Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Andrei Vado fa il mondo

Gian Luca Favetto ha scritto 41 racconti. Quarantuno biografie. Non stanno dentro un librone spesso così, stanno dentro un librino spesso come la custodia di un CD. E stanno pure dentro un CD, perché l’autore ha deciso di leggerli uno per uno per Il Narratore audiolibri.

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“I nomi fanno il mondo”, s’intitola la raccolta, e porta lontano, davvero nel mondo, e mille mondi schiude, per davvero. Ad alcuni nomi ti affezioni, altri affascinano, altri spaventano e inquietano. Alvise Fantasia, Arianna Levi, Angelo Maddalena, Giacomo Bambina, Cesare Balìa, Mariko Miyranawa.
Andrei Vado.  

Era un uomo indeciso. Alto, le spalle incassate e indecise. Anche i riccioli, indecisi.
Anche la barba, qualche giorno sì, qualche giorno no, qualche settimana lunga come viene, qualche settimana curata con le forbicine. Indecisa la corporatura, tra il flaccido e l’atletico.
Si chiamava Andrei Vado. Andrei, come il nonno venuto dalla Russia, lui sì risoluto nel rifarsi una vita.
Aveva la condanna del nome: non stava e non andava, si spostava titubante di qualche metro e subito ritornava sui suoi passi, le braccia molli abbandonate lungo i fianchi.
Anche i passi erano indecisi e le braccia, con indecisione, ciondolavano.
Andrei Vado, decidi: o andresti o vai. E se non vai, non continuare a pensare che potresti andare. E se vai, non continuare a pensare che saresti potuto rimanere. Così ti perdi.
“Ma so dove ritrovarmi, almeno” – diceva sorridendo, seppure indeciso: un uomo, intero, in un’esitazione.

Quando Favetto ha scritto di Scuolamagia, qualche tempo fa, ha giocato anche con il mio, di nome. “Dicendo”, in italiano. E in effetti era ed è il succo del mio mestiere: dire.
“I nomi fanno il mondo”: 41 piccoli romanzi che ho letto/ascoltato pedalando in bicicletta, con gli auricolari e il rischio di non sentire un clacson, o sulla cyclette, nei giorni di pioggia o di poco tempo per le due ruote.
Consiglio vivamente.
Ehi, sembra un nome, Consiglio Vivamente… Brutto quanto si vuole, ma chissà qual è la sua storia…

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Gente che conta

Oggi “Repubblica” ha fatto 30. Ha dedicato due pagine importanti, illustrate da un bellissimo disegno di Gipi, a quello che secondo me, e non si tratta di una convinzione odierna, è il più importante giornalista italiano. Non è Giorgio Bocca, non è Ezio Mauro, non è Gian Antonio Stella. Non è uno che frequenta la Tv, non incrocia la penna con Belpietro e Feltri. Non va nemmeno da Fazio a presentare il suo libro, e molto probabilmente non andrà ospite da Saviano (anche se sarebbe bello stupirsene). Lui si occupa di tenere il conto.

«Il ragazzo che conta i clandestini odia che lo si chiami ragazzo e non usa la parola clandestini. Gabriele Del Grande ha ventotto anni, ha trascorso buona parte degli ultimi quattro in Nordafrica. Ha raccolto le storie di chi è partito per mare alla volta dell’Italia, della Spagna o della Francia e non è più tornato e di chi è finito in centri di permanenza che sono galere, fra torture e violenze di ogni tipo.» […]

Conta, Del Grande. Conta e racconta. Anche “Repubblica” conta, nel senso che “è un giornale che conta”. Sarebbe importante che potesse contare, nella sua squadra, anche sulla firma di questo coraggioso giovane. Un contratto, un bel contratto di lavoro. E farebbe 31.

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Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

Generazione PDG

La scatola di latta è riposta nelle fauci del grande drago di cartone, vicino alla leggerìa dov’è bello sedersi per terra con le parole degli scrittori, a fianco dell’armadio con gli atlanti e il vocabolario e il disordine. In fondo alla classe, dove il sole autunnale picchia forte tra le 9 e le 10. È dalla scatola di latta che ha inizio il rito, con le mani avide che la aprono e distribuiscono i piccoli involucri viola, pronti a schiudersi all’unisono. Nato così, come nascono i riti a scuola, come nascono i riti sempre.

115_D04006 Astuccio 50gr Sambuco
Ci fanno impazzire le caramelle RICOLA al SAMBUCO, ecco. Svelato l’arcano. Solo che in 3ª C le chiamiamo PDG, alias “caramelle al piscio di gatto”. Sono buone, ma l’odore che resta nell’aria tagliata dai fiati è proprio quello, tutti d’accordo. E fa ridere. Provare per credere. Basta mangiarne una in casa di un ignaro possessore di felini. Si chiederà subito dov’è Fufi, …quel gran mascalzone. Poi se ne va subito, l’odore, ma resta in bocca il dolce dello zucchero e di un bel momento. E si ricomincia, e si riparte. Di nuovo parole, idee, fatti, storie, popoli, teorie, donne, uomini, tempi, presente passato e futuro.

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Imperativo

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Si chiama Imperativo perché proprio quel giorno, in classe, si coniugavano ordini. Argomento fugace, quel modo verbale col punto esclamativo, ché il condizionale e il congiuntivo – bestie ben più nere – reclamano spazio e ore di lezione. La sua padroncina mi ascoltava attenta e con l’espressione un po’ annoiata. Mi dimostrava ormai da mesi di saperli usare divinamente, i verbi, e quella mia grammatica le sarà sembrata uno strazio. Imperativo conteneva penne nere e evidenziatori gialli, la colla e un paio di forbici che ho cercato spesso per tagliare i quadratini di carta colorata su cui faccio viaggiare i temi per casa. Conteneva gomme, matite, tutto quel che serviva a chi lo metteva ogni giorno in cartella. Io quando passavo a controllare un quaderno, a sbirciare un disegno, gli facevo una carezza. A volte mi avvicinavo direttamente per fargli una carezza, e mascheravo il gesto fingendo di controllare un quaderno, di sbirciare un disegno. Poi, in terza, Marghe ha cambiato astuccio, forse perché era cambiata anche lei, e ne aveva acquistato uno da ragazza della sua età. Forse un po’ si sentiva in colpa, e verso entrambi: me ed Imperativo. A fine anno era tornato, evviva, con l’espressione sempre malinconica e il naso spelacchiato.
Oggi, finita la lezione, Marghe, che da qualche mese frequenta il liceo, mi aspettava per consegnarmi il suo astuccio delle medie. Io è una vita che non possiedo un astuccio. Dell’ultimo ricordo soltanto una spilla con Nathan Never. A scuola arraffo penne qua e là. Che in genere restituisco, che spesso perdo. Se mi serve una matita, so di trovarla nel libro che sto leggendo. Se mi serve una gomma, so che non posso correre il rischio di tracciare una linea storta.
Ora sto riempiendo Imperativo. Marghe forse si è sentita come il personaggio di Toy Story che è ormai diventato grande. Io mi sento grato a Marghe che mi ha regalato un ricordo prezioso.

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Memorie dal sottosuolo

Quando la corda metallica smetterà di scendere e dovrà soltanto salire. Quando il motore che cala e richiama la capsula avrà soltanto un ultimo sforzo da compiere. Quando gli oggetti di quel bivacco di fortuna staranno per essere abbandonati per sempre. Coperte e bicchieri, le carte da gioco, le tessere del domino. Quando all’ultima madre in superficie rimarrà da pronunciare l’ultima preghiera, e al ministro l’ultima parola di circostanza. Prima di richiudere la grata cigolante dello sportello, ammaccato da più di trenta tuffi nel sottosuolo. In quel momento lì, a quasi un chilometro dalla vita, nel luogo dove non tornerà nessuno, senza nemmeno una luce da spegnere, una sedia da rimettere al suo posto. In quel momento lì, ne sono sicuro, quel cileno dirà qualcosa di bellissimo.

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Cervelli in foga

Ho raccontato in classe un aneddoto che ho appreso in una conferenza. L’ho semplificato a dovere, un po’ per mediare il linguaggio degli scienziati davanti a dei cuccioli, un po’ perché dubito pur’io di aver capito proprio tutto tutto tutto per benino. Insomma, sembra che il loro – il loro = degli adolescenti – sia il miglior cervello che un essere umano ha a disposizione in vita. È a 15 anni che guidiamo, spesso privi di patente, una Ferrari, una Porsche, una Lamborghini. Piano piano, in seguito, ci adattiamo all’anonima  comodità di una Punto diesel. È la natura, baby, anche perché 90 anni sulla fuoriserie sarebbero insostenibili, decisamente fuori portata. Il conferenziere, molto più poeticamente, con me ha utilizzato la metafora dell’albero, mai così frondoso e fiorito come nell’età dei brufoli. Crescere, giocoforza, sarà una sorta di costante potatura, al cospetto di un tronco che una chioma troppo rigogliosa non la può proprio reggere.
E in classe ci sono rimasti male. Lusingati, all’inizio, abbacchiati alla fine, mentre ripetevano nell’aria il gesto definitivo della sforbiciata che sfronda.
Mannaggiamme.

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