Senza categoria

Beatitudini

Beato chi non si ritrova nello straniamento irredimibile di tali personaggi.

 

Beato chi non riconosce il proprio, nel loro deambulare per orrifici luoghi di raggelante bellezza.

 

Beato chi di sé non rammenta, nelle schiene di umani, soli, che dal niente vanno al nonsisadove,

 

passando per un mondo di lavori perennemente in corso, di costruzioni in via di decostruirsi da sé,

 

di porti che deportano verso “migliori vite” che se ne impippano della circolare geometria delle

 

rotte, della superna verticalità orizzontale dei cieli, della conicità magmatica degli istinti.

 

Beato chi non sorprende il proprio, nel tonfo degli anfibi.

 

Si cammina così, pesante, per allertare le serpi del proprio prossimo transitare. Si cammina così,

 

pesante, per illudersi del presente, che la terra su cui si preme è proprio terra,

 

solido cranio di chissaché, male che vada buca con acqua.

 

E come la vivi, se non beato, una giornata?

 

Come la discerni la realtà dall’allucinazione, quando ogni orifizio sonoro ti altoparla nelle orecchie

 

che il tuo shtetl, il tuo paese, la tua lingua, il tuo ricordo, fino al tuo presente, gli amici, la tribù,

 

i nonni, la spalla che stai mordicchiando, tutto, non è ciò che conosci, che gusti, che ascolti,

 

che supponi di amare ma è un luogo immaginario, un monoblocco monotinta,

 

un villaggio dove ognuno di noi, extra o intra mura, è lo scemo, il pitocco consapevole o meno.

 

Annullate le distanze, azzerato l’ascolto, ridicolizzato il viaggio,

 

perseguitato il nomadismo di necessità, fattasi dea una bamboccia vuota a nome Felicità,

 

resta scolpito in queste storie qualche raro segno a indicarci che di vita vera,

 

non di malosogno, si trattava e si tratta l’esistere: un orologio pietrificatosi ad una certa ora,

 

un graffito di ere trascorse, un Mickey Mouse di Lascaux. Segnali che qualcosa c’è stato,

 

che non ce l’hanno data a bere da piccini per inzuccherarci il sonno. Di tali segnali silenziosi,

 

di questi avvertimenti che sono antitesi allo strepito, sono inzuppate le migliori giornate;

 

insegnamenti muti, danze immobili, messaggi sottintesi e appena percepibili

 

che rimandano ad archetipi che tutti ci riguardano. Sono loro a consentire il risveglio,

 

anziché il colpo di pistola. Sono le creature nascoste, non amplificate,

 

come i trentasei saggi, ignoti anche a se stessi, che, la tradizione insegna, sorreggono il mondo.

 

È nel tesoro evidente eppure celato al nostro sguardo errato e mai errante che si aggirano;

 

in quel “ricordo che non ricorda nulla”, che ti paralizza, forse un attimo solo,

 

quanto basta se vuoi, per non farti fottere sorridendo al flash e senza opporre resistenza.

 

La 24ore, se questo è lo sguardo, trascorre in quel deambulare alla cerca,

 

chissà quanto inconsapevole ma cocciuta, di un segno di arcaico, su pietra o su labbra,

 

che ci confermi che non siamo stati paracadutati qualche attimo fa su un pianeta ignoto;

 

che l’estremità del mondo è un velo di Maya che attenzione, ascolto e silenzio,

 

uscendo dalla fila, possono sbriciolare e decomporre.

 

A patto che il demone della speranza mai e poi mai e poi ancora mai venga evocato.

 

Moreno Miorelli

Standard