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Sputi

Roberta Biagiarelli porta in giro per i teatri dal 1998 uno spettacolo che racconta gli orrori di Srebrenica (Bosnia). Vi ho assistito ieri sera, insieme a non moltissime persone. Sapevo già un bel po’ di cose sull’argomento, compresa la terrificante leggenda dei caschi blu dell’Onu (olandesi) che gettavano le caramelle nel campo ai bambini bosniaci che correvano a raccoglierle, e il campo era un campo minato. Sapevo già, ma un’attrice che urla il dolore degli innocenti fino a doversi pulire la bocca dagli sputi che volano verso la platea ti dice che una cosa che sai già puoi non saperla abbastanza.

(Lettura collegata: Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi…)

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Ladra di occhi

Il mio mestiere è un po’ una sfida a rubare occhi, e queste sembrano parole di De Gregori. Il bottino di ogni ora di lezione può essere magro o ricco, ma tant’è: insegnare è tutto un incontro di pupille e iridi, e il loro (eventuale) accendersi. Sono – ahimè – terribilmente geloso degli occhi che mi vengono sottratti, con altri occhi, con parole più attraenti. Una volta all’anno, ogni anno, ci pensa la prima neve a compiere il furto. Non c’è verso, e nelle prime due occasioni ci sono pure rimasto male. Ieri è successo di nuovo, anche se erano fiocchi timidissimi, capaci a malapena di sporcare il prato. Mi sono ritirato con dignità, confidando in tempi (metereologici) migliori, e, già che c’ero, l’ho guardata anch’io.

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IL FUORICLASSE

Chi mi conosce sa della stima infinita che nutro per Michele Serra. A piacermi sono le cose che pensa, ma ultimamente mi attrae ancora di più la sua scrittura smagliante. Quello che dice e come lo dice. A volte mi accorgo di non condividere nemmeno quello che dice, ma il “come lo dice” tocca vette insuperabili. Oggi lo sorprendo su “Repubblica” mentre fa il punto sulla Wrestlingmania mirabilmente equidistante sia dal moralismo che dal moralismo impartito ai moralisti. Mi immagino infine mentre con le sue parole spiego a una mamma – preoccupata per il lividi del figliuolo adolescente – che il Wrestling «incarna, entro rigide regole di autotutela dell’incolumità fisica degli atleti, l’adrenalina pura di certi eterni giochi infantili, mette in scena la zuffa, la lotta ludica, esattamente come quando i bambini giocano con i pupazzi e i soldatini e fanno “bang” con la bocca»…

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Distanza d’insicurezza

Due episodi scuotono il mondo della scuola (superiore) della mia provincia. La ragazza che per diventare rappresentante di classe improvvisa uno strip e mostra il seno ai compagni (…che la filmano col telefonino e regalano le immagini al popolo di internet); i ragazzi che marinano la lezione e che, raccattati in una sala giochi, vengono condotti davanti al questore per la ramanzina d’ordinanza. Due storie diversissime, certo, ma entrambe figlie della distanza che separa gli adulti dai ragazzi. Distanza che c’è sempre stata, com’è ovvio, ma che un tempo il conflitto generazionale contribuiva a colmare come fanno i ponti. Dai due argini ci si guardava in cagnesco, ci si odiava pure un po’, e il nemico era conveniente pure conoscerlo, per contrastarlo meglio, per sconfiggerlo. Oggi, invece, è rimasta solo la distanza e iniziative come quella del questore (un quindicenne non sa nemmeno chi è, un questore, e a cosa serve…) e come quelle che riempiranno le cronache dei prossimi giorni (ombelichi coperti, condanna di canottierine e vite basse…) non saranno ponti ma buchi nell’acqua. 

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In controduce…

Un paio di settimane fa esco da Scuolamagia e chi ti trovo? L’ex alunno P (quello del post “P”). Mi abbraccia e mi urla, come suo costume: “Prof, le ho fatto un fascio sulla macchina!”. È passato un bel po’ di tempo prima che il mio sguardo si posasse su quell’osceno simbolo fascista sul cofano, che ho dapprima camuffato con ulteriori tratti sulla cragna e oggi cancellato. Se l’avete visto, non malpensate. E neanche di P, che sta al Fascismo come Berlusconi alla Democrazia. 

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Precari & precari

Sciopero: due giorni senza giornali. Due giorni col “Manifesto”, si può fare. Le ragioni della protesta? Semplice: NO al precariato! Altrettanto semplice (e TRISTISSIMO): nel mondo della scuola gli insegnanti di ruolo non si fermerebbero mai per due giorni in nome dei loro colleghi giovani e bistrattati.

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Maria Solitudine

Le cronache dalla Val di Susa riempiono i giornali e i pensieri dei lettori. Tra le righe uno ci può leggere del fallimento della politica, del mito del progresso, del trionfo della velocità e del Pil, dell’ostinata forza delle comunità civili e incazzate. A me è tornata pure in mente questa storia d’amore e rabbia, finita presto, troppo presto, nel dimenticatoio. Come al solito comincia qui e continua nei commenti.

Dal Monferrato, dalle Langhe, dalla Val di Susa, dal Piemonte profondo, partivano, senza aver mai visto il mare prima, alla volta dell’Argentina. Partivano perché erano poveri, o perché salesiani di don Bosco. «Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio, andò da Genova in America ­ solo per cercare sua madre». Comincia così il penultimo «racconto mensile» del libro Cuore, «Dagli Apennini alle Ande» (De Amicis lo scriveva con una p, Apennini). Due anni fa una ragazza porteña di 22 anni, figlia di una famiglia ricca, discendente del Rosas che fu dittatore dell’Argentina dal 1829 al 1852, venne da Buenos Aires in Europa, sola, per cercare qualcosa. Prima o poi, fra qualche giorno, o qualche anno, uno scrittore, o una scrittrice argentina verrà a raccogliere la storia della ragazza, e ne trarrà un racconto. Lo intitolerà così: Dalle Ande agli Apennini. Per facilitare il suo compito, trascrivo le notizie essenziali, come si ricavano dalla stampa.

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Cose dell’altro forno

Il titolare della pozzanghera, oggi pomeriggio, ha preso possesso di 300 g. di farina gialla da polenta, 100 g. di farina bianca, 150 g. di zucchero, 150 g. di burro sciolto, 2 tuorli, 2 cucchiai di grappa, 1 cucchiaino di lievito, 1 pizzico di sale e 100 g. di uva passa. Seguendo le istruzioni impartitegli ieri a Bibliotecamagia dalla sua collega bibliotecaria, ha successivamente montato, amalgamato, miscelato, addizionato e impastato le sopraddette sostanze. Ha quindi azionato il forno (170° x 20 minuti) ed ha atteso con ansia la nascita di una trentina di biscotti “GIALLETTI”.

P.S.: Siccome il medesimo titolare quei verbi (amalgamare, miscelare…) manco li saprebbe coniugare, ringrazia la sua mamma per la collaborazione prestata.

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“…e voglio vivere come i gigli nei campi”

Pasolini fu l’ultimo a tirare, quando era pari il punteggio. Il tiro decisivo.

Il poeta prese con le mani il pallone, lo strinse come se volesse schiacciarlo, poi se lo fece rimbalzare qualche volta accanto, mentre lui era serio serio, come se stesse pensando. Che pensa in quei momento un giocatore? Ha la mente sgombra, oppure è in preda al terrore che un istante di follia butti al vento tutto? Sono solo undici metri, la porta davanti è immensa, eppure far passare il pallone sembra un’impresa. Quella sera, al campo dell’Idroscalo, Pasolini era il Caos, era dieci ragazzi con un sogno affidato ai suoi piedi, a quell’unico calcio da tirare. Dieci ragazzi dentro di sé, dentro il suo petto e davanti a lui gli occhi azzurri di Riccetto che l’avevano fatto di colpo innamorare.

Il poeta posò il pallone sul dischetto, fece due passi indietro fissando la terra. Poi scattò in avanti e tirò senza guardare. Il pallone si infilò in rete e lui sentì un boato, mentre il Manetta, Spino, il Catena già gli saltavano addosso. Dal mucchio dei compagni, un temporale di abbracci, vide Riccetto sdraiato sulla linea di porta.

Mentre Giglio arrivava con la coppa promessa, e i ragazzi del Caos erano stelle, lui andò verso il portiere, col cuore in tumulto.

“Mi dispiace davvero” gli disse.

Il ragazzo piangeva.

Le urla felici, le lacrime negli occhi del portiere battuto.

Pasolini sentì che era tutto perduto.

Ugo Riccarelli

(L’angelo di Coppi, Oscar Mondadori)

Cambiando discorso, ma mica tanto…

Baiga Team – Fedeledisarmonia 1 – 2

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Il ragazzo della via… Paal

Non avendo santi e non avendo fortunatamente morti, questi sono in teoria giorni normali. Sono un insegnante e tra pochi giorni devo consegnare i progetti del mio lavoro. Si chiamavano programmazioni, oggi credo sia più corretto definirli piani di lavoro. Anche se la mia carriera è agli inizi, si tratta ormai di partire dal documento dell’anno precedente per aggiornarlo, invertire l’ordine di due frasi, ricalibrare un obiettivo ecc. La cosa peggiore è dover tracciare le “situazioni di partenza”, il dover definire un alunno in due righe, nel bene e nel male. Ha buone capacità di base, appare in grado di stendere un testo con soddisfacente chiarezza e coerenza, ricco nei contenuti e con approfondimenti personali. Scusa, alunno coi capelli corti e gli occhi gentili, se scrivo di te questo. Davvero, non lo faccio apposta, mi obbligano. No, hai ragione, nessuno mi ha mai detto di descriverti così, lo faccio solo perché tre o quattro anni fa l’ho visto fare ad una collega e mi era sembrato più semplice e sbrigativo fare come lei. Ti prego, però, non pensare che io stia improvvisando. Quando entro lì dentro so benissimo quello che devo dirti e quello che ti faccio fare l’ho pensato e ripensato. Solo che non riesco a trascriverlo in un giorno di novembre su questo foglio bianco che mi lampeggia davanti e mi rovina gli occhi, sopra questi tastini neri che restano immobili. Tra qualche giorno ti leggerò le pagine un romanzo che alla tua età ho tanto amato. Parla delle vere e proprie guerre che facevano alcune bande di ragazzini ungheresi, dei fortini che costruivano per difendersi dagli assalti nemici, dell’amicizia, del tradimento, del coraggio e della paura. Poi ti chiederò di trasferire tutto questo nel tuo paesino (che ben si presta, grazie a quel fiume che lo taglia perfettamente in due…), di immaginare e raccontare una “guerra” tra i ragazzi che abitano di qua e quelli che abitano di là. Non vedo l’ora di leggerti, ragazzino, di vedere che faccia che fai mentre ti leggono anche i tuoi compagni. No, ragazzino, non posso scrivere tra gli obiettivi educativi e didattici che voglio vedere la tua faccia ingenua e sorridente, limpida, senza nuvole. Non posso scrivere che voglio somigliarti un po’.

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