Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

L’immagine è tutto

Attività da primi giorni di scuola, quando gli insegnanti alle latitudini di Scuolamagia, loro malgrado, sono più rari dei panda nei boschi del Sichuan. E a me tocca “accorpare” cuccioli appena affacciatisi oltre i confini della scuola primaria insieme a cuccioli in preda a palesi arrembaggi ormonali.
Dico facciamo un giornale. Anzi, dico: un giornale a testa di cui siete i DIRETTORIRESPONSABILI. Do qualche dritta e abbozzo una bozza. Regalo esempi e ricordo che il computer per questa volta se lo devono scordare. Sarà un prodotto artigianale, il “Giornale delle loro Vacanze”. Dopo un po’, però, cedo alle richieste dell’alunna che ha già riempito fogli di protocollo di parole e disegni e c’è proprio quella cosa che con la matita non si riesce a rappresentare per eccesso di complicatezza. Prometto una stampa dal pc. Alcuni vivono il gesto come un’insopportabile privilegio ad personam e protestano vivacemente. Sono troppi, sono una prima una seconda e una terza ma a me sembrano un quarto stato. La politica a scuola funziona così, e dopo pochi minuti è bell’e promulgata una LEGGE: scenderò in aula informatica per stampare da GOOGLE IMMAGINI una fotina per ognuno dei miei giornalisti-alunni. Sarà compito loro precisare su un apposito foglio l’oggetto del desiderio e soprattutto dei loro racconti.
Ecco. Si pensa e si dice spesso che siano “tuttiuguali”, i ragazzini di questo tempo, vittime di omologazione e di marketing standardizzante. Ogni tanto lo sospetto pure io. E invece no, ed è ad uso e consumo di questa visione ottimista che riproduco la macedonia infinita di quel foglio stropicciato con i loro desiderata.

Un koala
Uno smartphone
Una scatola piccola di Mikado
Una spiaggia della Sardegna
Un candelabro a sette braccia e una croce cristiana
Un trattore DEUTZ-FHAR 600
Una bicicletta
Caorle
Una motosega STHILL 36
La copertina del libro: “Un progetto super segreto”
Una chitarra
Uno snowboard BURTON (visto davanti e dietro)
Una foto di Ibra, possibilmente che esulta dopo aver segnato contro l’Auxerre
Un orso polare
Un paio di All Star Converse
Un Kinder Bueno
Una foto di Giua
ADSL senza limiti
Una baita
Pato, Ronaldinho e Robinho
Un fucile da biathlon

Richiesta particolare: “per favore mi verifica su Wikipedia la data di morte del pilota Tomizawa?”.

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

I piccoli signori delle mosche e 2 sui quali le mosche si rifiuterebbero di planare

Mi ponevo astratte questioni di stile, mettendo l’ultimo lavoro di Gabriele Del Grande a confronto con il precedente lavoro di Gabriele Del Grande. Mi interrogavo su quale fosse la copertina più azzeccata, e su come fosse evoluta la scrittura del giovane e coraggioso giornalista. Mi sono subito chiesto cosa stessi facendo, però, sentendomi all’improvviso come uno che disperso nel deserto sta a disquisire sul colore dell’acqua di due pozzanghere. Invece di berle entrambe per intero, perché solo così si può sopravvivere.

Oggi che un ministro del governo del mio paese ha giustificato la routine degli spari sui clandestini, sottolineando che mai e poi mai i libici aprirebbero il fuoco sui pescatori italiani.
Oggi che un importante esponente della maggioranza ha dichiarato questo:

«Abbiamo un interlocutore che è Gheddafi, che presenta caratteristiche singolari, ma con il quale dobbiamo fare i conti. Può scaricarci migliaia e migliaia di immigrati sulle nostre coste».

Oggi che… “SCARICARCI”.
Come si dice (fa notare il blog METILPARABEN) dei rifiuti, dell’immondizia.

Del fango.
Della merda.
Oggi.

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Cineserie, Res cogitans, Stream of consciousness

La piccola signora delle mosche

Si sa, su Facebook si fanno cose che hanno decisamente poco senso. Tipo: diventare amici della moglie di un dissidente cinese. La moglie di uno che è stato fatto sparire, imprigionato. Una ventisettenne che vive da anni agli arresti domiciliari. Uno legge la sua storia triste e coraggiosa di attivista dei diritti umani, di cyberdissidente, e della sua prigionia in un quartiere paradosso: “La Città della Libertà”. Poi, grazie a YouTube, ecco il suo documentario di lotta e di protesta: Prisoner in Freedom City, altro capolavoro di coraggio, con quel cartello mostrato in strada ai poliziotti in borghese sempre pronti a pedinarla. Quando si dice: protestare, far sentire la propria voce. Altro che fischi a Schifani.
Infine, ultimo passaggio, si digita il nome sul motore di ricerca di Facebook e si aggiunge Zeng Jinyan ai propri amici, tra gli alunni e gli ex compagni di classe. Ma perché?
No, un senso sembra proprio non esserci.
Poi una mattina leggi uno status, in quello spazio dove la gente scrive che è triste o che è felice, scrive “che palle!”, scrive “son finite le vacanze”, leggi uno status – o, meglio, te lo fai leggere da chi sa, ché Zeng Jinyan scrive in cinese – e te lo porti appresso per tutto il giorno e provi a renderlo in italiano come se tu fossi quello che traduce Shakespeare per la prima volta. Perché quella è la vita vera, ma è anche una poesia meravigliosa. E perché dai diamanti non nasce niente, da Facebook possono nascere fiori.

Zeng

«Si è rotta una finestra, l’ho riparata; la lampadina si è spenta, l’ho cambiata. Una mosca ronza per la casa da parecchi giorni e non io non sono riuscita a fare niente; Hu Jia fai presto, torna a casa e scacciala».

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Il piccolo signore delle mosche

C’è la foto del bambino con le mosche e c’è il bellissimo articolo di Adriano Sofri che mi ha afferrato per un orecchio come si fa con uno scolaro discolo, e mi ci ha ricondotto davanti per un’appendice di pensieri. Quelli pensati davanti al colonnino del giornale online, tra le rovesciate volanti dei campioni e le tette svolazzanti delle soubrette, non erano abbastanza.
Così, è venuto in mente anche a me come a Sofri l’aneddoto di Giotto, di Cimabue e della mosca dipinta più vera del vero. E anche il disegno sulla scatola dei pastelli intitolati al grande pittore.
Però mi sono ricordato soprattutto della storia di Kevin Carter, il fotografo premiato per la foto della bambina la cui morte per stenti era attesa da un paziente avvoltoio. Una tragica foto, tragica fino al punto di spingere al suicidio il suo autore, incapace di perdonarsi l’essere stato a sua volta avvoltoio paziente, con il suo zoom e il suo clic da premio Pulitzer.

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La lingua PRECARIA di Dell’Utri

Le cose della vita: uno sta più di un mese senza scrivere una riga e poi prova a ricominciare parlando di Marcello Dell’Utri. Non avevo niente di meglio da fare? In effetti…
Fatto sta che il buon (?) Marcello ha preso carta e penna per scrivere a “Repubblica”. E qui potrebbe sorgere spontanea un’obiezione: figuriamoci se la lettera l’ha scritta lui; il politico avrà come ogni personalità che si rispetti delegato un ufficio stampa, un ghostwriter. Però, nella fattispecie si trattava di replicare, sul tema dei presunti diari mussoliniani di cui Dell’Utri è in possesso, a un caustico (al solito) articolo di Francesco Merlo, uno che se ti rade al suolo ti sta facendo un complimento. Uno così feroce che mentre lo leggi, anche se ha pienamente ragione, solidarizzeresti col suo bersaglio polemico anche se si chiama Marcello Dell’Utri. (Update: no, se si chiama MD’U no…). Insomma, non si trattava di una precisazione puntigliosa, era una vera battaglia campale.
Conclusasi, vengo al punto, con un invito del giornalista di “Repubblica” al senatore del Pdl, in un brevissimo corsivo, a mettere da parte gli interessi storiografici per dedicarsi piuttosto alla cura della sintassi. Cosa c’entra la sintassi?
Nei giorni in cui la scuola italiana lascia a casa migliaia di professionisti di cui si è servita nel corso degli anni, quello che nella maggioranza governativa passa per uno dei più raffinati intellettuali, il bibliofilo Marcello Dell’Utri, infila 3 errori da penna blu in una missiva di 10 righe. Errori veri, roba grossa, mica refusi imputabili al precario di “Repubblica” (chi è senza peccato scagli ecc…) che ha fatto “copia e incolla” per impaginare la risposta a Merlo…
Parli e scriva quanto vuole, il discusso uomo politico, dei diari del Duce e pure di quello di Hello Kitty. Ma basta dargli dell’intellettuale, please. O dare per scontato che lo sia.

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