Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Angeli cadere mai ma scivolare sul cielo…

Prima di assegnare il tema dell’angelo custode, mi prende sempre una strana frenesia. Premetto ai ragazzi che ovviamente non ci credo, agli angeli custodi; che mi piace un sacco l’idea di “custodire qualcuno”, a esserne capaci, ma niente creature alate e asessuate: quelle proprio no. Poi, però, confesso di averci creduto parecchio, e di averci lavorato forte con la fantasia, da piccolo. Ricordo di essermi inventato – generalmente accadeva prima del sonno – un team di angeli tutto per me. Un battaglione che si arricchiva di un elemento ad ogni compleanno. Auguri, piccolo, sono il tuo nono angelo. Ne immagino 34, oggi, e per più di una ragione visualizzo anche un plotone d’esecuzione pronto ad abbatterli.
Poi cominciano a scrivere. E io, come sempre, resto lì a guardarli. Cominciano col dargli un nome, all’angelo. Fedele, Dodo, Angelino (uau, come quello di Berlusconi…), ZX Pasticcione. Poi iniziano a snocciolare situazioni di vita di cui ero all’oscuro e nelle quali hanno davvero rischiato la pelle. Loro, così fragili, così ingenui di tutto. Eppure hanno già visto le pale di un elicottero chiamato a soccorrerli, hanno toccato quel palloncino strano che i grandi chiamano airbag. Sono volati dalle loro biciclette. E intanto scrivono, scrivono. E appoggiano la testa sulla mano, la matita sul labbro. Consumano fazzoletti rincorrendo starnuti. Bevono dalla bottiglietta di succo di frutta, rileggono a bassa voce, giocano coi riccioli. E ce la fanno. Senza angeli, a parte uno piccolo che al massimo ti regala un apostrofo o un accentosullaè.

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Non c’è vita sul pianeta scuola

È un grosso equivoco e personalmente ci sono sempre cascato. Pensare che la scuola sia più di quel che è, sia la dimensione totalizzante che con tutta evidenza NON È. Però ripeto: ci si casca. E si dicono ai ragazzi parole definitive che si ha l’impressione possano distruggerli… E loro dopo due ore fan volare un aquilone e cento sorrisi sopra un prato, e si baciano e fanno capriole, goal, danni, budini e impennate. Oppure si allestiscono lezioni gioiose, sorprendenti e si pensa di aver sollevato in volo quelle giovani anime. Che invece, con certe zavorre extrascolastiche, sono rimaste a guardarti dal basso. Povero illuso di un prof.

A pag. 57 del suo nuovo romanzo, Alessandro Baricco sembra mettere le mani avanti e sgombrare il campo. Il bene e il male dei suoi protagonisti non nasce a scuola, non si sviluppa a scuola, non viene studiato e men che meno capito a scuola. Ci sono quattro righe isolate dal resto del racconto con due ampi spazi bianchi, sopra e sotto.

 

«Naturalmente andiamo a scuola, ogni giorno. Ma quella è una storia di avvilente degrado, e inutili vessazioni. Non ha nulla a che vedere con quanto ci sentiamo di definire vita

 

Non sempre è così, ma ci può stare.

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Se ne sono andati

Una delle rubriche che rendevano unico il giornale “Diario” s’intitolava SE NE SONO ANDATI. Stava lì, nella penultima e nella terzultima pagina. Era un ricordo sincero di persone e personalità scomparse nel corso della settimana appena conclusa. Poteva mettere fianco a fianco un africano affogato nel Mediterraneo e un leader politico xenofobo, un violoncellista e un vecchio partigiano. C’era il rispetto che si deve ai morti, e nella tradizione del giornale si respiravano idee e la morale di quelle favole concluse.

Oggi SE NE SONO ANDATI potrebbe ospitare “Diario” stesso, che se ne va duro e puro come ha vissuto. Non scendendo mai a compromessi con nessuno e in primo luogo con la pubblicità, anima del commercio. A patto di vendergliela, l’anima.

Mi chiedo ora se non si sarebbe potuto dare spazio a qualche modella ammiccante, inserire qualche campioncino di crema idratante, offerte telefoniche e non soltanto copertine di libri serissimi di editori amici. Per volare un po’ più a lungo e un po’ più lontano. I numeri di “Diario” li conservo come fossero volumi d’enciclopedia. Era il mio giornale e ora mi sento un po’ orfano. SE NE SONO ANDATI, rimaniamo noi ma siamo più poveri.

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Dei bambini non si sa niente

Nella mia classe ci sono tanti simboli. Sopra l’interruttore della luce c’è una foto di Erminie Da Pesariis, la centenaria che ogni giorno ci ricorda l’importanza delle parole chiare. A fianco della lavagna c’è Sara la desaparecida, anche lei a suo modo allegoria di molte cose. In fondo all’aula c’è il grande drago di cartapesta, ex oggetto scenico in uno spettacolo teatrale, contenitore di tutto un po’. Con i suoi dentoni e i grandi occhi di polistirolo ci parla quotidianamente di condivisione, di ciò che è mio ma anche tuo. C’era una foto (in realtà un ritratto di Pericoli) di Calvino, ma mi pare che non ci sia più. Ci sono immagini autori letti, di Benni, di Riccarelli, di Baricco e di Favetto. Di Marco Paolini e di Don Milani. C’è il logo di Caterpillar. C’era una maschera teatrale, un volto ruvido e terribile, rappresentava – quindi ecco un altro simbolo – la faccia del terremoto in un altro dei nostri eventi teatrali.

Sono legato ad ognuno di questi oggetti. Ognuno di questi oggetti mi ricorda momenti emotivamente indimenticabili e veicola valori decisamente universali. Ma ognuno di essi è perfettamente inutile. Perché loro, i ragazzi, guardano altro. Non lo so se sia un bene o un male. Quando giocano a pallacanestro nella bocca del drago mettendo a rischio la sua dentatura, quando sparano stoppini in faccia a Sara, quando si stacca lo scotch dietro la testa di Baricco e quella chioma riccia resta lì ciondolante senza nessun soccorso, ecco, quando tutto questo accade penso che sia un male. Ma è così. Non è nemmeno vero che la giovinezza impedisca loro di guardare verso il passato, verso la tradizione, per una qualche propensione al futuro. No, non guardano nemmeno avanti. Guardano altrove. A volte credo abbiano negli occhi cose bellissime, a volte che prevalgano i colori del dubbio, le sfumature dell’incertezza.

Certe mattine hanno negli occhi cose che il giorno dopo non ci sono già più. Figuriamo se possono riempirli di simboli millenari.

Quelli sono roba nostra, di noi adulti, e ha un bel dire Luca Sofri che forse è ora di smetterla di tirare in ballo i piccoli nelle nostre beghe estemporanee di grandi. Hanno altro a cui pensare, i cuccioli. E nelle loro parole ci sono sassi fiumi torrenti pioggia ragni fiori merda e stelle. Zero simboli, e le astrazioni tacciono come crocifissi.

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“…è terra che mangio per vivere ancora”

 

Di Alda Merini era più bello sentir parlare Maurizio Milani, messa lì accanto all’Uomo Cisterna, all’Uomo Putrella o a Giovanni Rana. Comunque andasse, il pezzo finiva lì, non era completo. Sempre meglio delle facili equazioni da salotto tv, da costanzoshow: la follia e la poesia, la poesia e la solitudine, il manicomio e gli scavi nell’animo umano.

Oppure è bello ricordarla nella canzone di Vecchioni, a lei dedicata, con quel postulato dalla folgorante evidenza:

 

«…perché basta anche un niente per essere felici

basta vivere come le cose che dici…».

Eh, auguri…

Restano gli scaffali con la scritta “poesia”, pieni di Lei. Quelli che mancano nelle librerie dei centri commerciali. Quelli che domani saranno presi d’assalto.

 

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