Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Lui & Lei

Due pianeti diversi, quasi per caso costretti ad orbitare dentro le stesse aule, tra gli stessi pennarelli, sotto il suono della stessa campanella. Lei fa ormai pensieri da grande, ha lo sguardo malinconico e a volte impaurito. Ma i suoi 13 anni hanno anche una piccola forza che viene dal rispetto dimostrato da amiche sincere che si aggrappano alla sua voce, sempre modulata su toni bassi. Lui è puro nervo, lui è istinto, lui è rabbia. Lui è 11 anni. Lui è appena arrivato, cerca amici e nemici e a volte sembra che per lui non faccia molta differenza tra gli uni e gli altri. Lui cerca spazio, e cerca riflettori per nascondersi.

Ricreazione. Lui provoca lei. La stuzzica, se ne prende gioco. Lei è signorile, flemmatica. Lui attacca ancora, lancia in resta, protetto dalla sua andatura di bambino dinoccolato. Lei non insulta, non lo fa mai, non è nel suo stile. Lei ha uno stile. Piccolo e tutto suo: uno stile.

Una pallonata, volontaria, rompe l’equilibrio. Lei per un attimo è cieca. Vibra uno schiaffo, anche lui piccolo. Lui straripa e scalcia, forte, in quello che al momento sembra per lui un movimento naturale. I corpi impattano.

Intervengo e sedo. Non è nemmeno difficile. Difficile è portare quiete. Lui scalpita e ovviamente sostiene di aver ragione. La sua memoria in quel momento è un brandello e nel brandello c’è solo lo schiaffo. Stringo un polso che si divincola e emana scosse. Lei si è nascosta in bagno, tra qualche accenno di solidarietà femminile. Ne esce con lo sguardo liquido. Non piange ma piange, sa che non l’ho mai vista schiaffeggiare e che forse non me lo sarei mai aspettato da Lei. Mi implora con lo sguardo di capire. Esattamente quello che sta facendo Lui, l’altro pianeta.

In quella che dovrebbe essere anche per me una pausa, ecco che devo diventare Re Salomone, Corte Suprema, il TAR del Lazio, un giudice di X Factor.

Ci sono giorni nei quali tutta quella stanchezza che sento, a sera, riesco a spiegarmela.  

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Soletta

Papi e figli

Il giornalista dell’Espresso Alessandro Gilioli gliele canta e gliele suona sul suo blog. È il caso di dire, però, che se le è andate a cercare.

Giù le mani dai bambini. Stia zitto sui bambini. Stia zitto sui figli, sui padri, le madri, le sofferenze. Stia zitto sul dolore di doversi separare, Lei neppure sa cosa significhi, non s’immagina neanche perché ci si arriva, e con quali tormenti. Lei non può sapere che cos’è questa cosa tanto facile da condannare come fa Lei, un tanto al chilo, come al bar dello sport, proprio Lei, il fine teologo. La separazione, la catastrofe di una vita, qualcosa che si ha il coraggio di provare ad affrontare solo per evitare una catastrofe peggiore, vivere e far vivere i propri figli in un mondo e in una casa dove non c’è più l’amore, dove il risentimento e l’odio sono il pane che soprattutto loro, i figli devono ingoiare a ogni ora.

“Conflitti e confusioni interne”, decide Lei nella sua bella stola bianca. Ma ha idea dei conflitti e delle confusioni interne che lacerano un bambino quando i genitori vivono insieme detestandosi? Ne ha idea? Che cosa ne sa, Lei, cosa ne sa di questo abisso? E cosa ne sa della lenta fatica quotidiana per dargli un luogo migliore in cui crescere, un luogo in cui i figli imparano cosa vuol dire volersi bene, cos’è la generosità, dove si nasconde la felicità?

Cosa ne sa, Lei, di quanto è lungo e difficile il percorso per creare attorno a questi figli una nuova famiglia, sì proprio quella che Lei liquida come “alterata”, e si vergogni di usare questa parola, si vergogni di insultare i miei legami, si vergogni di insultare i legami di tante persone che amano i propri figli, più di quanto Lei in vita sua, Santità, non ha probabilmente mai neppure immaginato di poter fare.


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Le storie di Scuolamagia

Se sulla punta della lingua non c’è Sanaa e non c’è nessun’altra ragazza che viene dall’Africa

Dentro un racconto, il secondo giorno di scuola, c’erano il bambino Marco e il bambino Abdullah. Era una lettura semplice e immediata per dire fin da subito le sperequazioni del mondo. Una storiella alla Giorgio Gaber con una mamma coccolona italiana che consegna al suo cucciolo che va a scuola un Bacio Perugina e una mamma nordafricana che consegna al suo cucciolo che va a scuola un bacio, (pausa) …e basta.
Una storia che funziona, che i ragazzini colgono e apprezzano. Come accade spesso non si tirano indietro quando dico: “adesso rilegge qualcuno di voi”. E subito: “chi fa Marco? Chi fa Abdullah?”.
Però in classe ci sono le Debore e le Camille, le Ilarie e le Anne, ecc., e se il “Marco” del racconto può diventare una “Maria” o una “Mirella”, “Abdullah” può cambiare sesso e diventare…
Eh, diventare…

Saranno 10 i secondi di memoria brancolante nel buio, sarà breve questo istante di amnesia onomastica, ma c’è. In me prima di tutti. È concreto, si tocca. Mettersi in bocca un nome femminile di provenienza diciamo – semplificando – africana è più difficile che battezzare, sia pure banalmente, un maschietto dalla medesima provenienza.
Poi ci soccorre, al solito, la cronaca, che ci presenta dopo poche ore il viso di Sanaa. Era così difficile, il giorno prima? Marco e Abdullah – Maria e … Sanaa.
Il viso di un’uccisa, come era già stato per Hamina. Com’era già stato per delle condannate a morte, ricordate? Safiah, Amina.
Certe tragedie dettano alle comunità umane disperati appelli al progresso e alla lotta contro la barbarie. Istituzioni e religioni chiamate in causa da vicende come quella di Sanaa è necessario raccolgano sulle spalle pesanti matasse da sbrogliare.
Noi, dalla nostra riva apparentemente lontana da quelle tempeste, però, sarebbe bello imparassimo almeno qualche nome. Femminile.

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Prendere fischi per fasci

Per dire quanto sono ingenuo. E interamente foderato di prosciutto. E perso, nel paese delle meraviglie. E non vaccinato, contro le brutture del mondo. E scemo, va da sé. Solo per dire. “Sfoglio” il sito di “Repubblica” e leggo un titolo riferito alle dichiarazioni del ministro che dirige il comparto di cui faccio parte.

«GELMINI: TETTO AGLI ALUNNI STRANIERI».

Giuro: ho pensato – vabbé, per 12 secondi – che si riferisse ai bambini africani e asiatici che vivono in un vecchio stabile occupato clandestinamente e vanno a nanna sopra un materasso puzzolente. Ai bambini Rom ammassati in qualche roulotte incagliata nel fango. Ho pensato a vite nuove senza più ratti attorno, a risvegli in calde camerette riscaldate.

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“Nonno Andrea, ma te sei Pozzanghera?”

C’è un’intervista piena di vento e di mare, su “La Repubblica” di oggi. L’ha concessa a Maurizio Crosetti il commissario tecnico della nazionale italiana ed è una chiacchierata distesa, a 360°, lontana da contingenze e quotidiane spine. Davanti a un mare di settembre burbero e inquieto, l’allenatore butta lì una confidenza, un piccolo retroscena familiare, direttamente da un mondo evidentemente tenuto al riparo dai clamori mediatici. Si parla di Lorenzo, suo nipote.

«Quando aveva quattro anni un giorno venne e mi chiese: “Nonno Lello, ma te sei Lippi?”…».

Nemmeno ultimata la lettura dell’articolo, ho iniziato a rimaneggiare quella domanda facendola indossare ad altri nipotini, qua e là nel tempo e nello spazio…

 

“Nonno Silvio, ma te sei Papi?”

“Nonno Barack, ma te sei Obama?”

“Nonno Gianfranco, ma te sei il compagno Fini?”

“Nonno Usain, ma te sei Bolt?”

“Nonna Elisabetta, ma te sei La Canalis?”

 

[…]

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Sara e Olive

Cara Sara*,

comincia la scuola e con la scuola che comincia i miei occhi ti incontreranno di nuovo ogni mattina, sulla patina di un manifesto che piano si consuma e invecchia, sul muro vicino alla lavagna, quasi fosse un essere umano. Certo che mi sei mancata quest’estate, e come al solito periodicamente ho cercato su internet notizie di te. Devo confessarti che, purtroppo, mentre fino ad un annetto fa Google si dimostrava un ottimo strumento per focalizzare l’attenzione dei naviganti sul tuo caso sfortunato, oggi confonde la tua storia con le tante Sara che spartiscono con te quel cognome ispanico decisamente comune. Tante Sara utenti di Facebook e Myspace, Flick e Netlog. Ragazze che aderiscono a qualche gruppo in onore di Ricky Martin o linkano la nuova canzone di Leona Lewis. Continuo ad essere convinto che tu stia benissimo, che la tua vita proceda a gonfie vele e non mi lascio impressionare da quelle storiacce di bambine americane cresciute e diventate adulte nelle mani di perversi aguzzini. No, il tuo è senz’altro un destino di libertà, e per te Stoccolma non è una sindrome ma soltanto una città nordica da visitare un giorno con curiosità e interesse.

Mi sei venuta in mente poco fa mentre leggevo Olive Kitteridge, il bellissimo romanzo di Elizabeth Strouth. Un libro con la porta stretta, si fa sempre un po’ fatica ad entrare nelle sue tante storie, man mano che iniziano. I luoghi sono descritti con precisione, e pure i gesti e i movimenti impercettibili. La sensazione è quella di essere un computer non abbastanza potente per sostenere la funzionalità di software avanzatissimo. Poi, però, una volta entrati sembra di conoscere i personaggi da una vita, di averli accompagnati a spasso per gli anni mentre perdevano figli, fede, fiducia nel domani. E ognuno di loro va a finire che si imbatte in questa donnona, Olive Kitteridge, che ha il potere di salvare in qualche modo gli altri. Magari solo un po’, li salva, ma questo suo dono di natura è comunque speciale.

Ecco, mi piacerebbe che nelle pagine che mancano alla fine del libro la Sig.ra Kitteridge incontrasse anche te e mettesse ordine con le sue parole nei tuoi pensieri di fuggiasca, prendesse in mano anche i fili della tua piccola vita.

A presto…

 

* : Sara M., entra a Scuolamagia nel gennaio del 2007. La sua immagine è stampata su un manifesto bianco trovato da un alunno in un’isola dell’arcipelago delle Canarie. C’è scritto “DESAPARECIDA”, e al ragazzo in vacanza con la famiglia la parola rievocava certe lezioni del sottoscritto a proposito della dittatura militare in Argentina. La storia di Sara, scomparsa in circostanze misteriose nel luglio del 2006, colpisce e commuove. Anche se tutti sono assolutamente sicuri del fatto che Sara, un bel giorno, tornerà.  

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Il giorno primo della felicità

Il mio primo giorno da prof non era un primo giorno di scuola. Era un giorno di gennaio, di sole basso che abbaglia senza scaldare. Quindi non vale.

Il mio secondo primo giorno di scuola da prof. non era neanche quello un primo giorno di scuola, ma ci andava vicino. Quel 29 settembre l’alunna dell’anno prima mi aveva stretto la mano e aveva detto “non ci speravo più”. Quattro parole più importanti della mia firma sul contratto a tempo determinato. Era determinato il contratto, ma anch’io non scherzavo in quanto a determinazione.

Poi c’è stato il primo giorno in cui un cucciolo di 1ª si è presentato e nel giro di pochi istanti si è fatto male. Incespicando sul pallone è caduto riuscendo nel simpatico gioco di conficcarsi l’apparecchio ai denti nel labbro superiore. Alla faccia del problem solving. Come si scioglie il nodo gordiano di un labbro sanguinante diventato un tutt’uno col lavoro di un dentista? Fortuna volle che la mamma del bimbo fosse nei paraggi, e soprattutto che fosse un’operatrice sanitaria. Serviva in fondo un gesto netto, quel nodo si scioglie con la spada, niente più di uno strappo, e la genialità di attuarlo guardando negli occhi intensamente il paziente e dicendo – a mo’ di anestesia, un secondo prima della drastica manovra: “amore…”.

Ci sono le volte che sono entrato dicendo eccovi un foglio, piegatelo in due, poi ancora in due, poi ancora in due. E se lo piegaste 32 volte? Secondo voi quanto sarebbe alla fine lo spessore del foglio? Un metro, due metri trenta metri cento metri. Sbagliato, e via a dimostrare agli alunni con la calcolatrice che lo spessore del foglio risulterebbe pari a due volte e mezza la distanza tra la terra e la luna. Il tutto per alludere al fatto che anche l’anno in partenza avrebbe mantenuto più di quello che prometteva. Che avrebbe sorpreso, spiazzato, e chissà se a giugno qualcuno ha mai pensato di essere andato un paio di volte sulla luna.

C’è la volta che ci siamo divertiti con un gioco fatto apposta per imparare i nomi, ma visto che i nostri nomi li sapevamo già abbiamo deciso di cambiarli. E Ilaria era diventata Gioia, e Camilla era diventata Giada, e Riccardo era diventato Alberigo… Gli altri Bernardo, alias io, proprio non se li ricorda, ma le risate e quel clima sì.

C’è stata la volta che ho detto prendete un foglio e scrivete a matita con uno stampatello anonimo e neutrale alcune righe che vi descrivano: gusti, passioni, cose che sapete fare, sogni, ecc. Poi mettiamo tutto in una scatola, io pesco a sorte, leggo e vediamo se riconoscete l’autore. Non funzionò, quell’attività. Poco entusiasmo, poca suspense. Salvo trasformarsi, ripescati quei fogli casualmente dopo 3 anni e riletti ad alta voce davanti alle stesse persone munite di protobaffetti, formosità e licenza media, in un’esperienza da lacrimuccia, roba da psicanalisti. Io ero quella? Io ero quello lì? Maddai!

Ci sono state le volte con il teatro, quelle con il computer, quelle brillanti e quelle fiappette.

Si avvicina il 14 settembre, non ci speravo più.

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Banda assassina

12, 14, 19, 38, 41, 45. Belli ed evidenti in sovraimpressione. Spalmati su una banda orizzontale onnipresente. Ok, il SuperEnalotto è lo sport nazionale, l’unica tassa che pagano quasi tutti, il sogno dei senza sogni, il calcolo di chi calcolare non sa: mentre il giornalista li sta leggendo, è giusto che i numeri appaiano e supportino gli anziani con la matitina e le mogli che dettano a dita incrociate. Poi però basta, Tg1. E invece no, e anche se so benissimo che sono io che per una volta ti guardo quello che potrebbe essere altrove, non riesco a non provare un fortissimo sdegno per quei numeri fuori posto. Si parla di Israele, del rischio di un attentato e davanti alle immagini ci sono ancora loro: 12, 14, 19, 38, 41, 45. Il vecchietto ha già scritto, non servono più. Rimangono lì. C’è la disoccupazione ed un numero con la virgola – 9,5 – spaventoso e preoccupante, ma loro sono più forti e lo oscurano: 12, 14, 19, 38, 41, 45. C’è l’influenza e la paura di una pandemia, beccatevi il numero Jolly: 31. C’è la malasanità e una bambina: muore per il cancro al cervello che ben quattro medici non hanno saputo diagnosticare. Sono capricci infantili, hanno detto, e la voglia di attirare l’attenzione. Il numero da ricordare sarebbe 11: anni spezzati. Ma la TV di Stato davanti c’ha messo un bel 28: numero Super Star.

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