Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Ali di Ali

Dopo averla ascoltata una sera d’estate a Topolò, mi era rimasta impressa come la poesia “quella dell’occhio”. In realtà, dovrebbe essere più normale ricordarla come “quella delle ali”. Oggi l’abbiamo letta in classe. Era la prima volta. Ha riscosso un discreto successo e alla fine tutti hanno detto qual era il loro paio d’ali preferito. Quello che avrebbero comperato, fossero stati lì.
Nella pozzanghera hanno già nuotato, queste parole, ma le ripropongo per chi si fosse imbarcato in un tempo successivo, e per chi fa ciaf ciaf nel blog su Facebook.

Servirà che tu metta le ali
se vuoi veramente andartene via
disse mia nonna quando avevo sei anni.
Così, entrai in un grande negozio,
una vecchina dallo scaffale più alto prese a fatica
un grande scatolone e mi disse
prego, serviti pure.
Io, intimidito, cominciai a cercare.
C’erano ali per ogni utilizzo
ali bianche in tinta coi denti
ali scure per avari di cuore
ali di pizzo ali alla moda
ali per abiti bianchi da sposa
ali meccaniche per gli ingegneri
e ali da piedi per i corridori
ali a vela ali a motore
ali finte da sognatore
ali grandi per andare all’inferno
e minuscole per cadere in eterno
ali corte ali rosse ali rotte ali morte
ali scontate pescate a sorte
ali di carta ali di legno
assicurate contro l’incendio
ali vive che mai stanno ferme
ali di plastica contro le tarme
ali usa e getta per gli spendaccioni
ali di piombo per vili assassini
ali da drago ali da fata
ali a noleggio per una giornata
ali nuove a km zero
ali comprate mai usate davvero.
E poi ali immense per gli innamorati
ali proibite per fare all’amore
ali di gomma ché non si sa mai
ali per te se mi perdonerai.
Ali regalo di San Valentino
ali da mamma con il passeggino.
Ma ali di male a chi sta soffrendo
ali dolore a chi non vuol più volare
ali di neve per suicidi d’estate
ali di foglie per quelli d’autunno
ali col buco per chi vuol morire
nelle altre stagioni dell’anno.
Ali di rabbia a chi deve incazzarsi
ché gli hanno ammazzato fratelli ed amiche
ali vendetta d’acciaio e benzina
per abbattere torri nemiche
ali da guerra a vendicare vendetta
ali atomiche che uccidono in fretta
ali di fame ché i bimbi non muoiono
ali di mine che le gambe non servono
ali da ricchi che vai dove vuoi
ali giustizia non si trovano mai.
E allora ali divine, di vini e di birre
ali diverse, di versi e parole
ali di ali per chi fa poesia
ali di vita e ali di morte
ali per tutti noi anime rotte.
Scelsi.
Hai preso le ali più rare
mi disse la furba vecchina
una apparteneva a un demone astemio
l’altra ad un angelo sempre ubriaco.
Sono antiche, molto preziose,
ti costeranno un occhio della testa,
sei sicuro di potermi pagare?
Ma io non dissi nulla, presi le ali,
lasciai un occhio sul banco del negozio.

Gli ammutinati, collettivo di poeti triestini

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Buongiorno, Salisburgo

Saliscorsa
Come sono belle le città all’alba. Il silenzio rotto dai camion della nettezza urbana, il rumore delle prime serrande che si aprono. Un corso d’acqua, se c’è, che non è coperto dal fiume del traffico. Sull’asfalto persone pensose muovono passi accompagnate da cani pensosi. Delle poche biciclette puoi distinguere il suono dei raggi, gli acciacchi delle catene arrugginite.
Anche la mattina salisburghese è fatta così. Anche quest’anno la gita è finita testando la consistenza di un’alba con una sana corsetta mattutina. Sette ragazzi e due proff. Una specie di tributo da pagare alla città, un’indulgenza da chiedere dopo certe camminate distratte, dopo lo sgarbo della noia davanti a vestigia e monumenti che parlano, certo, eccome se parlano, ma lo fanno sottovoce, troppo sottovoce. Una sorta di grazie per la fastosa accoglienza, o forse un piccolo richiamo davanti al flusso continuo di corpi che camminano senza lasciare traccia o segno. Ehi, grande città, ci siamo anche noi e ti abbiamo percorsa a lungo, a modo nostro studiata. E ti ricorderemo. E scusa se adesso, alle 6 di mattina, siamo qui a farti il solletico sulla pelle col nostro correre, con i nostri piedi colorati.

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In ricordo di Marta Lunghi, bibliotecaria

MARTA

Piccola postilla al Primo Maggio, i miei 25 lettori perdonino il ritardo. Volevo ricordarmi di Marta Lunghi, conosciuta mercoledì scorso cinque centimetri sotto la faccia accigliata di Augias, nella pagina delle lettere di “Repubblica”. Un lettore chiedeva che non venisse dimenticata. Quel lettore aveva ed ha perfettamente ragione. Marta viveva in provincia di Pavia, in un paese di mille abitanti o poco più, vicino ad un fiume che si chiama Arbogna, affluente di un altro fiume che si chiama Agogna. E chissà cosa agognava Marta, morta a 22 anni mentre stava inscatolando uova per 5 euro all’ora. Rigorosamente in nero. È rimasta impigliata in un nastro trasportatore, lei che sognava di fare l’interprete e di girare il mondo con le lingue che aveva studiato. Anche lei a modo suo un piccolo e fragile guscio d’uovo, l’unico infrantosi dentro questa storia dove il mondo è un rumorosissimo nastro che ci trasporta dove solo lui sa.

Marta Lunghi ed io avevamo anche una piccola cosa in comune. Anche lei aveva a cuore le sorti di una piccola biblioteca di provincia, quella del suo paese. Grazie a lei quel luogo rimaneva aperto, e ben due volte alla settimana. Grazie a lei era un luogo accogliente. Scopro navigando qua e là che sulle pareti della biblioteca c’erano i suoi disegni. Affreschi di bimba, freschi e colorati, firmati con un numero – Marta ’87 – che fa gridare. Millenovecentottantasette, ieri l’altro.
Il Presidente Napolitano, nel suo discorso per il Primo Maggio, si è ricordato di Marta, parlando della necessità di una “ribellione morale”.
Già. Da dove si comincia?
Oggi dagli occhi di Marta che non c’è più, che fan brillare di luce l’acqua della Pozzanghera.

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