per i contorni dei disegni, e i pentagoni (accerchiati dagli esagoni bianchi) nei palloni di cuoio. Torna il maestro unico e pazienza si tratti nel 90% dei casi di una maestra unica. Al maschile si vede che fa più effetto. È tornata la violenza negli stadi, è tornata a casa la stele di Axum. Negli Usa fa ancora la differenza se si è tornati – meglio se con qualche mutilazione fisica – dal Vietnam.
Intanto c’è chi teme il ritorno del ’68. “Quanti credono nel Sessantotto e quanti vedono del sesso in tutto?”, si domanda Caparezza, mentre Adriano Sofri scrive di temere di scoprirsi più sessantottenne che sessantottino. Intanto, su un muro della mia città una scritta clandestina mi pare un segno inequivocabile di questo tempo che si ostina a non passare. Un gesto-ossimoro, il capolavoro di una bomboletta confusa.
Daria Bignardi non si è fermata, e la lettera di Ingrid Betancourt l’ha letta tutta. Ne ha tratto queste paroline pulite e forti che vi offro come si offre un the che riscalda e ristora.
Ciascuno la propria tristezza
se la compra dove vuole –
anche in una bottega nera
austera
tra libri impolverati
che si liquidano a prezzi dimezzati –
libri inutili –
tutti i TRAGICI GRECI –
ma se il greco non lo sai
più –
mi sai dire perché li hai
comprati?
libri inutili –
POESIE PER I BAMBINI –
coi fantoccini
colorati –
ma se non hai
bambini
tu
mi sai dire perché li hai
comprati?
se non avrai dei bimbi mai
più
mi sai dire per chi
li hai
sciupati
i tuoi soldi
così?
Ciascuno la propria tristezza
se la compra dove vuole –
come vuole –
anche qui –
Antonia Pozzi, 12 maggio 1933
Ho giocato a pallone per mille pomeriggi coi calzoncini macchiati d’erba e non sapevo chi fosse Gigi Meroni. Che era già morto da vent’anni e adesso è già morto da 40.
Io Gigi Meroni l’ho scoperto grazie a Cesare Fiumi, il giornalista del “Corriere” che ha segnato la mia scrittura per un quinquennio, diciamo tra i 22 e i 27. Ho letteralmente adattato la tesi di laurea al ritmo di certi suoi periodi, di certi suoi giochi di parole. Ne ricordo uno, a proposito di un antico portiere quando era giovane e acerbo: “troppo lungo per fare il portiere, ma già troppo portiere per non esserlo a lungo”. Oppure, mi viene in mente l’incipit di un altro pezzo dolcissimo e folgorante: “ci sono storie a cui si resta come impigliati…”. Indovinate come inizia la mia tesi su Giuseppe Baretti, critico letterario e viaggiatore? Che vergogna…
Ma torniamo a Gigi Meroni. Devo parlarne all’alunno talentuoso, pazzo dribblomane. C’è sempre stato un alunno così, dentro ogni classe e ogni anno scolastico. Uno che guarda diffidente le fotocopie con la storia del numero 7 granata, ma poi dopo qualche giorno mi fa capire che c’è entrato, dentro quella favola. E magari mentre corre sul campetto e pensa al guizzo e alla veronica dice dentro di sé una telecronaca d’annata: Meroni, Meroni, Meroni. E il bello è che poi se è goal o non è goal non ha nessuna importanza. Il gioco è sempre fine a sé stesso, nei panni di Meroni.
«Gigi Meroni piace pensarlo gran provocatore per sempre, senza cambiare il bisogno di cambiare. Piace pensarlo in quella foto quotidiana, saltata fuori da un mazzo di istantanee, come una carta buona del suo poker, buona per andare a vedere quanto fosse coerente, normale, naturale, la vita di un eccentrico calciatore alla fine degli anni sessanta, quanto fosse una vita di quegli anni. Una vita qualsiasi e una morte qualsiasi, come una parabola che si spegne sullo sfondo di un paese in fermento».
C. Fiumi, Storie esemplari di piccoli eroi
C’è davvero una retorica per la quale certi gesti sarebbero soltanto retorici. Questa pagina (la scopro da Wittgenstein) se ne sbarazza allegramente.
Trovato su un blog il dialogo di cui al post precedente. Peccato sia incompleto, e manca il pezzo più importante. Comunque…
«Sei la persona per me in assoluto più importante».
«Magari adesso ti sembra così. Poi capita che queste persone più importanti si susseguono, si accendono e si spengono come lampadine. Una volta spegni tu, una volta si fulmina lei. Poi arriva una persona e resta accesa. Passano i giorni e resta sempre accesa».
No, senza il finale davvero non rende…
Troppo il tempo lasciato
a rincorrer presente e passato,
lascio il passo alla mia meraviglia
dal profumo di timo e lavanda.
E noi, e noi come edera
ci rincorriamo su un muro…
E noi, e noi a piantare radici nel tempo futuro…
E noi, e noi eterni nel tempo di noi…
No, non sono petali e mirto a fare
di me una regina
ma se tu custodissi per me
un pensiero e una casa
io sarei tua amante e tua custode.
Sono figlio di una camicia a quadretti sopra un paio di jeans consumati, con le tasche piene di chiodi.
Sono figlio di un grembiule da casalinga, fratello di un k-way in gore-tex riavvolto per entrare nel marsupio di una bicicletta da corsa.
Un giorno una maglia di lana con disegnato un paesaggio che ricordava Murnau mitt kirche di Kandinsky mi ha abbracciato forte dicendomi che sapevo ascoltare le persone. E soprattutto che non guardavo mai l’orologio mentre stavo accogliendo parole. Ancora oggi, la postina scorbutica che fa partire i miei pacchi e le mie buste ne indossa una molto simile, direi identica, fatta salva la disposizione dei colori, e ogni volta è un piccolo brivido.
Sono stato l’allievo di una camicetta di cui una mano sottile tormentava sempre l’ultimo bottone. Quella camicetta mi prestava tragedie greche dicendomi che sapevo capire l’animo umano, quella camicetta – anche lei – ha fatto sì che scegliessi il suo stesso mestiere e mi ha insegnato l’infatuazione per le cose belle.
Sono stato discepolo di un paio di leggerissimi pantaloni ciclamino decorati a pesci, sui quali poggiava il legno di una chitarra acustica.
Sono il Prof. di una quarantina di giacche a vento rosse, bandiere di una gloriosa società sportiva. Ognuna porta cucito all’interno un nome singolare, ma io le so riconoscere anche da fuori.
Dalla tasca di una tuta rossa una volta è caduto un foglietto dove avevo scritto 8 parole. Quella tuta ha percorso e ripercorso la sua strada per ore fino a ritrovarle intatte, sane e salve. Tutte 8.
Una camicia da boy scout mi ha insegnato che se possiedo una cosa e siamo in tre, in tre quella cosa dovrà essere divisa.
Molti di questi abiti ho perduto.
Da tempo prendo quello che non è di nessuno alla fine del precipizio del giorno.
Ho molte urgenze, che si accumulano come batuffoli grigi della polvere, intessuti di capelli e ritagli nel telaio degli angoli.
Ho un corpo smisurato che non potò mai vivere interamente.
Ho progetti di pentimento in continua elaborazione per renderli adattabili ad ogni occasione.
Ho una stanchezza e mi alleno a farne un richiamo che la mia frenesia possa riconoscere.
Ho poca preghiera esercitata da pochi pianti e molti privilegi.
Ho un cuore che molesto con pensieri camuffati da battiti.
Ho soglie sulle quali mi capita di stare in attesa.
Ho intimità sufficienti per dire come mi sento in questo preciso istante.
Ho idee di partenza portate come una coda.
Ho capelli che arrotolo in ciocche da quando sono bambina per restare bambina.
Ho sogni che costano poco e che sono i miei sogni più preziosi.
Ho un animale che vive appollaiato su di me che sono un albero.
Ho una difficoltà a pensarmi cresciuta percorrendo da sempre le stesse strade.
Ho un ventre che si contrae e spasima.
Ho una lingua per sentire e una per lavorare.
Ho un respiro che a volte trattengo come un ricordo.
Ho parole che raccolgo come fossero d’ordine, quando le trovo posso entrare e sentirmi piena di meraviglia.
Antonella Bukovaz
Il telecomando impazzito si è fermato davanti agli occhi lucidi di Marco Paolini che diceva addio a Luigi Meneghello. Gli prometteva che sarebbe salito di notte sull’altipiano. Che avrebbe cercato quell’unico ultimo lampione con la lampadina Edison. Che avrebbe tolto la fionda dalle tasche e sperato in una buona mira.
Che avrebbe rimesso al suo posto il Buio.
Cosa agita oggi le acque della pozzanghera?
Onore e gratitudine, in schiumose impreviste onde.
E-Bay, Skype, E-Mule. Difficile stare al passo. Capire cosa si sta usando, chi ci sta guadagnando. Adesso (sì, proprio ADESSO, lo so che voi le sapete da una vita, ‘ste cose…) scopro You Tube. E il marchingegno apparentemente più freddo e asettico subito cortocircuita con la materia calda dei miei ricordi. Quelli lontani vent’anni, quelli che arrivano da un tempo di cosce ammaccate e di ginocchia sbucciatissime. Perché c’è stato un tempo in cui io volevo fare come Manuel (anche se nella mia memoria suonava come Manolo) Negrete il 15 giugno 1986. Volevo, volevo tanto. Riuscirci, poi… quello era un altro discorso. Manolo Negrete, ma pensa tu.
(P.S.: i lettori sprovvisti di connessione adsl forse non potranno capire… Sorry, un giorno vi faccio un disegno…)
Gliel’avevo suggerito quasi per gioco uno degli ultimi giorni di scuola. Volevo sdrammatizzare un po’ il clima serioso creatosi attorno all’ultima fatica, quel colloquio pluridisciplinare che per la prima volta a Scuolamagia sarebbe stato scandito da una presentazione in PowerPoint. Angelina però mi ha preso sul serio, ha messo per un secondo e mezzo le mani sul viso e ha cliccato contemporaneamente sui due tastini. La freccetta del mouse è magicamente diventata una matita che nessuno ha più potuto fermare. Ha tracciato il profilo della frana del Vajont, ha indicato gli estremi confini della maledetta onda, ha percorso l’intero corso dello Yangtze sbarrandolo laddove è sorta la diga delle Tre Gole, ha indicato certi colori caldi in un quadro di Van Gogh.
Nel frattempo è finito un altro anno scolastico e sopra la pozzanghera – sull’altalena, tra il mio ieri, il mio oggi e il mio domani – giocano matti i pensieri.