Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

7 cose su Il nome del figlio

Ho visto Il nome del figlio. Dopo una settimana ho rivisto Il nome del figlio. Ora, forse, posso mettere a verbale due o tre cose che so di lui e della sua autrice.

  • Per prima cosa Il nome del figlio è (questo verbo ha vinto le primarie sbaragliando la concorrenza di “sembra”, “somiglia a”, “ricorda”) un film di Scola. Scorrono i titoli di coda e in quella casa ti ci muoveresti non dico con disinvoltura, ma quasi. Sapresti andare in bagno, andare a chiedere il curry ai vicini, affacciarti sul lato della ferrovia. Quella casa è un vero e proprio personaggio, probabilmente uno dei più complessi da gestire, davanti alla macchina da presa.
  • Francesca Archibugi ancora una volta dimostra di saper dirigere bambini e ragazzi come nessun altro. Capita che ottimi film facciano naufragio per colpa di adolescenti male ammaestrati. Archibugi sa scovare invece facce bimbesche più vere del vero. Ad esempio: da dove è uscita Scintilla, che porta il nome di una staffetta partigiana e una staffetta partigiana ricorda anche nei tratti del viso? (E a me ha ricordato pure Antonia Pozzi, ma quelle son p.d.r.: “perversioni del redattore”)
  • Ne Il nome del figlio come negli altri film della regista i personaggi cantano. In un modo o nell’altro, o prima o dopo, cantano sempre. Io non ho nulla in contrario e lascio fare. Se serve, do pure una mano. Una voce, pardon. Nelle visioni casalinghe, s’intende.
  • Nelle storie raccontate da Francesca Archibugi ci sono comportamenti mostruosi, modi di essere spigolosi, personalità ferite e traballanti; ognuno soffre la sua ombra e nessuno è privo di macchie d’unto sull’anima, più o meno lavabili. L’autrice, tuttavia, si rivela fortemente innocentista. Condanna le colpe e grazia il colpevole, guardato con indulgenza in quanto essere umano. A parte il personaggio interpretato da Guia Soncini, ça va sans dire, non ci sono veri cattivi. È una lezione, questa, che dal cinema di Francesca Archibugi cerco di trasferire nel mio mestiere di insegnante. Si fanno grosse cretinate, ma non esistono cretini. La realtà confuta ogni giorno la teoria, ma bisognerà pur credere in qualcosa.
  • Francesca Archibugi sorvola Roma da dio. In questo film va oltre, e sorvola anche una zuppa di broccoli.
  • I film della regista de Il nome del figlio traboccano di libri. Citati nei dialoghi dai personaggi, letti dalla voce fuori campo, appoggiati su un divano o dispersi in una borsetta tra un assorbente e un mazzo di chiavi.
  • I film di Francesca Archibugi sono scritti molto meglio di tanti libri. La preghiera di Siddharta ne L’albero delle pere, il discorso sull’amore e sulle lampadine pronunciato da Giovanna Mezzogiorno in Lezioni di Volo. Fino alla telefonata di Valeria Golino alla madre, nella pellicola ora nelle sale.

Ce ne sarebbero altri, di pallini. Ma questa è solo una piccola pozzanghera, mica i “Cahiers du cinéma”.

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Imago, Res cogitans, Tutte queste cose passare

Meglio esserci, a Parigi

 

Piuttosto apprezzato e condiviso, a margine della marcia parigina di oggi, il lavoro certosino di chi ha spulciato nelle carriere dei leader mondiali presenti mettendo in evidenza pratiche censorie abituali, oltraggi assortiti ai diritti umani più elementari e porcate di ogni natura.

Ben fatto. Operazione meritoria ed “ipocrisia” è davvero la parola giusta da usare.

Detto questo, però, non sarebbe il caso di aggiungere che è comunque meglio che quei capi di stato siano sfilati in quelle piazze ferite, abbiano calcato quei boulevard parigini?

In fondo quel gesto di “esserci” non li inchioda un pochetto, non fa loro firmare una sorta di contratto capestro, non li impegna pubblicamente al rispetto dei valori posti implicitamente alla base della manifestazione? Un po’, s’intende. Undici, non millemila. Comunque meglio di zero.

La volta che il mio alunno più disgraziato fa i compiti, ha proprio senso che io gli ricordi soltanto tutte le vecchie inadempienze scolastiche?

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Le canzoni son di tutti ma di qualcuno, forse, un po’ di più…

 

Le canzoni son di quelli che sputan sul parabrezza mentre le cantano, e che antepongono il tornare indietro su quel passaggio meraviglioso a una ripartenza col verde dal semaforo.

Le canzoni sono di quelli che hanno il vinile originale, di quelli che hanno il CD con la custodia rotta, di quelli che avevano la cassetta ma o l’hanno persa o c’han registrato sopra della musica più brutta, di quelli che te le passano col telefonino prima di accorgersi che in pugno stringi un Nokia 3310.

Le canzoni sono di quelli che hanno sviscerato il testo e la sanno lunghissima sulla genesi e sui retroscena, sulle citazioni e sugli aneddoti connessi.

Le canzoni sono di quelli che gli sembra sempre già sentita e che dietro c’è sicuramente l’ombra di un plagio (con le due varianti: “lo scriverò a Travaglio!” e “ma in fondo, le note sono solo 7”).

Le canzoni sono di quelli che dopo quel disco non ne ha più fatte di così, valido per tutti gli interpreti e per tutti gli album dopo il primo.

Le canzoni sono di quelli che le sanno a memoria.

Le canzoni sono di quelli che sanno anche gli accordi.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e a volte ci metton quelle della strofa prima.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e a volte le inventano di sana pianta.

Le canzoni sono di quelli che le parole non le sanno e allora cantano appena fuori sync, giusto quei due secondi, con un improbabile effetto eco da valle dolomitica.

Le canzoni sono di quelli che c’hanno creduto quella volta che De Gregori al 1° Maggio si è chiesto “perché una canzone è una canzone popolare?” e si è risposto – manco fosse da Marzullo – “perché l’abbiamo scritta tutti quanti assieme”.

Le canzoni sono di quelli che le cantano a squarciagola anche se sono trasmesse in sottofondo dentro un negozio di scarpe.

Le canzoni sono di quelli che una volta le ricopiavano a mano sulla carta, altro che “angolotesti” o “testimania”.

Le canzoni sono di quelli che fanno le seconde voci, tra gli occhi sgranati degli astanti.

Le canzoni sono di quelli che “meno male che c’è sempre qualcuno che canta e la tristezza ce la fa passare…”.

Le canzoni sono di quelli “con gli amici cantiamo una nuova canzone”, ma le domande consuete son sempre le stesse.

Le canzoni sono di quelli con la chitarra classica simile a quella del loro idolo, che si filmano e postano su YouTube mentre le eseguono, mentre le stonano, mentre le sbagliano, ma le amano dio se le amano, e alla fine sono i primi a scrivere un commento sotto: «Ragazzi, scusate se sono un po’ impacciato…».

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Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Quando Marilyn era già abbastanza infelice

Da giorni rifletto sulla carta e sulle parole scritte a mano che sempre meno tendono ad abitarla. Non sono un apocalittico e non costruirò barricate. Sono pure sconvolto dall’efficacia di certi messaggi audio su WhatsApp, che stanno mandando in pensione tastiere, t9 e faccine. Se state imparando ora quel tipo di alfabeto da smartphone, lasciate perdere. Tra qualche mese stringerete tra le mani una simpatica clava.

Però che nostalgia. Le lettere, dentro alle buste, o soltanto piegate in quattro. Una facciata, due, mezza soltanto. I bigliettini scritti a scuola e fatti scivolare sotto i banchi da una fila all’altra, alcuni li conservo ancora (e in classe, da insegnante, li combatto il meno possibile…). Gli appunti dell’università, rigorosamente a matita, pieni di disegni quelli dei Prof. noiosi, o troppo matti. Le bruttecopie, gli elenchi di cose da fare.

Capita quindi di rimanere incantati davanti ad questo foglio fitto fitto, la pagina di un’agenda, riempito nientepopodimeno che da Marilyn Monroe, nel 1955.

60 anni dopo, parla ancora (…nella traduzione de “Il Post”). Sussurra, urla. Sussurla.

Sono i propositi per l’anno nuovo, elencati un po’ confusamente. Con una chiusa drammatica, scritta di traverso, come si fa per non essere costretti a girare pagina, quando si è davvero vicini alla fine.

«Try to enjoy myself when I can – I’ll be miserable enough as it is.»

«Cercare di divertirmi e stare bene quando posso – tanto sarò già abbastanza infelice».

 

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