Piccola posta, Res cogitans

Verremo perdonati te lo dico io da un bacio sulla bocca

Cara baciatrice di celerini,

in 1503 ti avranno già ricordato il Pasolini di Valle Giulia, che non ho motivo di pensare tu non conoscessi già, anche prima di stampare il tuo bacio sulla visiera di quel giovane poliziotto.

Saprai quindi come quel tuo gesto – anche in nome di uno straordinario precedente letterario – non possa in alcun modo venir ascritto a nessuna categoria o espressione di quel variegato mondo che è la sinistra. È troppo evidente in quella vicenda come l’anello debole, quello verso cui far scattare la solidarietà naturale non possa essere tu. Dovendosi accomodare “dalla parte del torto”, tanto per scomodare un altro Grande, qualunque progressista sceglierebbe la compagnia di quel ragazzo del sud finito dentro una divisa così come si imbocca una strada forzata. Tuttavia, lungi da me darti della “figlia di papà”: essere più fortunati, “nascere qui anziché lì” non è certo una colpa.

Quello che volevo segnalarti, coraggiosa dispensatrice di baci, è invece il punto dove davvero sbagli, dove il tuo discorso – pescato nelle interviste che hai concesso – non si regge in piedi. Cadi a mio avviso su quel solito epiteto: “pecorella”. Lui, il celerino, ha secondo la tua opinione scelto di sottomettersi, di vivere rasoterra, manovrato dall’alto. E il suo, su questo hai ragione, non è certo un lavoro per creativi e spiriti critici. Ma tu, credi davvero di essere così libera? Io non ne sono così convinto. Credi di scrivere il tuo copione, ma in realtà sei scritta. Rispondi a un cliché, interpreti un personaggio già mille volte sulla scena. Chiunque abbia qualche familiarità con le pagine di un quotidiano potrebbe indovinare come la pensi su un sacco di faccende di questo mondo. Io credo di potercela fare, e te lo dico consapevole di essere pure su molti temi perfettamente d’accordo con te. Perché, visto e considerato che di te conosco solo un piccolo insignificante gesto? So cosa pensi di Obama. So perfettamente cosa potresti rispondere (parolacce comprese) a uno che ti chiede se stai con Cuperlo, Renzi o Civati. Conosco le tue idee sulla crisi e sull’Europa. Ti posso elencare i libri che hai letto. Perché? Il celerino che hai baciato potrebbe avere sul comodino un titolo che mi sorprenderebbe. Tu no, penso. Eppure sei una lettrice vorace. Chi è più pecorella? Tu, che sei convinta che lui i libri non li legga e io lo so.

Sai come avrebbe dovuto finire questa storia?

Con un gesto spiazzante, molto più del tuo.

Quell’uomo in divisa avrebbe dovuto sollevarla, la visiera. Avrebbe dovuto slacciare quello scomodissimo caschetto. Avrebbe dovuto stringerti forte a sé e ricambiare quel tuo gesto un po’ esibizionista con un vero bacio appassionato, con la lingua, forte ma non per questo privo di dolcezza. Un bacio che finisse lì, chiaro, e che facesse ridere tutti i presenti. Anche i militari di grado superiore, soltanto con un po’ più di contegno, sotto i baffi.

Avresti gridato alla violenza, avresti detto “lasciami”. Vedi come sei prevedibile?

Però alla fine avresti capito anche tu e lui, se avessi aspettato che smontasse da quello stressantissimo turno di lavoro, ti avrebbe offerto un caffè.

 

Saluti e baci. Anzi no, soltanto saluti, ché ti ho già abbastanza presa per il culo.

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Vite che non sono la mia

Da qualche tempo prima di andare a dormire clicco su Repubblica.it e dedico le mie penultime energie (le ultime spettano di diritto al libro che ho sul comodino) a Il mondo in un minuto, piccolo compendio quotidiano di fotografie dal pianeta. Gli scatti che mi colpiscono di più finiscono spesso a fare da copertina al mio profilo su Facebook.

Mentre compio questo piccolo rito, sono sfiorato da un pensiero ricorrente: l’oriente mi sembra più fotogenico dell’occidente. Mi stupisco dell’ingenuità di questo assunto, che so demolire dialetticamente anche da solo, ma tant’è: mi capita di rimanere incantato davanti ad un mercato popolare di Giacarta più che davanti ad un corteo di operai messicani, davanti ad un panorama di Taiwan prima che dinnanzi allo skyline di Toronto.

La faccio breve e confesso di sentirmi una merda per aver guardato le immagini provenienti dalle Filippine con gli stessi occhi di quando metto in scena il mio “premio fotografico” delle sere qualsiasi. Ho visto la bellezza dove avrei dovuto sentire soltanto la compassione. Ho benedetto il talento ma anche la fortuna di chi ha saputo incastonare una bambina disperata nel mosaico dei fili elettrici ingarbugliati ai rami; ho trovato spettacolare una moto guidata da un padre in fuga, passeggeri due figli piccoli e due enormi orsi di pezza.

Dal poco che so di quell’arcipelago lontano è riemerso poi questo video, che credo domani mostrerò ai miei giovani virgulti, con la storia pazzesca degli abitanti del cimitero di Navotas, a Manila. Un affresco di vita, occhi spalancati, salti e corse a piedi nudi messo in scena direttamente nel teatro della morte.

Ma ci son ricascato, quella è di nuovo la bellezza.

Di vite che non sono la mia*.

 

Above and Below from Stefan Werc on Vimeo.

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Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

Avere gli anni di una carezza, di un pianto leggero

La sera in cui per la prima volta ho visto Federico Tavan ero seduto in quarta fila. Uno scrittore di fama (prima che si riciclasse come sabotatore di cantieri…) e un grande fotografo stavano presentando un volume realizzato a quattro mani”. Spiegavano il perché di quell’impresa, la natura del loro rapporto, le dinamiche di una fruttuosa collaborazione. Spiegavano, ma nessuno poteva ascoltare. Tavan, infatti, camminava inquieto in fondo alla sala. Parlava a voce alta, infervorato, teatrale, imprigionato da una vitalità ingestibile, travolgente. Io non sapevo chi fosse, quell’uomo, e ovviamente mi sembrava strano che nessuno intervenisse censurandolo, invitandolo ad uscire. Gli organizzatori di quell’evento, ad esempio. Niente, tutti zitti con gli occhi rivolti ad uno scrittore muto e gli orecchi ricolmi delle parole incomprensibili di un matto.

Poi ho capito che quell’uomo era un poeta, uno dei più grandi. E che tutte quelle persone, silenziose e rispettose, conoscevano i suoi versi.

 

No stéi domandâme ce tanç ans che ài

 

Ài i ans

de Pasolini e Leopardi

del passero solitario

e de Silvia

dei fugulins

ch’i no clarìs pì

al cjant dei crics.

Ài i ans

de un nin

che la mestra

à trat davour la lavagna

parceche al era

cjatif e brut.

Ài i ans

de un Jesu Crist

ch’a no’l puarta

nissun lare

in paradis

de una carecja

de un vaî sutil

de un acuilon

sbregât dal vint.

Ài i ans

di una riduda

de un gjat

pecjacât

dai compagns de zouc

d’un ospedâl

a catordes ans

e d’una mare

ch’a resist

de un par cui nasce

al éis comunque biel.

 

[Non chiedetemi quanti anni ho. Ho gli anni di Pasolini e di Leopardi, del passero solitario e di Silvia, delle lucciole che non rischiarano più il canto dei grilli. Ho gli anni di un bambino che la maestra ha cacciato dietro la lavagna perché era brutto e cattivo. Ho gli anni di un Gesù Cristo che non porta nessun ladro con sé in paradiso, di una carezza, di un pianto leggero, di un aquilone strappato dal vento. Ho gli anni di un sorriso, di un gatto preso a calci dai compagni di gioco, di un ospedale a quattordici anni e di una madre che resiste, di uno per cui nascere è comunque bello.]

 

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