Finisce l’anno e uno ha voglia di balene. In edicola sfoglio “Internazionale” e scopro che nell’ultimo numero c’è il primo pezzo di fiction scritto da Arundhati Roy dal 1997, dal suo Dio delle piccole cose. È solo un raccontino ma il cuore batte già fortissimo, tra le righe leggo “balene di neve” e il cuore accelera ancora. Sul marciapiede davanti all’edicola sono già a pag 82, dove ha inizio il breve testo. Procedo facendo slalom tra i passanti e i bagolari. Arrivo all’ultimo punto seduto al tavolo della cucina. Un po’ deluso, le balene erano metafore.
Perché le balene, poi… A me non piace nemmeno il mare.
C’era quella meravigliosa definizione di globalizzazione, letta e mai più dimenticata. La globalizzazione è il nostro fracasso che disturba gli appuntamenti cantati delle balene. Sì, perché un maschio di megattera, se non fosse per gli schiamazzi umani, riuscirebbe a lanciare il suo richiamo d’amore alla femmina da un oceano all’altro. Da un oceano all’altro, bisogna proprio avere orecchio.
D’altra parte, si sa che le balene lasciano tracce. Si sa? In realtà a me l’ha detto una volta uno scrittore, e lui l’aveva già scritto – nero su bianco – in più di un’occasione, però era come se l’avesse scoperto da un secondo ed era come se quella scoperta l’avesse sconvolto. L’enorme cetaceo non c’è più, ha deviato, si è appena inabissato, ma su quell’acqua è rimasta impressa la sua forma, pazienza se soltanto per poco, quello è, un’impronta di balena.
Oggi la Pozzanghera compie quattro anni. Oggi nella pozzanghera c’è una balena. Nella pozzanghera ci sono quattro anni di impronte, di piccole tracce di me.