Sto camminando al centro dell’aula. In mano la pila dei quaderni. Ci sono le parole belle che hanno scritto per casa, vanno lette pubblicamente come si leggono le notizie urgenti. Lo faccio sempre, lo faccio alle 8 di mattina. Mentre ancora sbadigliano e, nonostante gli sforzi pedagogici di Topo Gigio, si stanno ancora stropicciando la faccia con le mani piene di microbi. Cade un foglio da uno dei quaderni che stringo goffamente sotto il braccio, una vecchia fotocopia. È colpa mia, voglio reggere troppe cose oltre a quei 28 occhi curiosi. Mi chino a raccogliere l’A4 piegato in due, mi rialzo di scatto e – capita anche a voi, no? ditemelo, vi prego, che capita anche a voi… – la testa è una trottola e mi fa girar come fossi una bambola. Ma non mi butta giù, mi spavento soltanto e cerco per qualche istante la cattedra, dovrebbe essere lì, da qualche parte. Mi siedo per continuare a leggere, sposto il registro di classe, faccio come niente fosse e mi rituffo dentro i corsivi selvaggi che ho strigliato di rosso passione.
«No, non lì. Se si siede lì mi sembra un prof…».
Seduta sul banco ad ascoltare, perentoria come sa essere, con quella vocetta che a volte è un vulcano e a volte è un soffio. Questa volta è un soffio. Faccio una pausa, poi continuo.
Mi girava la testa, adesso mi gira la vita perché non so più cosa sono.