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“Per capirmi è necessaria la curiosità di Ulisse”

Aveva ragione Samuele Bersani, nella canzone che ha dedicato a Enzo Baldoni. Una cosa che penso ogni anno, ad ogni scoccare di anniversario, riascoltandola nei giorni d’agosto in cui molti ricordano questa particolarissima figura di italiano: uno dei nostri, ma anche uno anni luce più avanti. Uno che aveva capito prima un sacco di cose, ma che sicuramente si sarebbe fermato in fondo alla strada per aspettarci e raccontarci tutto.

Aveva ragione a scegliere una sineddoche, Bersani. Una parte per dire il tutto. Gli occhiali al posto del loro proprietario. Due lenti e una montatura al posto di un omone e del suo nomeecognome.

Come quell’oggetto di uso così comune, anche Enzo Baldoni era estremamente delicato, fragile, sempre a rischio di smarrimento o rottura. Ma come gli occhiali vedeva, metteva a fuoco, scrutava dentro e guardava oltre.

Celebri aihimè sono soprattutto i suoi reportage dai luoghi di guerra, la cui fama – doppio ahimè – è stata purtroppo un frutto postumo.

Baldoni, però, vedeva lungo in un sacco di altre direzioni.

Oggi ho riletto questo pezzo sulla pedofilia. Una testimonianza diretta, intima e vera, senza reticenze, lucida. Niente di specialistico – Baldoni ne sapeva quanto ciascuno di noi che poco abbia studiato e approfondito – piuttosto un mattone concreto messo lì per tutti, generosamente, gratuitamente, perché era giusto e naturale fare così, perché non si sa mai possa servire, nella costruzione di una società migliore.

 

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Niccolò Fabi e la ragazza limone

Chissà se Niccolò Fabi l’ha vista, arrivando al centro commerciale che avrebbe ospitato il suo concerto, la ragazza vestita di giallo vicina a uno degli ingressi. Non era una ragazza vestita di giallo qualsiasi. Il suo lavoro, infatti, consisteva nel protendersi da un chiosco giallo a forma di limone, distribuendo dissetanti bicchieri – gialli, ça va sans dire – rigorosamente a base di quell’agrume.

Il cantautore era reduce con la sua band da un evento particolarissimo ai piedi delle Dolomiti: aveva cantato a 2000 metri sul livello del mare davanti ad un pubblico che si era guadagnato quella musica infilando i passi in un faticoso sentiero di montagna.

Abbia o non abbia intercettato con lo sguardo la ragazza-limone, dopo il terzo brano della sua performance Fabi ha confessato il suo imbarazzo: «Carissimi, ieri ho suonato in paradiso e qui, non posso fingere, è molto più difficile».

Mescolato tra i fan, assisteva al concerto un piccolo popolo di spettatori inconsapevoli, giunti sul posto per accaparrarsi qualche canottiera d’occasione. Le prime file, riservatissime, toccavano di diritto ai fedelissimi aficionados di certi corredi e di certe trapunte, possessori di una preziosa tessera-punti, del tutto ignari dell’opera omnia del cantautore romano.

Lungi da me fare della sociologia d’accatto, e lungi da me colpevolizzare il direttore del centro commerciale casualmente seduto a pochi metri dalla mia sedia – schiumante alle battute del cantautore («Ragazzi, io continuerei a suonare, ma qui ci sono delle regole piuttosto rigide…»). Ho solo intravisto in questo quadretto uno spaccato di quest’epoca fragile e ricca di contraddizioni. Con il Mecenate che invita nel suo palazzo l’Artista che forse più profondamente ha combattuto i suoi valori di riferimento.

 

Prima di partire si dovrebbe essere sicuri

di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri

Allora io propongo per non fare confusione

a chi ha meno di cinquant’anni

di spegnere adesso la televisione 

 

Non si può entrare in un negozio

e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo

se la vita è un’asta sempre aperta

anche i pensieri saranno in offerta

 

Ma le più lunghe passeggiate

le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo

non so dove l’ho comprate

di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta

perché l’argento sai si beve

ma l’oro si aspetta

 

Le canzoni, si sa, sanno scavalcare le contraddizioni, ha chiosato infine il filosofo con la chitarra. E la musica deve andare ovunque, adattandosi pure alla scenografia posticcia di un tempio consacrato allo shopping, proprio come fosse un anfiteatro dolomitico o il più blasonato dei teatri.

E chissà com’erano, i versi di Niccolò, assaporati da dentro il chiosco a forma di limone. E chissà come batteva, il cuore della ragazza vestita di giallo, ospite di un agrume il tempo necessario per pagarsi gli studi, prima di rimettersi a caccia dell’oro tanto aspettato. Giallo anche quello, in fondo.

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I diari della bicicletta

«Prof., guarda lassù, quello è il Monte…»

«No, Marcello, oggi non sono il Prof., oggi sono il Capitano…».

Proprio così, un capitano che non sa la strada, che ignora i dislivelli, le pendenze, la quantità dei tornanti. Non conosce i nomi delle montagne e fatica a distinguere dall’alto i paesi che frequenta abitualmente. Però oggi gira così, in questo giro assurdo di tarda estate, nato per gioco, quasi per caso, da un dialogo via Skype.

Alle nove in punto il mio gregario mi aspetta già in sella ai piedi del Gigante. Dico gregario con grande rispetto, pari almeno all’ironia con cui mi sono definito capitano. Marcello non è uno sportivo in senso stretto, non indossa divise e non porta con sé tessere federali. Corre se c’è da correre, pedala se c’è da pedalare. Calcia per gioco, scia per divertimento. Deve muoversi, glielo impone l’istinto, e lo sa bene chi come me tra pochi giorni tornerà a fargli da carceriere tra le mura di un’aula.

La salita scivola nel bosco morbida e costante. La strada è stretta, il fondo liscio e curato. Il capitano procede composto, sa che va dosata ogni goccia di energia. Il rapporto è agile, la postura di sfinge dipinge traiettorie regolari nemiche di ogni zig zag. Non si alza mai sui pedali e sopporta stoicamente i malesseri del soprassella. Il gregario sale invece brillante e inquieto, tra una mezza impennata e un improvviso cambio di direzione per schivare un grillo. Ha quattordici anni, lo scudiero, e nonostante il parere contrario espresso dal suo superiore, decide di rompere il silenzio dell’ascesa con gli mp3 stivati nel suo cellulare. Mi sembra di bestemmiare quel paesaggio, penso allo sguardo di altri ciclisti puristi incrociati nell’ascesa, ma in fondo anche quelle canzoni han sostenuto questa piccola impresa. Laura Pausini, Ligabue, Il cielo d’Irlanda della Mannoia, i Beatles e una versione a me sconosciuta – e ne conosco tante – dell’Alleluja di Leonard Cohen.

Usciti dal bosco e dalle sue carezze d’ombra, la strada ci ha svelato il suo disegno. Un arabesco di tornanti tatuato sulla schiena verde della montagna. Una roba da sindrome di Stendhal, se non ci fosse il serio rischio di finire stesi dalla fatica. Quindi: testa bassa e pedalare.

Finisce l’asfalto, comincia lo sterrato. All’ansia di non farcela si somma quella di bucare. A scacciare i pensieri neri ci pensa Marcello, insegnandomi nomi di montagne e di versanti, indicandomi falchi e marmotte, lepri e uno stambecco maestoso che ci scruta da un metro sotto il cielo.  «Prof., guarda lassù…». Questa volta, però, a parlare sono io.

La meta di quest’avventura in bicicletta risponde al nome di “Panoramica delle Vette”. Lo sguardo, infatti, riesce ad abbracciare distanze colossali, orizzonti senza limiti. Scendo i sentieri della memoria, fino all’ultima volta davanti ad un’emozione così: in Cina, nel 2006, giocando a rincorrere con gli occhi la Grande Muraglia fin dove andava a perdersi, dentro nebbiose lontananze.

La discesa è insieme una faticaccia e una paura. Solo per me, però: il mio compagno di viaggio, annoiato dalla lentezza che gli ho imposto, battezza traiettorie insensate e appoggia il collo del piede sulla sella, la pianta sul manubrio. Gioca. Lo sgrido, vabbè, ma andiamo davvero piano. Mangiamo fragole di bosco e beviamo altri panorami. Planare sul primo luogo abitato dagli umani, ultima frazione sulla soglia della montagna, è un sapore variegato di gioia e tristezza. Ce l’abbiamo fatta, ma com’è insipido questo asfalto di “pianura”, e come sono già lontane quelle immagini così pure, che a filtrarle con Instagram ti sembra di sottoporre ad un bombardamento nucleare.

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Non sapersi

Amore e guerra; amore è guerra. Incauta occupazione di territorio straniero. Dentro di te, nel giorno, nella notte, nelle cose da fare, in tutto. Essere invasa. La resistenza e la resa. Resa ovvero rendimento: si potesse misurare il frutto, il vantaggio, gettando sulla bilancia da una parte sé, dall’altra quanto si offre, quanto si perde e quel che rimane. L’unica certezza il consumo: del pensiero, della ragione, del tempo che evapora in congetture. Se fantastichi ciò che vuoi lo perdi, lo sciupi? O perfezioni e anticipi una possibilità? E poi? Resto o differenza: la differenza con l’altro, l’abisso che separa, attira e chiama, il vallo da colmare, il salto da sé. Lo prendo, mi faccio avanti e prendo ciò che è mio, ciò che non lo è ancora, quello che vorrei e non so, o aspetto che mi venga deposto tra le mani? Prendere o dare? Darsi? Si fa? Stare in punta di divano, le mani ferme in grembo, un vago sorriso in volto, il cuore che si contorce nell’attesa, o sporgersi dalla finestra di notte, indovinando l’ombra nell’ombra? Ciò che si deve e ciò che si vuole. Infine, ciò che si può. Posso qualcosa, io, sola, sola e femmina al mondo, o posso soltanto volere, sperare, e alfine dire sì? Si può dire anche no? Sì la freccia che conduce al futuro, no la pietra che ti trascina a fondo e lì ti lascia, tra le alghe, stordita come morta? Padre, padre, quante cose non mi avete insegnato; siete andato via troppo presto. Accanto a voi avrei saputo distinguere, valutare. Ascoltarmi e infine capire. No, avrei solo interpretato i vostri cenni, avida e curiosa, e mi sarei portata di conseguenza, rinunciando a pensare, a decidere, in facile pace. E sarei stata contenta così. Anche quello, anche il nostro era amore. Ma non è metro che si possa usare ora. O invece mi avreste aiutato a leggermi, con pazienza devota, come decifrando una lingua sconosciuta, in trepida anticipazione del messaggio? Voi, voi che già avevate deciso di lasciarmi andare, prima di tutto, prima di questo strazio. E io ora non so niente. Io non mi so.

 

Beatrice Masini, Tentativi di botanica degli affetti, Bompiani

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Pronto, Yelena? Ti ricordi di me?

La campionessa russa Yelena Isinbayeva ha almeno in parte smentito le atroci dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi a sostegno della legislazione anti gay varata da Mosca. Mi sono esercitato ad immaginare le ragioni del suo dietrofront.

 

Magari è arrivata una telefonata dallo sponsor, timoroso di perdere una fettona di mercato.

 

Magari ha telefonato proprio Putin, dicendo lascia stare Yelena, non son cose per signore, lascia che me le sbrighi io, certe sporche faccende. Tu pensa a portare sempre più in alto il nome della Russia.

 

Magari ha telefonato Silvio, l’amico personale di Putin: “Consentimi di darti un consiglio, Yelenona, fai come faccio sempre io, smentisci tutto, dichiara di essere stata fraintesa… di’ che è tutto un misander… un misundestunting, com’è che dite, voi giramondo… ah, te l’ho raccontata la barzelletta quella dell’asta?”

 

Magari sono state le meravigliose, tante tantissime cacche (con la tastiera :poop: ) che da ventiquattrore hanno cominciato a depositare sulla pagina pubblica dell’atleta russa centinaia di utenti di Facebook. Uno sconfinato tappetone di merda su cui atterrare dopo un salto tutto storto.

 

Magari tutto è partito proprio da una telefonata. Inaspettata. Pronto, Yelena? Ciao, sono Ekaterina, ti ricordi di me? Sì, al liceo. Quella in ultima fila, con la lunga coda di cavallo. No, non eravamo amiche per la pelle, ma qualche bella risata insieme ce la siamo fatta. Eri così bella, non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Una volta ti ho anche scritto una lunga lettera, ma il coraggio di fartela leggere non sono proprio riuscita a trovarlo. No, non vivo più a Volgograd; adesso la mia casa è a Stoccolma. Ci vivo con Anna. Ci siamo conosciute a Londra, cinque anni fa, eravamo lì per lavoro… E tu? Dimmi di te… Ma no, dei salti so tutto… dimmi il resto… sei felice?

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Quelli che fermano i carrarmati

C’era un ragazzo che come noi amava la vita e la libertà.

Ce lo ricordiamo tutti.

Ci siamo chiesti tutti cosa contenessero le sue borse di plastica.

Ma è passato tanto tempo, e forse qualcuno nemmeno se lo ricorda più, quel ragazzo. È passato talmente tanto tempo che nemmeno le borse di plastica esistono più.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo invece è appena ieri.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo è sangue che bisogna ancora lavare, se non verrà coperto da altro sangue.

Immagino che Beppe Grillo abbia a fianco a sé un giovane smanettone, uno che alla bisogna compone i fotomontaggi per il blog più seguito dagli italiani. Ligio ai suoi doveri di attivista, quel ragazzo taglia la testa ad Enrico Letta e la deposita sul corpo di un vampiro, ah ah ah, cose così.

Ieri, Grillo ha commissionato questo.

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Voi che lo votate, un italiano su tre, pensateci a questa perfetta “scelta di tempo” del vostro leader.

Ripetetevi che lui è fatto così, che son fatti così i comici. 

E continuate pure a prepararvi all’autunno.

 

Ah, il ragazzo, quello colle borse e senza Photoshop, si avvicinava al carrarmato fino alle strisce pedonali.

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Come WU MINGhia parli?

C’è un parlamentare grillino in ferie che sale in cima a una montagna e pensa bene di filmarsi per comunicare con tutto il movimento e tracciare una sorta di bilancio. Sembra un invasato, sarà l’altura, sarà lo scranno che occupa da qualche mese. Parla dei cittadini ancora da conquistare e il suo ragionare è a dir poco tortuoso: “Siate accoglienti con le persone che pensano di pensarla in maniera diversa da noi e invece no”.

 

Sfoglio “Repubblica”, stamattina, e la parola passa al collettivo dei collettivi, interpellato sul significato del concetto di “sinistra”. Un altro soggetto che ama rivolgersi al popolo, alla società e ai suoi movimenti. Sentite qua:

 

«Sinistra è una parola, è una visione del mondo. Non è fatta per un soggetto immaginario, cambia secondo la posizione da cui la dici. Come parola disincarnata è solo un’imperfetta metafora spaziale, bidimensionale, dunque inadeguata perché il mondo è pluridimensionale, e poi ha un sottotesto “parlamentare” che pesa perfino quando la usi in modo extraparlamentare…».

 

Chiaro no?

(Poi dice che uno vota Matteo Renzi…)

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Pensosa sul campo

La lettura di una fotografia può portare ad un numero di interpretazioni pari al numero degli interpreti: a ciascuno la sua. Giusto così. Questa ad esempio, in prima pagina oggi su un quotidiano delle mie parti, nella sua versione online è oggetto di commenti sferzanti: la gente ha bisogno e loro rivolgono lo sguardo dall’altra parte…

Io ho deciso di vederci l’esatto contrario e la faccio rimbalzare nella Pozzanghera come una buona notizia, dal fronte di una politica nuova.

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I numeri del Barcellona (anche lasciando Messi e Neymar in panchina)

Stavo annaspando nella calura agostana. Il mouse era sudaticcio come le news su cui cliccavo. Poi all’improvviso ho guardato l’immagine di un calciatore di spalle. La notizia era quella del suo debutto nella formazione che l’ha acquistato a peso d’oro. A colpirmi, però, è stato il numero sulla maglia. Un undici particolare, strano, vagamente a sghimbescio, somigliante al profilo stilizzato di due montagne, o al muso appuntito di due cavalli. Non ho pensato “bello”, ma mi ha incuriosito come sanno fare tutte le cose un po’ fuori posto, e tutti i frutti del pensiero divergente. Sono quindi finito su Twitter, digitando le parole chiave “numeri” e “Barcellona”, ed ho trovato reazioni di marca italiana estremamente severe: quanto sono brutti, fanno schifo, che roba è? Fino ad un emblematico: li ha disegnati uno spastico?

Fuochino (…e figura di merda).

I numeri li ha disegnati Anna Vives, che non ha lesioni di nessun tipo al cervello ma è una giovane donna con la sindrome di Down. Dopo una prima esperienza lavorativa in un supermercato, ha deciso di dedicarsi con successo al disegno e alla grafica. Probabilmente nelle partite ufficiali (quello di ieri sera era “calcio d’estate…”) la squadra catalana tornerà a sfoggiare i numeri “tradizionali” pensati dalla Nike; tuttavia, l’idea del calciatore Iniesta rimane molto dolce e suggestiva. Come lui, anche altre star dello sport spagnolo, il motociclista Lorenzo e il cestista Gasol, hanno voluto regalare notorietà al lavoro di Anna. Perché di lavoro si tratta.

 

Nel prossimo anno scolastico mi sa che a Scuolamagia scriveremo con Anna.

 

(Il font Anna, comprensivo di numeri e segni di interpunzione, si può scaricare gratuitamente, ma sul sito è possibile effettuare una donazione…) 

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