Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Stream of consciousness

Perdere il perdersi

È venerdì e guido tornando da scuola. Niente pomeriggio in Bibliotecamagia, niente corso di chitarra con i cuccioli. La testa mi fa troppo male. Alla quarta ora ho guardato la mia alunna I. durante il test di storia. “Sei adorabile, ma la tua vocina da 37.000 decibel sopra il MI maggiore della principiante è una condanna a morte. Scusa piccola, hai ragione tu, ha ragione la tua voce che non sta mai ferma, ma oggi va così”. Questo ho pensato, sentendomi in colpa. “La crocetta nella domanda 13 non va lì”. Questo ho detto, per non sentirmi più in colpa.

In macchina verso casa, dicevamo. Col mal di testa, col sole in faccia. “Ci vorrebbe il balsamo di tigre”, mi ha appena suggerito l’alunno della quinta ora. Bravo, ci vorrebbe.

Non ho voglia di musica. Pacifico l’ho ascoltato fin troppo, Malika Ayane non la conosco ancora così bene. Gian Maria Testa dal vivo parla troppo e non viene al dunque. Sheryl Crow non funziona, la voce di P!nk mi fa l’effetto dell’alunna I. I Baustelle son cerebrali e io ho la bua proprio lì. Boccio Fossati e le Indigo girls, Adriana Calcanhotto e Suzanne Vega. Boccio tutti, sono o non sono un prof.?

Prima di spegnere l’autoradio e concentrarmi interamente su curve e incroci intercetto su non so quale frequenza un tizio che parla di quello che è destinato a scomparire, di quello che c’è stato, c’è ma presto non ci sarà. Dice pure le date. Fa i funerali alle cose.

I CD, una decina d’anni e non esisteranno più. Non mi sorprende, gli autori che ho appena passato in rassegna stanno tutti dentro due Verbatim masterizzati, album di cui non conosco nemmeno la copertina.

La radio (sostituita da qualcosa di analogo in rete, però…).

Le lettere cartacee, con l’indirizzo scritto sulla busta.  

La parola “Sorry”, e non sono riuscito a capire perché. Sorry…

Il punto e virgola, ucciso dai messaggini e dalle mail frettolose; possiamo sopravvivere, no?

Perdersi.

Sì, il “perdersi”. Non ci perderemo più. Troppi marchingegni pronti a scovarci e a rimetterci sulla retta via. Troppi “occhi” che ci guidano scandagliando ogni anfratto di mondo. Tutti i luoghi saranno presto catalogati e descritti dentro tecnologie minuscole e facilmente fruibili. Non staremo più immobili davanti a un bivio: di qua o di là?, non gireremo mai più a vuoto in un dedalo di vie. Non arriveremo più in ritardo perché ci siamo persi, non aspetteremo più qualcuno che probabilmente si è perso.

Niente più “perdersi”, e mi sa che ci perderemo tutti qualcosa.

Standard
Cineserie, Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

O Andrea o Disint

Luca, Mattia, Manuel, Nicola, Stefano, Francesco, Michele, Martina, Martina, Martina e Marina. Altri undici alunni che si affiancano aglii undici consueti. Più piccoli, però: si tratta di cuccioli della scuola primaria in trasferta a Scuolamagia per una serie di lezioni d’informatica.

Due ore ogni settimana il mercoledì pomeriggio: più faticose di 2 settimane di insegnamento tradizionale con i ragazzi delle medie. Perché  chiedono, domandano, inquisiscono. Alzano le mani e le voci. Si appoggiano e si aggrappano. Vogliono fare e fanno, vogliono creare e creano.

E chiamano, soprattutto chiamano.

Mi chiamano Prof., e ci sta.

Mi chiamano Maestro e ci sta pure quello.

Mi chiamano Maestra e con la barba di tre giorni ci sta un po’ di meno (e mi fa ridere).

Mi chiamano Disint e prova a contraddirli… carta (d’identità) canta.

Mi chiamano Disi, e questa è una deriva onomastica partita quest’anno in prima media…

Mi chiamano Andrea, così, spontaneamente, finché qualche adulto – purtroppo – non spiegherà loro che non possono.  

 

Oggi stavano lavorando all’inserimento nel computer di un gran numero di immagini di grandi città. Due bimbe scelgono una foto di Shanghai con in bella vista la Jin Mao Tower. Io mi vanto di aver bevuto una camomilla a pochi piani dalla sua vertiginosa vetta e indico la finestra precisa del grattacielo, o pressappoco. Prima mi danno del millantatore. Io giuro sul giurabile e una di loro decide di scriverlo sul documento inserendo una freccia e un’opportuna casella di testo. Detto e fatto: “lassù Andrea ha bevuto una camomilla”.

All’altra bimba i conti non tornano.

È basita.

“Non ci vuoi proprio credere…”, faccio io.

“No, ci credo, ma tu non ti chiami Disint?”

     

Standard
Tutte queste cose passare

Approfondire stanca

Parole che stupiscono, che non ti aspetti, che devi come rileggerle anche se a pronunciarle è stata una voce, un eloquio stanco dal volume e dai toni bassi. Poteva dire “calvario”, “inferno”, “tempesta” e “orrore”, Beppino Englaro ieri sera in TV. Poteva parlare degli ultimi 17 anni della sua vita dicendo “lotta” e “trincea”, “rabbia” e “disperazione”. Poteva e non avrebbe fatto altro che usare gli stessi termini che hanno usato tutti – amici e nemici – invadendo il campo della sua “tragedia”. Appunto: anche “tragedia” avrebbe potuto dire.

E invece no.

La pozzanghera è nata per guardare le parole che ci finiscono dentro, per vederle sguazzare, per vedere i riflessi inaspettati che producono.

Beppino Englaro ha chiamato quel tempo lunghissimo “APPROFONDIMENTO”.

Standard
Res cogitans, Soletta, Tutte queste cose passare

Cattivi Hip Hopensieri

A Gianni Mura ogni tanto scappa un rap…

 

Passa la ronda. Avvista, sonda, controlla i “clanda”, sposta la tenda, guarda la bionda, forse è un’oriunda. Non è una banda che si nasconda: non ha una benda, non ha una fionda nella mutanda. Cavalca l’onda, gioca di sponda. Chi ne risponda è la domanda alquanto blanda. È chi comanda che ce la manda, la raccomanda. Non è l’Olanda, non è l’Uganda che ci circonda. A Samarcanda la luna è tonda e l’anaconda una leggenda. La ronda monda. La notte è fonda.

 

“La Repubblica”, 22.02.2009

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Due italiani e 30.000 argentini

Il ragazzino sgrana due occhi terrorizzati e mi inchioda alle parole parziali che ho appena pronunciato. È un mattina di ottobre e non so perché da una normale lezione di educazione civica (io la chiamo alla vecchia maniera) si sia finiti nell’Argentina della fine degli anni settanta, a parlare di corpi scomparsi e gol di Mario Kempes, di madri coraggiose e militari vigliacchi. Tutto in realtà filava piuttosto liscio, ché i cuccioli sono più abituati agli orrori di quanto si possa pensare, finché quelle due pupille mi hanno chiesto di essere più esplicito, di abbandonare ogni reticenza.

«Perché erano nudi?»

«Perché li lanciavano nudi nei fiumi e nell’oceano?»

Non ho nemmeno risposto io, c’è stata una sorta di risposta collettiva dei compagni, qualcosa sui jeans che sono pressoché indistruttibili, al massimo si sgualciscono un po’, ed ecco coniugato nel tempo della chiarezza il tristo verbo “desaparecer”.

 

Il ragazzino di mestiere fa il ragazzino: ridere, correre, combinare guai, fare scherzi, nascondere oggetti, dire parolacce, maneggiare joystick, colpire pali e traverse. Fa già anche i conti con l’etica, però. E s’indigna e s’intorcina, e cerca in ogni cosa la giustizia. 

 

Quest’uomo, invece, di mestiere fa il Presidente del Consiglio.

Standard
Imago, Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Lezione su Ekaterina Gordeeva

 

Sapevo di entrare in classe con una specie di asso nella manica. La storia di Ekaterina Gordeeva, infatti, funziona sempre. Ci sono tutti gli ingredienti della migliore letteratura e la scrittura di Emanuela Audisio – parole che “fanno vedere” – pensa al resto.

Ci siamo seduti, era la quarta ora, e ho cominciato a leggere. Ho letto io, sì, perché c’erano quei nomi russi complicati che in prima battuta avrebbero costituito un piccolo intralcio. Poi hanno riletto i ragazzi, e le loro voci hanno scandito bene “Serghiei” quando le letterine dicevano “Sergei”.

gordeevagrinkov

Per chi non avesse voglia o tempo di leggere il racconto: Ekaterina e Sergei sono due star del pattinaggio artistico russo, plurimedagliati a Calgary e Lillehammer, 1988 e 1994. Pattinano in coppia da quando erano ragazzini. Ekaterina da quando era una bambina, a dirla tutta. La squadra russa li costringe ad una rigida simbiosi. Poco male, per una volta: i due sono fatti l’uno per l’altra e nascosti sotto i fogli di un giornale si danno un bacio sul pullman che li trasporta da un palazzetto del ghiaccio all’altro, da una vittoria ad un trionfo. Se ne daranno tanti altri e tra le due olimpiadi faranno una bambina che pare la somma delle loro bellezze e delle loro grazie.

Una favola che si interrompe bruscamente e proprio sul ghiaccio, con Sergei Grincov che si accascia colpito da infarto. Per Ekaterina, che come sempre sta volando al suo fianco, una pugnalata un colpo di fucile un’onda che porta via. Uno schiaffo da cui non ci si riprende. Non la si trova un’altra ala con cui volare. Proprio non si può. Il pattinaggio di coppia è quella fiducia lì, è quell’affidarsi costruito nel tempo, così perfetto forse anche grazie a quei baci coperti di carta di giornale.

Porto in classe questa storia anche perché c’è dentro lo sport che non ti aspetti, lo sport solidale degli antichi rivali che non hanno dimenticato Ekaterina e che hanno deciso di fare qualcosa per risollevarla dall’inferno dov’è precipitata dopo la scomparsa del compagno. C’è una festa sul ghiaccio, ci sono proprio tutti e vogliono che ci sia anche Ekaterina, con la sua piccola Daria.

Sono finalmente riuscito a trovare le immagini di quella sera all’Hartford Civic Center, nel Connecticut . Era il 27 febbraio 1996. La mia lezione si è chiusa così, grazie a quel meraviglioso collega prof. che sa essere YouTube se s’impegna, con la bocca di Ekaterina a scandire parole che non si sentono ma che è bello e persino facile immaginare.

Si è chiusa con tutti quegli occhi lucidi, dentro il computer e anche fuori.

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il 12 nel 17 ci sta una volta col resto di 5

Una mattina qualsiasi, come può esserlo una mattina così. Un’ora di storia, un’ora di italiano, un’ora – la terza – mezza di storia e mezza di geografia. Qualche risata, ché i cuccioli di prima mi hanno chiesto di “parlare” in latino e io ho risposto quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campo: un esametro che funziona sempre, molto più divertente di una battuta di Berlusconi.

La campanella della ricreazione conduce i cuccioli verso l’aula dei computer. Un piccolo fiume di felpe colorate e tramezzini, treccine e kinderbueno. Sono gli intervalli vagamente asettici di questi tempi innevati; non è colpa loro se il cortile è un iceberg che non si scioglie.

In giorni così monitor tastiera e mouse mi sembrano quasi colleghi affidabili, non li demonizzo, mi sembra attraggano la fantasia e non la imbriglino per nulla.

C’è la ragazza nella postazione numero 2 che usa le mappe di Google. Dolcissima è sempre dolcissima, ma oggi, mentre cerca il padre che lavora all’estero, lo è in maniera travolgente. Eccolo, è lì, nel ristorante quello colla piscina. La piscina è un quadratino blu.

Alla ragazza della postazione 1 ho appena attivato un indirizzo di posta elettronica. Dopo aver digitato la password – il suo cane, ovviamente – è già tempo di mandare la prima mail, un piccolo rito di iniziazione.

Al computer 3 e al computer 4 si creano fotomontaggi con Photofunia e si discute di social network: meglio Facebook o meglio Netlog?

Qualcuno corregge, su carta, un post per il suo blog, qualcun altro sbuccia mandarini.

Due fanciulle sedute sul tavolo nominano Eluana e la cosa più misteriosa di tutte: quei 17 anni.

Cosa sono 17 anni per chi ne ha visti soltanto 12?     

Standard
Senza categoria

Il y a longtemps que je t’aime

temps aime

C’è un film nelle sale che fa relativizzare lo schifo di queste ore, e allontana un po’ il disgusto per le parole volgari, per le ingerenze sui corpi umani e sui corpi sociali. C’è una frase, nel film. La dice una madre che ne ha passate di tutti i colori (perfino peggiori di quelle di chi ha la vita appesa alla “sensibilità” di Berlusconi…), ma che è rimasta immobile lì, davanti a ciò che le è accaduto e che ha fermato tutto. Per sempre.

 

«La peggior prigione è la morte del tuo bambino, da quella non si esce mai»

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Il maestro Beppino

Pensiamoci, il quadro è questo. Tutti dicono urlando che bisogna coprire il dolore di silenzio. Tutti dicono che il medico ha detto che la ragazza non è più quella delle fotografie, che sono passati 17 anni e che forse è il caso di pensare che un corpo cambia in 17 anni, specie se non si può più muovere ed è alimentato artificialmente. Sicuro, e intanto tutti conosciamo a memoria la foto con la racchetta da sci e gli occhiali da sole, quella col cappello, quella della doccia, quella colle mani incrociate sul petto, quella coi capelli che cadono alla destra del viso, quella del padre che mostra quella coi capelli che cadono alla destra del viso. Non è solo questo, il quadro. Il quadro sono Fini e la Prestigiacomo che sembrano molto più indignati di Veltroni, il quadro sono porporati che parlano parole violente, aggressive, senza pietà (e viene in mente la vignetta di Bucchi, su “Repubblica”, ieri: “Provengo da una famiglia tradizionazista…”), il quadro sono i giornali on line che regalano alla vicenda Englaro la parte alta dello schermo, quella che conta, ma sempre un centimetro sotto la notizia rossa e lampeggiante: FIORELLO FARÀ IL SUO SPETTACOLO SU SKY.

E allora, se il quadro è questo, bisogna guardare oltre il quadro. E bisogna dire grazie al signor Beppino. Esistono luoghi, fuori dalle Tv e dai giornali, fuori da facebook e anche dalle chiese. Piccoli luoghi semplici, dove non c’è un giornalista ma magari c’è un bicchiere di vino, ci sono le briciole di una cena, la buccia di un’arancia. Luoghi dove si dicono cose importanti, dove si dice “povera quella ragazza”, dove si dice “che dignità, quel padre”. Si dice anche, probabilmente, “io con mio figlio non lo farei”, si dice anche “non è giusto”, si dice anche questo. Più raramente, immagino, ma si dice e anche quel pensiero deve un grazie a Beppino Englaro e alla sua battaglia. Chi difende a oltranza la vita non era mai riuscito a farci toccare così da vicino il suo confine con la morte. Chi per mestiere e vocazione dovrebbe avvicinarci quotidianamente alla pietà ha smesso da tempo di agire sulle nostre coscienze. Supplisce, il signor Beppino. E insegna. È un supplente, comunque la si pensi. Un po’ rude, come un maestro di una volta. Di quelli che vibrano sberle, e ce le meritiamo tutte, e ce le meritiamo tutti.

Standard
Res cogitans, Stream of consciousness

La pianista

Colpivano di più le dissonanze, nel quadretto di ieri al grande centro commerciale.

Due stivaletti imbottiti a pigiare i pedali, quasi dei “doposci”, coperte per piedi perennemente infreddoliti.

Il pianoforte a coda nero si stagliava in mezzo alla grande piazza su cui confluiscono le entrate di negozi gremiti all’inverosimile.

Quel che colpiva, però, erano le dissonanze. Il maglione di lana grossa, di un improbabile lilla, sformato, un maglione “dastareincasa”, un maglione “dastarealcaldo”.

Le note riempivano il primo pomeriggio delle cassiere in pausa, dei mattinieri già stremati dagli acquisti, oberati di borse e borsette.

Ma il vero concerto, era il concerto delle dissonanze. Il cellulare grosso e consumato, e acceso, esibito sul leggio a fianco dello spartito, consultato il doppio, nella pausa tra i brani.

Il piccolo concerto, davanti al bancone dei caffè e dei cappuccini, prevedeva pezzi di Ludovico Einaudi, riconosciuti (bella forza!) dopo un indice e un medio sulla tastiera, e pezzi di Beethoven, non riconosciuto, scorto in caratteri grandi e neri sopra il pentagramma candido.

Dissonante: la mano sgraziata, quasi uno schiaffo rabbioso, lesta a girare la pagina senza perdere il ritmo. Dissonante: il sorriso assente, simile forse solo a quelli di certi babbinatale controvoglia, sorriso triste da pomeriggi d’infanzia passati ad odiareamare lo strumento visti trasformarsi in questa prostituzione da “cosamitoccafarepercampare”.

Nessun’applauso, nessuna moneta. Il finale è uno spartito che si chiude e affonda in un invicta vecchio e liso. Che se ne va, e il mio caffè s’è già freddato.

Standard