Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

La fantasia al palo

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Durante le vacanze le loro fantasie mi sono mancate un sacco.

Ed è come se si inaridisse anche la mia, in assenza delle loro.

Sono stato un’ora davanti alla pagina vuota di word, prima di ideare l’ultimo “tema” da svolgere a casa. Ho appallottolato decine di idee prima di ripiegare su un banale giochino suggeritomi direttamente dall’oggetto su cui stavo picchiando le dita.

Prendete 15 lettere dell’alfabeto, in stampatello maiuscolo, e ditemi cosa ci vedete dentro. Anzi, oltre. Partite da lì e tornate il più tardi possibile. Buon lavoro.

E sono andati.

E hanno visto.

Mont(A)gne innevate e farfalle (B) di profilo, posate su un ramo di ciliegio.

Chiavi a pappagallo (F) del papà, mani abbraccianti di mamma (C).

Facce di bambini con il termometro in bocca, indiani con frecce conficcate sulla faccia, topolini con la codina visti da dietro mentre scappano da un gatto: tutto in una semplice (Q).

Ali da angelo (W), fischietti da arbitro (P, ruotata di 90°).

Navi sul pelo dell’acqua (Z).

E altro, molto altro.

Compresa una (I) che – premessa: prof. non è la prima cosa che mi è venuta in mente – diventa un palo da lap dance.

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Bramare di bramire

 

Non il solito sabato sera.

Ce l’avete tutti il concetto di “non il solito sabato sera”, vero?

Il centro del vostro finesettimana quando non somiglia a nessun altro di quelli precedenti, è più unico che raro, irripetibile, grazie ad un incontro, grazie ad un’emozione, grazie a qualcosa che sembra accadere soltanto per regalarvi sorpresa e benessere.

Ecco, non ci siamo. Dovete aggiornarvi. Dovete aggiornare il concetto di “non il solito sabato sera”.

Sabato 21 settembre accadra di più, sabato 21 settembre accadrà di meglio.

I membri di una giovanissima associazione sportiva e naturalistica vi aspettano alle 17.00 in località Pierabech, a Forni Avoltri, per raggiungere in notturna l’oasi di Bordaglia. In notturna e in incognito, perché l’obiettivo è quello di ascoltare – meravigliosamente soltanto ascoltare – i bramiti dei cervi. Un gesto soltanto all’apparenza passivo, in realtà attivissimo, pieno forza e di rispetto. Una piccola innocente intrusione in un altrove riconciliante. Un modo per sentirsi ospiti e non padroni, attori che abbandonano le velleità da registi e si accontentano di recitare la parte più difficile: il silenzio.

 

È il caso di dirlo: accorrete silenziosi!

 

P.s.: l’associazione Trôis richiede un’iscrizione di 10 euro, a sostegno di future iniziative, raccomanda inoltre di dotarsi di una torcia e di eventuale binocolo. 

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1, 10, 100 COSTECONCORDIE

Alang

Pronti? Allora: si va su Google, come immagino facciate altre 57 volte, chi nel corso dell’intera giornata, chi tra le 8.00 e le 8.30 del mattino. Infilate nel motore di ricerca queste cinque letterine: alang. Fatto? Cliccate ora su Maps. Alang è infatti un luogo. Finirete in India, nella regione del Gujarat, e quello che vedrete – sotto una nebbiolina che sembra messa lì apposta da un genio del male, o da me che vi sto guidando – vi farà rimanere di stucco. Altro che Costa Concordia. Altro che PARBUCKLING, benvenuti nel mondo dello SHIP BREAKING.

Niente martinetti, niente cassoni che si riempiono d’acqua. Solo fiamme ossidriche e martelli, tenaglie e forbicione. Niente commissari e superingegneri. Soltanto ragazzini seminudi con la pelle scura. Piccole termiti a scavare il ferro di navi provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Operazioni di dismissione clandestina vietatissime, ma realizzabili con la semplice manomissione di qualche documento, e un furbo cambio di bandiera all’imbarcazione da rottamare.

Me l’ha ricordato Adriano Sofri su Repubblica di oggi, che dopo gli umani stupori nella notte del Giglio era il caso di fare una capatina ad Alang, come abbiamo fatto spesso a scuola negli ultimi anni, per recuperare il senso delle (s)proporzioni.

Io metto la foto, ma voi andateci. Volare così non costa niente. Scendete col tastino + . Aspettate che l’immagine si metta a fuoco.

Oltre la spiaggia, oltre la nebbia, il mare è di un bell’azzurro anche lì. 

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Balene

Cercavo un libro che mi insegnasse cose che non sapevo. Fatti e idee che proprio ignorassi, non le diverse declinazioni di un fenomeno che mi fosse già noto.

Così ho comprato un libro che parla di balene.

Ho quindi scoperto che un tempo solcavano gli oceani creature a dir poco pazzesche. Testimonianze storiche molteplici e circostanziate – purtroppo antecedenti l’evo videofotografico – riportano avvistamenti di animali giganteschi, serpenti marini lunghi cinquanta metri, capaci di spezzare a morsi imbarcazioni poderose.

Ho imparato che in fondo al mare può nuotare ancora oggi, grazie ad una straordinaria longevità, qualche balena coetanea di Moby Dick (data di pubblicazione: 1851).

Ho scoperto che l’ambra grigia – sostanza rarissima pescata in mare e usata dai migliori produttori di profumi per la qualità di inglobare trattenendole le altre essenze – non è che cacca solidificata di immenso cetaceo. Non lo sapevano neanche i produttori di profumi, all’inizio, e posso solo immaginare l’imbarazzo al momento di accogliere la nuova nozione elargita gratuitamente dalla scienza.

Ho imparato che le balene non sono solo natura – cosa più di questo mammifero può essere associato alla vita selvaggia?! – ma sono anche cultura. Per via culturale i cuccioli apprendono comportamenti e tecniche di sopravvivenza. Per via culturale – altro che istinto – imparano a soccorrersi e a rispettarsi. Con lo sterminio sistematico l’uomo cacciatore non ha posto fine soltanto all’esistenza di milioni di individui della specie, ma anche ad elaborazioni collettive che possono essersi estinte in seguito al calo demografico.

Ho scoperto – ma lo sapevo già perché me l’aveva raccontato uno scrittore – che le balene lasciano impronte. Sì, sull’acqua. Temporanee, certo, ma nemmeno troppo. L’acqua solcata da una megattera o da un capodoglio non è infatti davvero più la stessa di prima, cambia a livello molecolare, nella forma ma anche nella sostanza.

Ho capito perché da piccolo questo fosse il mio cartone animato preferito, e perché costruissi con i Lego complesse navi baleniere destinate ad attraversare la superficie mossa del parquet, tra la poltrona e la televisione. Per costruire Moby Dick mi mancava il know how. E i mattoncini non sarebbero comunque stati sufficienti. Tuttavia, i miei omini di plastica erano vigili e pronti alla caccia.

 

 

«Una rapida sequenza di stridii. Più che udirli con le orecchie, li sentivo dentro il petto; la mia cassa toracica era diventata una cassa di risonanza. La balena si stava creando un’immagine mentale di me: una scansione dell’intruso in risonanza magnetica nucleare, un profilo dell’alieno invasore.

Sentii il mio corpo rilassarsi e pisciai nell’acqua. Un pensiero ridicolo mi passò per la testa: mi ero presentato senza preavviso, con l’unico risultato di perdere il controllo delle funzioni corporee e orinare sulla soglia di casa del mio anfitrione. Poi, nel momento cruciale, la testa si girò e si chinò impercettibilmente, come mi avesse identificato. Non commestibile. Privo di interesse.

Passai dal puro terrore a qualcosa di diverso. Capii che era una femmina. Una grande madre che fluttuava davanti a me, intensamente viva. Malgrado il suo disinteresse, un invisibile cordone ombelicale sembrava unirci. Da mammifero a mammifero; la sua grigezza senza fine, il mio pallore senza madre. Perso e trovato. Un altro orfano.

Non riuscivo a capacitarmi che qualcosa di così grande fosse così silenzioso. Scansionato dalla carica elettrica del suo sesto senso, mi sentivo insignificante, e tuttavia non del tutto. Ricreato a misura sua e a misura del mare, ero stato assimilato dalla sua alterità, nella sua mente c’era una mia immagine. Mentre la balena mi sfilava davanti, vidi il suo occhio: grigio, velato, senziente, disposto lateralmente, centro della sua coscienza. Dietro, tutto il resto era muscolo, che si muoveva senza sforzo. Quel momento durò per sempre, un’eternità di pochi secondi. Entrambi nella nostra nuda interezza, separati soltanto dall’oceano sconfinato».

 

Philip Hoare, Leviatano ovvero la balena, Einaudi

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A volte ritornano

A Scuolamagia. Succede. A settembre e a ottobre di più. Che tornino. Appena possono. Quando la scuola nuova non è ancora cominciata o quando è chiusa per un santopatrono. Si guardano intorno. Cercano riferimenti nello spazio, mentre sono travolti da quelli nel tempo. Che riaffiorano, crudeli e taglienti. Vedono i nuovi – alle medie da due giorni – muoversi già padroni di tutto. Anche di ciò che era loro, soltanto ieri. Entrano quando vogliono, a Scuolamagia si può. Se ci sono io entrano anche in classe, si siedono per terra, sulla cattedra. Si appoggiano al muro. Protestano: “Ma ‘sto giochino che si vincon le Fonzies con noi non lo facevi…”. Vero, ma l’ho inventato l’altroieri, giuro. Mi giustifico ma arranco: avrei potuto inventarlo prima. Cala un velo di tristezza sottile mentre suona la ricreazione. “I migliori sono i ricordi brutti” – diceva Gassman in quel vecchio film. Quelli belli li pensi e ti accorgi che parlan di cose che non ci sono più. Come la tua vecchia scuola. Come la tua prima adolescenza, che non ha niente a che vedere con la seconda. Come i tuoi 11, 12, 13, 14 anni. Tornate presto, è mio il congedo per loro. Ma lo voglio davvero? Con tutto il male che fa? 

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Le mie 48 ore da Obama

Sono stato Obama per 48 ore. Ho vissuto la mia piccola crisi siriana standomene comodamente in terrazza. Sono stato combattuto tra l’interventismo e la non ingerenza: due istanze opposte che si sono scannate al ritmo dei passi delle mie vecchie ciabatte. Ero in possesso di prove evidenti: l’individuo sospetto era troppo nervoso, decisamente inquieto. E poi era palese la sua intenzione di spiare un orizzonte senza da quell’orizzonte poter essere spiato. Guardava guardingo alla sua destra, ignorando me che dall’alto lo guardavo guardare. Cosa calamitasse i suoi occhi, nel corso di quasi ogni sera nelle ultime due settimane, mi era più difficile stabilirlo. Il supermercato, certo, ma chi? Ma cosa? Ma perché? Il punto, tuttavia, era quell’ansia che lo divorava, quel continuo salire e scendere dalla macchina, il sistemare il berretto sul capo, calando il frontino in direzione degli occhi. Fino a quell’ultima mossa intravista dalla mia postazione di guardia: indossare e togliere un paio di guanti in lattice. La prova regina, anche per uno come me che non frequenta alcun tipo di letteratura gialla e noir. Che fare? Confidare nella favoletta della cittadina tranquilla in cui certe cose non succedono o lasciarsi trasportare dal fiume in piena del sospetto? Mi sono tornate alla mente le tante cronache incrociate sui giornali, inzuppate di sennodipoi, e le tante tragedie che forse “pensando male” si sarebbero potute impedire.

E allora ho preso il telefono e ho sentito dall’altro capo il peso della mia stessa preoccupazione. Solo che era una delle tante, in un mestiere in cui da un pensiero è automatico si scateni un’azione concreta e decisa. Ho sentito quindi  spronare una volante, a cui venivano fornite precise indicazioni logistiche, mentre ancora stavo descrivendo all’operatore quel berretto calato sugli occhi.

Nulla di cruento è seguito. Un goffo tentativo di fuga, un’identificazione, la raccomandazione di tornarsene a casa.

Non sono convinto di aver commesso un errore. Credo che si comporti davvero in quel modo sospetto chi fa la posta ad una ex colpevole di abbandono, un potenziale femminicida. Ma non era questo il caso. Ad altro serviva quell’attesa, ad altro era mirata la protezione di quei guanti. A una balla d’insalata mezza andata. A un pomodoro ammaccato, a quel che resta di una pesca sotto il superficiale strato ammuffito. Ho ostacolato il terribile reato di raspare in un cassonetto, ho impedito l’intercettazione di qualche alimento troppo imperfetto per finire nella sporta di una massaia ma ancora in grado di colmare il vuoto di una fame.

Non riesco a non pensarci, impotente, nel giorno in cui un sacco di persone di buona volontà giocano al digiuno.

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L’amore che c’è dentro, l’amore che c’è fuori

A volte, magari proprio di domenica, capita di leggere quasi integralmente tre quotidiani e un inserto e che la tua sete di storie rimanga a bocca asciutta. Poi a mettere le cose a posto ci pensa una piccola lettera, in quello spazio che spesso e volentieri sorvoli diretto altrove, ché in quelle pagine ci son prima di tutto gli editoriali ed i commenti autorevoli. Ci pensa un lettore con un pensiero controcorrente, con un’osservazione limpida quanto spiazzante.

Amnistia per tutti coloro che – fatti i conti con ovvie e sensate limitazioni – possono beneficiarne, pazienza se ci finisce in mezzo uno che non la meriterebbe.

Amnistia perché l’amore che è dentro possa incontrare l’amore che è fuori.

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