Imago, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Ragazze davvero pronte alla vita

 

Non era male, l’idea di esser “pronti alla vita”. Ci si poteva quasi credere. Poi basta mezzo pomeriggio di strade milanesi in fiamme con il più prevedibile dibattito che ne potesse sorgere (infiltrazioni, manganelli, Alfano, figlidipapà, Genova, la Diaz, Bolzaneto, i cappucci, i servizidordine, Fedez, i tatuaggidiFedez, gli errori di grammatica di Fedez, arrestiamolitutti, arrestiamoFedez, il manifestante intervistato a TGcom24 che voleva fare “bordello”, la mamma di Baltimora, la mamma di Fedez, la mamma di quello che voleva fare bordello ma qualcuno ci pensa a quella povera mamma?, gli hashtag di Severgnini, le ragioni della protesta, la tipa in posa davanti alla macchina bruciata, quelli che “erano solo 500”, …) e tutto si ridimensiona, a cominciare proprio dai i sogni.

Non siam per niente pronti. Alla vita, s’intende.

Non è detto che non lo sia qualcun altro, però.

Come ad esempio le Skate Girls of Kabul fotografate da Jessica Fulford-Dobson, che con i loro colori sono riuscite a strapparmi dal nero dei cappucci e dal grigio delle parole, le nostre parole, in questo strambo primomaggio.

Nessun riassunto, ché si capisce tutto al volo. Quei visi sono più che sufficienti.

La prontezza alla vita, insomma, spiegata bene bene.

Per quando magari decidiamo di riprovarci.

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“La sua meraviglia era la mia protezione”

Eppure avrebbero dovuto colpirmi di più le fotografie, che sono meravigliosamente evocative, che giocano con la luce e di volta in volta la rincorrono, oppure le sfuggono. Avrebbero dovuto cercare i miei occhi e rapirli, individuare la mia buonacoscienza e prenderla a schiaffi. Tutto questo è successo, eccome se è successo, e l’effetto sta continuando anche 24 ore dopo essere uscito da quel salone che non potrebbe avere un nome più azzeccato: “degli Incanti”.

È successo, dicevo, ma è successo dopo.

Prima il mio sguardo e la mia attenzione si sono posati su quei fogli di carta giallognola, appesi alle pareti, in basso rispetto alle fotografie. Appiccicati alla bell’e meglio, come dei grandi post-it, e solcati da una matita tenera (4B?), una matita che sbava al contatto con la pelle della mano e che si corregge alla bisogna, scarabocchiando. La matita della fotografa Monika Bulaj. Brevi appunti, informazioni, annotazioni, a volte in stampatello, a volte in corsivo. Scritti di getto, chissà quando, a margine di ogni scatto e di quel che esso rappresenta. Con una calligrafia antica, o – meglio – senzatempo. In una lingua viva come poche ne ho incontrate, scaltra ma poetica, imprecisa sapendo di esserlo (“né” senz’accento, “Mediterraneo” con due “d”…).

Insomma: straordinaria.

Ho una nuova scrittrice di riferimento: peccato che faccia la fotografa.

 

(La mostra “NUR/LUCE Appunti afghani” di Monika Bulaj, davvero imperdibile, è a Trieste fino a fine settembre) 

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