Niente Serata della Memoria, tutta colpa della neve. Se ne riparla venerdì sera, il copione sarà lo stesso, il clima (non atmosferico) – immagino – anche. Eppure oggi in me è rimasto un vuoto, sarà per quella solita faccenda che a “noi” mancano i riti, e i riti in qualche modo appartengono all’uomo. Ma poi: chi siamo “noi”? E quante altre cose mi separano da tutte le altre frazioni di quel “noi”, quante cose frantumano quel “noi” in tanti individui brandello.
Ho trascorso gli ultimi dieci giorni dentro le pagine di un libro bellissimo, una raccolta di diari di ragazzini travolti dalla Shoah. Nell’introduzione, la curatrice ricorda che forse siamo stati tutti vittime della sindrome – anche questa umana troppo umana – di Anna Frank: ne abbiamo presa una che li valesse tutti. Una sola storia, una sola fotografia, un sorriso divenuto icona. Abbiamo voluto tutti bene alla piccola Anna, nonostante – questa è un po’ la tesi del libro – con la sua vita occultata non possa rappresentare lo stereotipo del bambino nell’Olocausto. I bambini nell’Olocausto hanno visto di più, hanno sofferto di più, hanno scritto molto e molto di quanto hanno scritto è andato perduto. Soprattutto hanno scritto in luoghi in cui nessun adulto avrebbe avuto il coraggio di scrivere.
Il mio compito è stato quello di estrarre da quest’antologia i piccoli brani che i miei alunni più piccoli (1ª e 2ª) avrebbero dovuto leggere stasera e che invece leggeranno venerdì. Ho conosciuto così Moshe, Eva, Tamarah, Charlotte, Macha, Janina e Janine. Ho pensato per ore a chi abbinare le loro storie, chi dei miei cuccioli si sarebbe arrabbiato o incupito o spaventato come in quella determinata pagina. Ho pensato a chi tra le mie alunne avrebbe avuto le spalle abbastanza larghe per leggere delle donna che partorisce in strada, percossa e abbandonata, una bambina nata già orfana e battezzata Ghettala. Ho preso una decisione, ho detto “tocca a te” e mi veniva da ridere, ieri, mentre compilavo la pagella della ragazza prescelta, consapevole che quei numerini sarebbero dovuti servire a “valutarla”.
I ragazzi di 3ª, invece, hanno (ri)costruito un vagone ferroviario, un vecchio vagone piombato. No, purtroppo in nulla somigliante al modello fotografico scaricato da internet. Chiediamo al Prof. di passaggio, a lavoro ultimato: “Cos’è? Indovina…”. Lui ci conosce bene, sa a cosa stiamo lavorando e prova: “Una camera a gas…”. Sconforto generale, delusione palpabile, ma almeno il mio collega non è un lefebvriano.
Dietro quelle vecchie panche ammassate tenute insieme dallo spago i miei 4 attori si cimenteranno con qualcosa di nuovo – per loro, per me. Nessuno spettatore li potrà vedere, saranno solo suoni, passi, urla, sospiri, piccoli oggetti che rimbalzano sul legno, rumore di latta percossa. Saranno corpi costretti, corpi nel buio. È stato bello scrivere e provare il testo, è stato divertentissimo (!). Mi sono sentito vecchissimo nel sentire soltanto io la contraddizione e il senso di colpa per quelle risate lavorando a raccontare il male assoluto. Ho provato a trattenerle, le risate, poi ho capito che avevano ragione loro e che non c’era niente di male nell’essere felici anche mentre si scrive la storia di un treno che marcia verso Auschwitz. L’importante era scrivere. L’importante era non ridere del tragico soggetto che si stava rappresentando. Ma se un giovanissimo attore si impappina e fa ridere, gli altri attori ridono. Punto.
Buona memoria.