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Il neo di Michela Murgia sul volto della Sardegna

«Il volto della Sardegna l’abbiamo già cambiato».

Lo scriveva su Twitter Michela Murgia, il 15 febbraio 2014, a poche ore dalle elezioni regionali.

Sarebbe bello oggi dicesse che non era vero, che quella frase era frutto di un calcolo, la mossa scontata di chi sa di non aver fatto breccia nel cuore degli elettori – ultimi sondaggi alla mano – ma prova comunque a soffiare sulle tiepide braci di un sogno già svanito.

Non era vero, il volto della Sardegna nella migliore delle ipotesi si darà una sciacquata con l’acqua di mare e una grossolana soffiata di naso, si toglierà un po’ di quelle cacchette dagli occhi, come al risveglio da un sonno pesante, ma sarà più o meno lo stesso.

Il 10% (salvo sorprese ormai poco probabili, scrivo alle 15.00) è troppo poco, soprattutto se calcolato su un elettorato già fortemente mutilato dall’astensionismo e in presenza di una potenziale fettona di popolazione di area grillina orfana di candidature pentastellate.

La candidatura della scrittrice di per sé era legittima e benvenuta, il rischio di far vincere la destra nell’ansia di smarcarsi a sinistra faceva parte del gioco democratico, a patto di assumersene pienamente la responsabilità politica e di riuscire ad enunciare senza remore davanti al mondo l’equivalenza (cara a Grillo) di Pd e Forza Italia.

L’importante è non pronunciare la bestemmia del volto cambiato all’isola, soltanto perché una minoranza ha rimirato compiaciuta se stessa dentro un piccolo, piccolissimo specchio. Sopravvive nel paese un estremismo di retroguardia, irrimediabilmente senza popolo, che non smette di piacersi e di guardare la realtà dall’alto di torri d’avorio finissimo.

Il volto del popolo, intanto, si nasconde altrove, refrattario al cambiamento. Più della giovane scrittrice, impressionano i tanti continentali – politici, giornalisti, intellettuali – saliti sul carro sgangherato della Murgia soltanto per averci visto il sassolino che può inceppare gli ingranaggi del nemico, salvo infischiarsene delle battaglie per l’indipendentismo e delle altre paturnie identitarie dei Sardi. I loro preziosi endorsement scenderanno presto a posarsi su qualche nuovo cavaliere senza macchia, pronto a cambiare il volto di un’altra città, di un’altra regione, di un’altra isola. Con un piccolo neo, ma volete mettere il fascino di un neo?

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Fiu

 

Il braccio destro va su e giù, asimmetricamente, nervoso, sembra quello di una cantante gospel che si accompagna schioccando le dita.

Le labbra si muovono, si richiudono ermeticamente al termine di ogni frase. La bocca si arriccia.

Il corpo dondola – di qua, di là – come la lancetta di un metronomo.

La voce trema.

Il capo sale, il capo scende, il capo conferma: ebbenesì.

E poi c’è quel sospiro, alla fine, dopo il salto, il tuffo, il volo.

Fiu.

Ellen Page che dice al mondo di essere lesbica.

Americans do it better.

 

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Enrico e Matteo come Tina e Dominique

 

Voglio dimenticarmi per qualche istante di essere quel fine politologo che sono. Voglio mettere tra parentesi il mio lucido sguardo sulla situazione economica, le mie idee sul futuro del paese, financo il mio bagaglio pesantissimo di studi sulle dottrine politiche e sulle forme di governo.

Voglio ragionare con il candore di un bambino.

Voglio alzare il ditino e suggerire a Renzi & Letta, a Letta & Renzi, di trarre ispirazione da un fatto accaduto oggi alle Olimpiadi di Sochi.

E se la risolvessero così anche loro?

Facile, no?

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Cineserie, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Non dirmi che hai paura

Preso da una strana euforia, l’8 agosto del 2008 ho pubblicato un post con un elenco di persone importanti, e mi ci sono infilato. In comune quegli umani avevano soltanto il fatto di trovarsi contemporaneamente nella stessa gigantesca città. L’8 agosto 2008 a Pechino cominciavano i giochi della XXIX Olimpiade. Ricordo le grandi manovre davanti a quello stadio pazzesco, a due giorni dal via. Ricordo i bambini cinesi che sbucavano dai vicoli per abbracciarti e augurarti il benvenuto in città. Ricordo la cerimonia d’apertura vista alla Tv cinese, accompagnata da un primitivo liveblogging. Ricordo tanto, è una mia caratteristica, ma non ricordo Samia. Eppure Samia c’era ed era bellissima, avvolta negli abiti tradizionali del suo paese, la Somalia, dentro una delegazione sparuta e spaurita. Da qualche giorno, da qualche ora, mangiava come mai aveva mangiato e come mai più avrebbe fatto, e dormiva per la prima volta su di un letto degno di quel nome.

La sua storia l’ho conosciuta per la prima volta nel 2012, in un pezzo della scrittrice Igiaba Sciego, ed ora – romanzata senza stravolgimenti – è finita nel libro di Giuseppe Catozzella. Si legge in un fiato, e il racconto di una vita finisce per somigliare al percorso dei 200 metri piani. Quei giorni a Beijing 2008 stanno sulla curva, prima del rettilineo delle lunghe falcate, prima di dare tutto.

C’eravamo io e George Bush, quel giorno a Pechino. Con noi c’erano Lula e Laure Manadou. C’era anche Putin, e lui ci sarà anche a Sochi, pensa un po’, venerdì. C’erano migliaia di atleti e c’era soprattutto Samia Yusuf Omar.

 

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