Stream of consciousness

Andrea

donada2

Premessa: prego astenersi cinici lettori allergici a sentimentalismi ricordi strazianti e affini.

Quando quattordicenne mi sono trasferito in questa cittadina, c’ho messo un bel po’ prima di “inserirmi”, ammesso poi di esserci riuscito. Ricordo giorni di acre solitudine e la sensazione di essermi perso. Ricordo anche i pomeriggi affacciato a guardare dalla finestra aperta un fuori che mi spaventava: la strada, le macchine, i negozi, le urla dei bambini che giocavano a pallone. “Ehi, vieni giù!”, fece una di quelle voci. La voce di un piccoletto di 8 anni. Andai effettivamente giù – io, molto più grande di quei marmocchi – e mi sentii per la prima volta ACCOLTO. Un’oretta pomeridiana da allora la passai così, e quei bambini li vidi crescere. Più tardi, al liceo, quando dovevo studiare tanto mi limitavo ad appollaiarmi sulla finestra con il libro di latino: un po’ leggevo, un po’ facevo la telecronaca. Quel bimbo vivacissimo quanto dolcissimo è decisamente cresciuto, il lavoro che si è scelto sembra un lavoro sicuro, la sua voce è diventata una bella voce di cantante per hobby. Purtroppo ci siamo persi di vista, come succede. Il piazzale sotto la mia finestra era quello dietro il negozio dei suoi genitori, nel quale oggi si reca ormai sporadicamente e quando magari io chissà dove sono. Oggi parlo di lui perché, giovanissimo, si è sposato. Oltre alle solite pippe sul tempo che passa, getto nella pozzanghera il rimpianto per non averlo incontrato per strada nei giorni scorsi, Andrea, per essermi perso l’imbarazzo di non saper cosa augurargli per il suo matrimonio e non riuscire a dirgli grazie per quel “vieni giù”, detto a uno sconosciuto 17 anni fa.

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