Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Tra le pagine chiare e le pagine scure

Non accampo scuse, ma le alternative sono davvero poche. Se ho voglia di radio, il giovedì mattina a quell’ora, rientrando da scuola, in quel punto della valle alpina posso sintonizzarmi soltanto su…

Radio Tre Scienza, e uno se la deve vedere coi neutroni, i neutrini e le scimmie cappuccine del Brasile.

Radio Maria, e uno deve fare i conti con Dio in persona.

Fabio e Fiamma e la loro “posta del cuore”.

Altre stazioni non pervenute, solo qualche piccolo inascoltabile vagito perso tra i fruscii.

Oggi nel programma che ho scelto (uno di quei tre…) si disquisiva di donne che piangono durante la notte macchiando irrimediabilmente di rimmel la federa del cuscino.

Io non so come funzionino certi meccanismi della mente e della memoria, ma la conduttrice ha chiuso il piccolo dibattito con un ascoltatore (che riteneva facilmente evitabile l’inconveniente cosmetico) con un’azzeccatissima quanto inconsapevole citazione.

 

«Anche se ti strucchi, il rimmel è così…

e qualcosa rimane…»

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Soletta, Stream of consciousness

“Le parole non mi conoscono”

Qualcosa a che fare con una definizione di innocenza. Questo ho pensato che ci fosse in quel titolo. Il titolo di una canzone scritta in un’encomiabile scuola romana dove da anni una maestra ed un maestro integrano bambini di ogni provenienza attraverso il canto. Una spettacolare definizione di innocenza. In un titolo. L’ho letto su “L’Unità”. Ho cercato un sito, ho cliccato per ascoltare il file audio, purtroppo non si è aperto, la pagina dice “error”. Non importa, va bene lo stesso. Quel titolo – quella definizione – bisogna pensarlo in bocca ad un bambino del Bangladesh.

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Imparare (l)a memoria

Niente Serata della Memoria, tutta colpa della neve. Se ne riparla venerdì sera, il copione sarà lo stesso, il clima (non atmosferico) – immagino – anche. Eppure oggi in me è rimasto un vuoto, sarà per quella solita faccenda che a “noi” mancano i riti, e i riti in qualche modo appartengono all’uomo. Ma poi: chi siamo “noi”? E quante altre cose mi separano da tutte le altre frazioni di quel “noi”, quante cose frantumano quel “noi” in tanti individui brandello.

 

Ho trascorso gli ultimi dieci giorni dentro le pagine di un libro bellissimo, una raccolta di diari di ragazzini travolti dalla Shoah. Nell’introduzione, la curatrice ricorda che forse siamo stati tutti vittime della sindrome – anche questa umana troppo umana – di Anna Frank: ne abbiamo presa una che li valesse tutti. Una sola storia, una sola fotografia, un sorriso divenuto icona. Abbiamo voluto tutti bene alla piccola Anna, nonostante – questa è un po’ la tesi del libro – con la sua vita occultata non possa rappresentare lo stereotipo del bambino nell’Olocausto. I bambini nell’Olocausto hanno visto di più, hanno sofferto di più, hanno scritto molto e molto di quanto hanno scritto è andato perduto. Soprattutto hanno scritto in luoghi in cui nessun adulto avrebbe avuto il coraggio di scrivere.

Ragazzi in guerra e nell'Olocausto. I loro diari segreti

 

Il mio compito è stato quello di estrarre da quest’antologia i piccoli brani che i miei alunni più piccoli (1ª e 2ª) avrebbero dovuto leggere stasera e che invece leggeranno venerdì. Ho conosciuto così Moshe, Eva, Tamarah, Charlotte, Macha, Janina e Janine. Ho pensato per ore a chi abbinare le loro storie, chi dei miei cuccioli si sarebbe arrabbiato o incupito o spaventato come in quella determinata pagina. Ho pensato a chi tra le mie alunne avrebbe avuto le spalle abbastanza larghe per leggere delle donna che partorisce in strada, percossa e abbandonata, una bambina nata già orfana e battezzata Ghettala. Ho preso una decisione, ho detto “tocca a te” e mi veniva da ridere, ieri, mentre compilavo la pagella della ragazza prescelta, consapevole che quei numerini sarebbero dovuti servire a “valutarla”.   

 

I ragazzi di 3ª, invece, hanno (ri)costruito un vagone ferroviario, un vecchio vagone piombato. No, purtroppo in nulla somigliante al modello fotografico scaricato da internet. Chiediamo al Prof. di passaggio, a lavoro ultimato: “Cos’è? Indovina…”. Lui ci conosce bene, sa a cosa stiamo lavorando e prova: “Una camera a gas…”. Sconforto generale, delusione palpabile, ma almeno il mio collega non è un lefebvriano.

 

Dietro quelle vecchie panche ammassate tenute insieme dallo spago i miei 4 attori si cimenteranno con qualcosa di nuovo – per loro, per me. Nessuno spettatore li potrà vedere, saranno solo suoni, passi, urla, sospiri, piccoli oggetti che rimbalzano sul legno, rumore di latta percossa. Saranno corpi costretti, corpi nel buio. È stato bello scrivere e provare il testo, è stato divertentissimo (!). Mi sono sentito vecchissimo nel sentire soltanto io la contraddizione e il senso di colpa per quelle risate lavorando a raccontare il male assoluto. Ho provato a trattenerle, le risate, poi ho capito che avevano ragione loro e che non c’era niente di male nell’essere felici anche mentre si scrive la storia di un treno che marcia verso Auschwitz. L’importante era scrivere. L’importante era non ridere del tragico soggetto che si stava rappresentando. Ma se un giovanissimo attore si impappina e fa ridere, gli altri attori ridono. Punto.

 

Buona memoria.    

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Qualcosa da infuriare

Una mia Prof. mi diceva sempre che dovevo amare quello che scrivevo. Quando i miei temi funzionavano, certo, quando il voto era alto, ma anche e soprattutto quando qualcosa andava storto. Era quello il momento di cercare comunque il buono, la piantina sana dentro l’erbaccia delle parole fuori posto. Così diceva la mia Prof., in un tempo in cui quello che dicevano le Prof. era quasi sempre vero.

Ci penso adesso, mentre correggo compitinclasse nonostante il malditesta…

C’è Francy che ha scelto la traccia n. 2, la “traccia di attualità che più di attualità di così si muore” – così ho scritto nel foglietto delle consegne – e si è messa nei panni di Obama davanti a quel mare di speranza accorsa. Non so che voto si meriterà, toccherà leggere e rileggere con cura. Sicuramente si è meritata il nomignolo di “Obamina”, da mercoledì non riesco a rivolgermi a lei chiamandola altrimenti…

C’è Riccardo, con le sue parole che hanno messo in moto questi pensieri disordinati – scagliati sassolini nella pozzanghera. Riccardo sta dentro una sporca guerra che sta dentro la quarta facciata del foglio di protocollo.

 

“Fu lì che io e i miei commilitoni infuriammo una tremenda battaglia”.

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Rivoluzioncina

Pacificarsi ci si pacifica anche con notizie così. C’è un governatore donna che affronta la crisi acquistando 1000 autobus a gas e non disdegnando di salire sul raro autobus della Laicità, esista o non esista Dio.

Nel giorno di Obama, già che siamo in clima di I have a dream, vi va di chiudere gli occhi e di immaginare Mercedes Bresso a Palazzo Chigi?

(Anch’io, come Diego Bianchi Zoro, tradisco Walter, ma mi va decisamente meglio…)

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Soletta

Pacificarsi

Dopo due post scialati parlando di “quello”, oggi respiro nelle parole di un artigiano, uno che lima e leviga, spunta e appuntisce – all’occorrenza. Parole di cui avevo tanto bisogno e che stanno colorando i miei quotidiani tragitti in macchina. Ho bisogno di canzoni in cui si dica “spiccioli”, “sbucciature”, che parlino di “braccia  lunghe a gocciolare” e di un cane dal naso freddo. Avevo bisogno di un regalo così.

 

Sola, ti protegge una coperta

e niente sembra farti bene

Guardi le mani,

le vedi ingrassate,

le unghie di smalto sporcate

Quadri

pareti gialline

tendine

ditate sui vetri

Tu guardi dovunque,

chissà cosa vedi…

Basta,

non vuoi più sapere,

non vuoi più rialzarti

così non potrai più cadere

Vene,

qualcosa ti scorre lì dentro, lo sento

E sembri una foglia, una vela leggera

la barca più piccola in questa bufera

E sembri una foglia, una vela leggera,

una barca minuscola in questa bufera

 

[…]

Pacifico, Sembri una foglia

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Proprio su tutto

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«Un kapò all’interno di un campo di concentramento dice ai prigionieri che ha una notizia buona e un’altra meno buona. Quello dice: “metà” di voi sarà trasferita in un altro campo. E tutti contenti ad applaudire… La notizia meno buona è che la parte di voi che sarà trasferita è quella che va da qui in giù…»

 

Silvio Berlusconi, 17 gennaio 2009, indicando la parte del corpo dalla cintola ai piedi.

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Res cogitans, Stream of consciousness

Una risata ci ha già sepolti

Certo che mi sento scemo a scrivere un post su Berlusconi. A scriverlo 15 anni dopo il giorno in cui andava scritto. Però stai cenando, lo senti parlare alla Tv e ti cadono (in realtà è la centomilionesima volta che succede) le palle, l’umore, l’ottimismo della volontà (che sorpassa, nella discesa verso gli inferi, pure il pessimismo della ragione…), l’amor patrio, l’amor proprio, l’amor sacro e l’amor profano, l’entusiasmo, il carattere la fisarmonica e il senso del brivido, la fede nell’homo faber e nelle magnifiche sorti e progressive. Ti cade tutto.

 

Deve tranquillizzare gli elettori sulla salute dei rapporti tra i leader della sua maggioranza, il Bossi e il Fini, e dichiara:

 

«Ci siamo incontrati e ABBIAMO RISO E SCHERZATO SU TUTTO».

 

Io mi rifiuto di pensare troppo male, quindi deduco che…

Non  hanno parlato di Gaza.

Non hanno parlato della crisi, delle aziende che chiudono, dei cassintegrati.

Non hanno parlato degli sbarchi a Lampedusa.

Ma di che cazzo hanno parlato?

 

Prof., hai scritto “cazzo”…

Scusa, lo so, ma non è colpa mia se c’è uno che ha detto “ABBIAMO RISO E SCHERZATO SU TUTTO”.

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Va bene così meno meno

Facile quando ti mettevo OTTIMO. Metterti 10 mi sembra quasi volgare. I 5 non li metto quasi mai, quando è 5 devi leggere “gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare”. Bartalianamente. E infatti in quei casi ti tocca quasi sempre cominciare daccapo. Oggi ti ho messo il voto che preferisco. Non è un voto vero e proprio, è un giudizio, tu lo chiameresti “commento”. Sì, uno di quelli che faccio io, quelli che sono più lunghi del compito che hai svolto, quelli in cui vado fuori tema mentre ti scrivo che sei andata/o fuori tema. Ti ho scritto che manca qualcosa, al tuo scritto, che si vede che non c’hai messo l’anima. Ti ho ricordato che ci sarebbe stato altro da aggiungere, certo, molto altro, ma che non per questo quello che hai scritto è banale, no, tutt’altro. Ho anche ricordato a me stesso che quest’anno con la penna hai dato spettacolo, hai inventato storie divertenti e toccanti, che hai sempre curato i dettagli, hai sempre girato attorno a quei prismi che sono le cose per raccontarne più facce possibile. Sono sicuro che lo farai ancora, ho scritto anche questo. E allora, venendo al dunque, il tuo voto potresti leggerlo come un “NON VA BENE, MA VA BENISSIMO COSÌ”. Non ti chiedo di essere perfetta/o, non ho motivo di pensare che il tuo rendimento stia per calare, che la scuola sia scesa nella graduatoria dei tuoi interessi. “SEI SEMPRE TU, LO SO”, potrebbe chiamarsi anche così, la valutazione che ho espresso sul tuo lavoro. Gli occhi li tenevi rivolti verso il basso, stamattina, si vedeva che avevi paura di deludermi. No, non l’hai fatto, non mi hai deluso. E non mi ha deluso il tuo foglio a righe, ché c’erano dentro le tue parole, alcune decisamente efficaci. Eh, che voto hai preso… Ti giuro che non lo so, e poi non era nemmeno una verifica vera e propria, era un esercizio di scrittura, uno dei tanti. E ti assicuro, va bene, va bene così…

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Fiori di biblioteca (4)

 

La bambina con il nome da mille e una notte entra in biblioteca e sono subito sorrisi. Ha la faccia sporca, è un dolcissimo angelo con la faccia sporca. I sorrisi sono per i libri, per le persone, per me. C’è un sorriso per tutti. I libri presi in prestito a dicembre li ha letti tutti e quattro, le vacanze sono state abbastanza lunghe ed è ora di sceglierne altri, almeno altri due. Prende in mano il primo ed è già bellissimo.

 

La mamma con la faccia triste non ha un nome da mille e una notte. Non me lo ricordo bene, il suo nome; è aspro, però, un nome che suona di sassi, di sassi spigolosi. Anche lei ha letto i suoi libri, tomi pesanti, cose di religione, biografie di viaggiatori. Il suo viso e la sua voce rovinano i sorrisi della figlia, dice che il libro aveva già la copertina un po’ strappata, non è lei la responsabile di quel danno, è stato sicuramente qualcun altro. Mai avrei notato lo strappo, eventualmente avrei pensato che succede, a tutti, succede.

 

La bambina con il nome da mille e una notte sceglie due romanzetti minuscoli, un libro di favole e un libro di fate. Mi chiede se può compilare lei il registro dei prestiti, l’ha fatto anche l’altra volta, dice. Io l’altra volta non c’ero, ma immagino il sì della mia collega Barbara, uno di quei sì che sono come gli abbracci. Impugna la penna e scrive prima la data, un nove tondo e un gennaio con una “n” sola. Poi scrive i numeri d’inventario, basterebbero, ma vuole aggiungere i titoli. Trattiene il respiro prima di ogni parola, vuole che tutti vedano quanto è brava, lei che ha un nome da mille e una notte e un’origine meticcia.

 

La mamma con la faccia triste guarda gli scaffali e ascolta – si vede – la socialità sfrenata della sua bambina. Mi chiede da dove vengo nel suo italiano sicuro soltanto un po’ colorato dalla pronuncia di chi viene da lontano. Sa che non sono del paese. Dico il nome della mia città. “Com’è?” chiede, e ripete il nome della mia città. Io sto per dire una banalità, sto per dire “bella”, sto per dire qualcosa di inutile. Poi mi accorgo che è una domanda affamata, e che io non ho mai pensato ad un luogo in quei termini, come ad una foresta dove cacciare, come ad un pozzo dove trovare l’acqua. Dovunque io sia vissuto ho sempre trovato casa e accoglienza, senza sforzo, invece la mamma con la faccia triste è fin troppo evidente che ha attraversato un destino arduo e ingeneroso. È giovane ma deve aver lottato molto. All’improvviso ricordo le parole del giorno in cui l’ho conosciuta, qualche mese fa, sempre con i libri e Bibliotecamagia a fare da sfondo: “conosci qualcuno che cerca una donna delle pulizie?”. Niente acqua nel mio pozzo, non conoscevo e non conosco nessuno con quell’esigenza.

 

La bambina con il nome da mille e una notte si accorge che il foglio del registro su cui ha appena finito di scrivere è l’ultimo. E adesso? Adesso ne cominciamo un altro, le dico indicandole i vecchi registri, rigorosamente confezionati in casa. Mi spingo oltre, le chiedo se vuole disegnare la copertina, già altri ragazzi e bambini l’hanno fatto, in passato. Si illumina – se possibile – di più. “Però io non ho un foglio così, non ho un foglio bianco”. Un foglio A4, intende. Apro il cassetto della stampante e metto una decina di fogli in uno dei libri che la bimba sta per portare a casa, in quello più grande.

 

Il pomeriggio continua, ciao, risuona il nome da mille e una notte, la mamma è sempre triste e questo è soltanto un giorno di genaio.

 

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Appello!

Bibliotecamagia è la succursale di Scuolamagia. Apre il venerdì pomeriggio dalle 16 alle 18. Dalle 14.30 alle 16 è aperta lo stesso ma in 6 o 7 strimpelliamo re minori e fa#- e allora chi legge è pregato di fare piano per non disturbare. L’età media dei visitatori è 12,78, il vecchietto che alzava la media ha già letto tutti i libri 2 volte e forse ci tradisce con un’altra biblioteca. Sui tavoli i libri più gettonati e magari le ultime acquisizioni sono spesso coperti di briciole e questo problema mi ripropongo di risolverlo, ma è difficile senza che venga leso il diritto di merenda.

Siamo alle solite. Siamo alla solita democrazia partecipativa. Le istituzioni stanno per sganciare la grana. Del vil denaro può essere redento trasformandosi in libri librini e libercoli, volumi e tomi, cidì e divudì. Torniamo dunque allo spirito delle primarie e della prima volta, siate voi a suggerire.

Si scrive nei commenti: autore, titolo, editore.

La tabella di excel per la libreria ancora per stavolta la compilo io.

Conto su di voi.

E grazie.

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Il passo silenzioso della neve

Gli spettacoli teatrali di Scuolamagia nascono da un’opera di scrittura collettiva le cui dinamiche ancora mi travolgono (ed è entusiasmante lasciarsene travolgere) e nel contempo mi sfuggono. Piacciano o non piacciano, gli allestimenti natalizi e di fine anno, ma così è, se ci pare.

Nella primavera del 2005 la ragazza coi capelli neri era stata categorica: “…la canzone giusta dev’essere questa! È perfetta, una colonna sonora ideale”. Ricordo la cuffietta applicata al mio orecchio e delle seriose posture di ascolto. Non fu tanto perché poi il balletto avrebbero dovuto farlo loro, le mie alunne classe 1991, era proprio quella musica a calzare a pennello in uno spettacolo che si proponeva di ricostruire le atmosfere di un’olimpiade.

Una cantante di belle speranze se ne va senza nemmeno sapere (a meno di non essere incappata, navigando qua e là seguendo su Google la scia del suo nome, nella terza scena di questo canovaccio) che un suo pezzo è risuonato nella notte di un piccolo paese, il 3 giugno 2005, come un solenne inno olimpico, e che le sue note sono state danzate con passione e grazia sottile.

Lieve le sia la terra.

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