Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il marciapiede per Torino, sì lo so…

La sento più di sempre, questa Gita. C’è una classe speciale da accompagnare. Si aspettano tanto, e io ho promesso tantissimo. E c’è Torino e tutta la soggezione che mi mette.
Vi lascio le chiavi della Pozzanghera, come al solito. Fate i bravi, mi raccomando. Vi lascio anche una cosa bellissima da leggere, qui. Racconta di due colori, il blu e il nero, come davvero non li avete mai visti. E racconta di un uomo – come ne vedete ogni giorno, e chissà quanti ne vedremo noi a Torino. Delle storie come la sua sappiamo poco, quasi niente. Le storie come la sua, forse non le possiamo nemmeno capire.

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

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Complice Buuuuu, il libro di Luigi Garlando che sto leggendo in classe con gli alunni più piccoli, a Scuolamagia stiamo studiando Mario Balotelli. Fossimo all’università, diremmo “Fenomenologia di Mario Balotelli”. Un’indagine a 360°. Un italiano che è un prisma di cui indagare le infinite facce, andando oltre.
Il romanzo narra in realtà la storia di un altro ragazzo specialissimo, diverso di una diversità tutta particolare, e di un intero quartiere che è uno spaccato dell’Italia multietnica del 2011. Balotelli – quello vero – tra i protagonisti, e in copertina, mi sembrava un tocco decisamente trash. E invece tout se tient, miracolosamente. Lo scrittore, poi, dimostra di saper creare un mondo giovanile credibile, e non solo perché nei vari capitoli i ragazzini indossano magliette Abercrombie e i calciatori sfrecciano a bordo di Bmw X6.

Balotelli, dicevamo. Balotelli, avrei detto, soltanto oggi ci fosse stata l’ora di italiano (sarebbe stata la seconda, dalle 9.00). Le cronache – non i romanzi – riferiscono che ha vinto 28.000 euro al casinò, e che ne ha donati immediatamente 1.000 ad un clochard di Manchester.
Ne vogliamo parlare?
Gran gesto?
Solo mille?
(Cosa c’entra Ruby?)
No, però, alzate la mano ché così è un pollaio.

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Il cuore di Diamanti

Quando ripeto ai cuccioli che le frasi devono essere brevi, brevissime. Fiammate. Che c’è tempo per imparare a scrivere i propri pensieri in maniera più complessa e arzigogolata: tutta una vita. Prima bisogna saper sciogliere le parole in un galoppo veloce che respiri spesso. Quando con la mano faccio calare una sorta di paratia stagna davanti ai loro occhi ed è soltanto uno dei tanti punti che dovrebbero infarcire i piccoli temi, i fragili riassunti, le brevi risposte. Ecco, ogni qual volta a scuola tento di insegnare (ma si può?) una buona scrittura, penso a Ilvo Diamanti e alle sue bussole, e alle sue mappe. A volte esagera. I suoi non sono periodi – sono spari. Però arrivano, però colpiscono. Però che ritmo.

Poi oggi incrocio questo pezzo. E non ci sono le solite statistiche, non ci sono le solite curve. Non c’è la società italiana con le sue tante fette. C’è un uomo che parla col cuore. Il suo, e non è una metafora.

L’ho sentito arrivare che stavo a casa mia, pronto a recarmi a un incontro, dove mi attendevano molte persone. A discutere di cambiamenti sociali, culturali, religiosi. Mi ha fermato un dolore muto. Più che un dolore, un senso di oppressione al di sotto della bocca dello stomaco. Tanto che ho pensato a un’indigestione  –  la sera prima, sul tardi, avevo mangiato la pizza con un amico. Non dovrei, perché la digerisco a fatica, ma mi piace. E a volte  –  poche – transigo. Sono rimasto lì ad ascoltare questo dolore muto, che non accennava a diluire, a perdere intensità, nonostante l’attesa. Nonostante qualche palliativo. Non l’avevo mai provato. Non richiamava il pericolo che tutti, alla mia età, temono. L’Incombente, che ti aspetta all’angolo della strada, in qualsiasi momento della tua vita. Ti aggredisce. All’improvviso. Non avevo dolori al torace, alle spalle. Solo questa pressione allo stomaco, che si allargava e si acuiva. Ma io sapevo, ne ero certo, che era lui. Stava arrivando. E non l’ho atteso.

Ho avvertito mia moglie: “Portami all’Ospedale subito. Sta arrivando”.
CONTINUA…

 

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Tutta colpa di Giuda

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Nel grigio cortile, tra invalicabili mura, sta piovendo a dirotto. Kasia Smutniak, che interpreta una regista teatrale impegnata in un progetto all’interno del carcere di Torino, urla ai suoi allievi detenuti la chiave di lettura scelta per mettere in scena uno spettacolo sulla passione di Cristo.   

«Senza la croce, lo faremo senza la croce. Il figlio di Dio si è fatto uomo: e che cosa vuole un uomo? Vuole soffrire? Vuole morire? No!!! E allora cosa vuole un uomo, eh? La felicità. Vuole essere felice, porca miseria, vuole… vuole vivere e allora noi sogneremo il mondo senza dolore, qui e adesso. Senza Giuda, senza tradimento, senza processo, senza la condanna, senza la croce, senza la pioggia, senza il cemento!» 

Al mattino avevo scritto sulla lavagna 4 buoni motivi per guardare tutti insieme Per colpa di Giuda di Davide Ferrario, uno di quei film sfuggiti al grande pubblico impegnato a discutere dell’eterna crisi del cinema italiano a costo di perdersene i frutti più onesti ed originali.
1. La pellicola è girata in un carcere e gli attori sono dei detenuti.
2. C’è il teatro, ci sono le cose che facciamo a scuola quando prepariamo uno spettacolo, dagli esercizi propedeutici alle prove. Emozioni, entusiasmi e scoramenti compresi.
3. C’è un cameo di Lucianina Littizzetto e a Scuolamagia, in 3ª, un’alunna quotidianamente la emula con fiera vivacità.
4. Il film è ambientato e girato a Torino, la città che visiteremo a fine mese in gita scolastica.

Al termine di una scena di raccordo, una veduta notturna del penitenziario, la mia voce ha coperto per pochi secondi la colonna sonora. Mi sembrava utile una precisazione. Il canto femminile in sottofondo era quello delle carcerate, che stanno in un’altra ala della struttura, non si vedono nel film, ma ci sono anche loro.

«Coooosaaaaaa?»

Un rombo: è la sorpresa di Francesco.

«Anche le donne finiscono in carcere? Ma non è sempre colpa degli uomini?»

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Addentando una mela che sa di fuga

Salgo sul Frecciabianca delle 18.35 dopo aver preso al volo dall’edicola l’ultima copia di “Repubblica”. Salgo in carrozza e dopo pochi chilometri del quotidiano ne ho già abbastanza. Provo con Scalfari: 4 righe e scappo altrove. Mi informo sulla Libia e su Lampedusa, su quello sì, e chiudo con l’amaca di Michele Serra. La leggo come fosse un elzeviro del “Corriere”, però. Non è giornata, chiudo il giornale e mi abbandono alla musica nelle cuffiette. Il mio vicino, un africano sui 40 anni, mi chiede se può, e le sue dita lunghe e affusolate indicano il giornale di Ezio Mauro. Certo che può, ma mi stupisco. Perché l’italiano che ha usato con il controllore, poco dopo la partenza, era a dir poco approssimativo, e nelle due telefonate a cui ha risposto ha sfoderato prima un saldo francese e poi una lingua misteriosa che sapeva di baobab ed elefanti.
E allora ho potuto rileggere in qualche modo la copia del mio quotidiano. L’ho fatto guardando gli occhi di quell’uomo entrare nel senso di ogni pagina. Nelle foto, nelle carte geografiche, nei numeri. In quei linguaggi universali. Inutili gli editoriali, superflui i commenti e le didascalie. Con le dita magre d’ebano sembrava seguire i contorni dei visi: una donna, un’insorta libica. Sembrava assaggiare i sapori delle cose: nelle pagine culturali c’era una dotta riflessione sul carpaccio. Non il pittore, il modo di cucinare il manzo. E poi lo sport, con un derby da rivedere grazie ad alcune immagini e un risultato numerico bene in evidenza.
Ho letto un uomo che leggeva con occhi che io non ho più da una vita, se mai li ho avuti. Quell’immersione è durata un’ora. Lo stesso tempo per ogni pagina: tutto aveva la medesima importanza. Tutto da scoprire.
“I lavori che noi non vogliamo più fare”: spesso chi arriva da lontano trova questa destinazione. Sono molte altre, le cose che non vogliamo/sappiamo più fare. Come leggere un giornale. O come scappare. Correre, veloci. Via, in salvo. Con quelle facce. Scappare. Via. Altrove. Dovunque. Vicino, lontano, scappare. A piedi nudi, via! Con le scarpe firmate che fanno incazzare la Lega. Via dalla Lega, verso i paesi della Lega. In culo alla Lega. Scappare, foera de i ball. Con quelle facce lì, che noi non sappiamo fare più. E che al massimo scappiamo da un verboso editoriale sul giornale della domenica.   

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