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La mia Vernazza

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Ho da sempre una speciale predilezione per i borghi abbarbicati. Mi affascina la follia di abitare i pendii, la roccia scoscesa che (stra)piomba sul mare. Mi piace immaginare la pazienza certosina di mani umane che scavano e si intrufolano quasi clandestine nella terra, rendendo ospitale l’inospitale. Muri messi “in bolla” da persone che del tutto “in bolla” non sono, altrimenti si sarebbero stanziate in qualche altrove più stabile e meglio piantato.
Quest’estate sono planato a piedi su Vernazza e come al solito ho decisamente snobbato il mare, rivolgendomi incantato verso la follia dell’intervento umano. Scale che si arrampicano, terrazze e terrazzamenti, abitazioni che si reggono una sull’altra, la galleria capace di scodellare magicamente dal nulla un regionale carico di anziani turisti anglosassoni.
Nell’era degli impazzimenti climatici, in fondo era folle e menagramo anche quel caldo di fine agosto, con il sentiero per Monterosso crepato dal sole. Ogni viandante stringeva in mano una bottiglia di acqua minerale, la fortuna dei piccoli negozietti della via centrale, l’unica del borgo.
Leggo da giorni dell’esodo della popolazione, della strada che non c’è più, che è andata perduta come una monetina finita nel mare. No, non è questione di sistemare, di aggiustare. Bisogna ricominciare ad immaginarla, una nuova strada per Vernazza. Leggo dei morti, dei dispersi: di chi è stato portato via dall’acqua mentre difendeva la serranda abbassata del suo negozio di souvenir. Mi torna in mente la fruttivendola che quest’estate difendeva tenace la buccia delle sue pesche dalle mani tastatrici dei turisti, che poi proseguivano senza comprare. Ignara che presto avrebbe perso tutto. Un puntino anche lei, sulla fragile scorza del mondo.

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SIC transit gloria mundi

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Le acute menti dei comici, dei satirici, degli autori di vigne, dei battutari semplici da bar si erano scatenate a dovere sul commento del Premier alle notizie provenienti da Sirte. Lui che pur disponendo di 11 donne pronte dietro la porta notoriamente bacia soltanto gli uomini (Gheddafi e, seppur al telefono, Lavitola…), era stato, se non proprio originale, insolitamente sobrio e quasi raffinato. Insomma, chi è sta Gloria Mundi? Ed ecco, dopo la Escort, un nuovo modello della Ford: il Transit.
Passano due lune ed ecco quelle parole latine tornare drammaticamente d’attualità. Senza Primiministri da prender per il culo, stavolta è soltanto una tragedia. Quella di un soprannome beffardo come la sorte.

 

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Marina e i suoi fratelli


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Nonostante la convinta premessa, la giornalista di Radio Popolare Marina Petrillo non ci riesce a non essere sorella, sorella fino in fondo, dei folli manifestanti di Roma. Solo una sorella, infatti, può riuscire a dire parole così dirette e sagge, e accorate e convincenti. La copioincollo tutta, la lettera di Marina, che ha l’altro enorme pregio di guardare ai fatti di sabato scorso in riferimento alle altre piazze di questo caldo 2011, lo specchio in cui vedere riflessa la pochezza che siamo.

Potrei essere vostra madre, o vostra sorella – per fortuna non lo sono, perché immagino che per quanto amiate le vostre madri e sorelle, la loro saggezza vi appaia come un altro pezzo di quel presunto perbenismo che siete venuti a disfare con le vostre mani, con le vostre braccia giovani, con le vostre spranghe e i vostri bastoni. Ma non sono né vostra madre né vostra sorella, sono una giornalista, lavoro da tanti anni in una radio indipendente, e da poco meno di un anno faccio un lavoro che prima nemmeno esisteva, il curatore di social media, una persona che verifica e sceglie contenuti tratti dal lavoro collettivo della rete per produrre a sua volta contenuti informativi. Seguo da dieci mesi le rivolte arabe, e questo mi ha cambiato la vita. Non solo perché le rivolte l’hanno cambiata a tante persone, ma perché le migliaia di ragazze e ragazzi che stanno lottando per il futuro dei loro paesi mi hanno restituito la passione civile, mi hanno fatto sentire interrogata sui modi in cui facciamo politica, mi hanno strappato dal meccanismo di delega vuota degli ultimi quindici anni, e mi hanno fatto restare in un paese che prima volevo lasciare. Studiare l’attivismo in rete mi ha condotto alle stesse conclusioni di altre decine di curatori: non esiste bloggare o twittare da una posizione di neutralità; si può offrire alla rete la propria esperienza di verifica, di studio, di approfondimento, ma si diventa partecipi, e in qualche modo attivisti, senza quasi rendersene conto, senza averlo deciso. E un bel mattino si accetta che sia così. Perché, vi assicuro, non si può stare immersi nella lotta di piazza Tahrir senza sentirsi in qualche modo responsabilizzati, interrogati nel profondo, chiamati – non a riempirsi la bocca di slogan, ma a fare sul serio. E così come faccio dirette Twitter sul Cairo col cuore in gola perché ad ogni sit-in o corteo uno di quei ragazzi può lasciarci la pelle – come è successo a Mina Daniel, disarmato, durante il massacro dei copti il 9 ottobre – così ho twittato la Roma del #15O con crescente apprensione. Ho avuto paura che vi faceste accoppare da un poliziotto che perdeva la testa. Ho avuto paura che vi faceste pestare a sangue come chi è stato a Genova dieci anni fa ricorda bene e non dimenticherà mai. Ho avuto paura che saltaste in aria nell’esplosione di una di quelle auto che avete bruciato. Ho avuto paura che uno di quei blindati ubriachi vi investisse. Ho avuto paura che ammazzaste un poliziotto. Ho avuto paura che il vostro disprezzo evidente per la gran massa di gente perbene fra cui vi siete mimetizzati vi portasse a ferire, o a uccidere, o a far uccidere, una persona che un bastone o una spranga non li userebbe mai.
 Poi ho capito che voi non avete paura. Voi vi piacete così, vi sentite belli con la vostra ferocia, con la vostra rapida coreografia della morte, ho capito che corteggiate il pericolo, che non vi importa delle conseguenze, che pensate di non avere niente da perdere (e siete troppo giovani per capire che invece avete parecchio), e soprattutto ho capito che non state costruendo niente. Senza quella folla immensa in cui vi siete nascosti – lo sapete benissimo – non siete niente, nessuno vi guarda, nessuno si cura di voi, non contate un accidenti. È vero, siete bellissimi e subdoli e veloci come un branco di lupi che discende in pianura. I miei amici antagonisti vi ammirano, sono dalla vostra parte, riconoscono in voi una rabbia profonda che tutti proviamo. Salvo poi essere un filo confusi – infiltrati della polizia oppure intrepidi compagni?
 Devo scrivervi perché ho rispetto per chi muore per le cose in cui crede. Per chi non ha scelta. Per chi in piazza ci va studiando, facendo fatica, mediando con persone che la pensano diversamente. Per chi si stanca, e piange, per chi diventa eroe suo malgrado, e perde amici e fratelli, e pure non smette. Per chi da dieci mesi non dorme una notte intera, per chi si interessa della democrazia e si domanda come crearne una che funzioni e darle il proprio contributo. Per chi si fa un culo pazzesco nelle scuole, nella magistratura, nei sindacati clandestini, nei giornali censurati, nella tutela legale dei prigionieri politici, nel servizio d’ordine della piazza più rivoluzionaria del mondo. Per chi va in galera a vent’anni per aver scritto una cosa di troppo in un blog, o viene torturato per un graffito. Per chi rinunciando ad armarsi ha scelto la strada più lunga e produttiva. Per chi le botte e i gas lacrimogeni se li risparmierebbe se potesse, per chi i sassi li tira perché ha di fronte un apparato infernale e corrotto che da 40 anni lo schiaccia e lo tortura – e non per modo di dire. Per chi soltanto una settimana fa ha visto i soldati gettare nel Nilo cadaveri di cristiani disarmati. Voi siete solo imitatori, attori, pedine. Non avete rispetto per i vostri diritti, e ricoprite un ruolo ridicolo nella stessa recita che tanto detestate. È nato un movimento internazionale, se vi va di rendervene conto, che potrebbe perfino salvarci dal nostro provincialismo. Ha quattro regole in croce, e chiede di rispettare solo quelle. Ha scelto la resistenza passiva – la studia, la pratica, sa a cosa serve. Se volete, è anche casa vostra. Sta a voi. Dentro al movimento, con le vostre forti braccia e magari anche il cervello, potete sperare di contare qualcosa. Ma se non avete rispetto, se non vi fidate di nessuno, se siete cinici e nichilisti e avete già deciso che non cambierà mai niente, se pensate di essere un po’ più derubati degli altri, più precari degli altri, più disoccupati degli altri, allora andate a fare gli esclusi per scelta sugli spalti degli stadi, o a spaccare vetrine da soli finché non sarete cresciuti – con la vostra illusione di avere sempre ragione, di sfidare il sistema, o di distruggere i simboli della proprietà privata mentre è vostro padre che paga ancora le rate. Vi va bene che siete italiani. Vi va bene che qui c’è qualcuno a cui fa comodo che esistiate, che finge di non vedere i bastoni nascosti a San Giovanni dalla sera prima, che non vi ferma alla stazione Termini mentre passate col viso coperto e un metro di legno che vi spunta dagli zaini. Vi va bene che qui il rapporto di fiducia con la polizia è così corroso e malato che a via Merulana si è fatta un’assemblea tragica in mezzo ai lacrimogeni per decidere se consegnare o no 3 di voi agli agenti – perché la polizia è maiale se ti carica, o se carica quelli sbagliati, ma è anche vigliacca se non ti protegge dai provocatori. Vi va bene che siete nati in un paese così bizantino e pieno di segreti che le teorie del complotto sono sempre lecite. Vi va bene che siete in un paese vecchio, l’unico in cui il movimento che dichiara la fine di un sistema fallimentare scende in piazza ancora coi suoi stracci di bandiere, con le sue divisioni tribali, con i suoi rottami di sindacato, col suo ritardo spaventoso in un paese governato da un impunito. Vi va bene che siete in un paese ipocrita, teatrale, che sfila in tv ma poi alle assemblee di discussione non ci va, e che ha aspettato invano per anni che qualcuno lo chiamasse in piazza invece di andarci e basta. E vi va bene che siamo ancora così stupidi da organizzare cortei-fiume in mezzo ai palazzi più preziosi del mondo invece di occupare pacificamente una piazza – perché certo, poi ci toccherebbe anche metterla in sicurezza noi stessi, e tenerla pulita, e prendercene la responsabilità. Vi va bene che vi sia stato offerto di nuovo un palcoscenico – voi, e tre ore di caroselli anni ‘70 delle camionette in diretta tv. Col “sistema” sembrate d’accordo almeno su una cosa: sul fatto che è meglio non manifestare del tutto, che è meglio tenere la bocca chiusa e starsene a casa, cioè esattamente l’opposto di quello che reclama questo movimento – il diritto a riprendersi lo spazio pubblico, e a usarlo per il bene comune. Avrete pure vent’anni ma siete vecchi anche voi, non scandalizzate nessuno, e vi lasciate usare. Vi hanno fatto credere che la prima linea sia quella piazza da cui avete divelto i sanpietrini, e ci siete cascati. E invece, come vi dirà qualunque vero rivoluzionario, la prima linea è dentro, e si trova insieme, e costa tempo, pazienza, e fatica. 
Una cosa è sicura – questo movimento sarà anche ingenuo, ma tanto non sarete voi a cambiare il mondo. Avreste dovuto restare a bocca aperta, quando la basilica ha aperto i suoi giardini ai manifestanti soffocati dai lacrimogeni a San Giovanni. A bocca aperta per la bellezza straordinaria di quel luogo che appartiene all’umanità intera, e che è nostro privilegio conservare a prescindere dalla fede religiosa. E qualcuno avrebbe dovuto dirvi che a gennaio, per proteggere con una catena umana il Museo Egizio del Cairo, uomini e donne si sono presi per mano mentre dai tetti gli sparavano addosso i cecchini del loro stesso presidente. E che quegli uomini e quelle donne sanno che la non-violenza ha un prezzo salato, come 700 morti, che non si finisce mai di pagare. Ma ci ricordano che è uno strumento collettivo di straordinaria civiltà e potenza; ti permette di vincere battaglie decisive, ti migliora, ti moltiplica, ti eleva, ti fa contare sul serio, e ti conquista il rispetto del mondo.

Marina Petrillo

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Tomboy e la recensione che non recensisce

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Forse sono diventato più egoista. Forse sono soltanto meno ingenuo di un tempo, quando tornato dalla proiezione di un film come Tomboy sarei subito corso sul blog per invitare tutti a correre al cinema, fornendo la mia lettura della pellicola e elencando i mille motivi per diffonderne la fama. Forse è cambiato troppo il web: 5 anni fa i lettori erano un pubblico più passivo ma più attento; ora tutti hanno in rete una comoda casetta blu e una serie di faccende urgenti da sbrigare – inviti da mandare, amici da accettare, like da apporre qua e là. Oppure non credo più alle mie parole, che a volte proprio non trovo, che sempre più spesso trovo inadeguate, troppo affilate o troppo poco. Sarà che tutto è sempre già stato detto e che si arriva sempre tardi, sempre dopo. Quando quello che devi dire puzza come il pesce, come un cadavere da seppellire.
Quindi basta una foto e la recensione è fatta. Buona visione.

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“Stay hungry, stay foolish”, praticamente Mauro Rostagno

Strana sensazione: un libro con tutte le carte in regola per farti piangere alla fine ti fa spesso sorridere. Il suono di una sola mano, in cui Maddalena Rostagno racconta suo padre Mauro, è un libro denso di vivaci contraddizioni. Ci sono dentro il silenzio della mafia e anche quello che lascia dietro di sè la rimozione di una storia scomoda, ma le pagine traboccano di canzoni, cantate e ballate, tutte bellissime, tutte col volume alto. Pagine che sono letteratura ma anche radiofonia, carta che viaggia su onde medie in modulazione di frequenza, libro che è anche radio, libera che più libera di così non si può.
E poi c’è la foto in copertina. Più che una foto: un miracolo. La conoscevo già e avevo pensato: quello che l’ha scattata è uno che ha capito tutto. Uno bravo. E invece: lo scatto risale ad una posa improvvisata presso una macchinetta automatica alla stazione della metropolitana. Ma non è quello il punto: i due protagonisti fanno tutto fuorché sorridere. A ridere è la foto intera, con i colori che non ha mai avuto ma che per fortuna stanno girando l’Italia, dentro e soprattutto fuori dalle librerie.
È stato bellissimo, in coda alla Feltrinelli, voltarmi e scorgere tra le mani del cliente successivo lo stesso libro tra le mani, con Maddalena e Mauro in bianco e nero e la “S” del Saggiatore. Un bel segnale.

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Le cose di Amanda

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I singhiozzi di Amanda, soltanto ieri. I sorrisi di Amanda, oggi. Prima: gli occhi di Amanda. Gli sguardi di Amanda. Quello perso, quello fiero, quello freddo. Quello nel vuoto e quello malizioso: difficile da perdere come per ogni lupo il suo vizio. I vestiti di Amanda: tutti, dalla t-shirt con la scritta – all you need is love! – fino alla felpa col cappuccio nero. I capelli di Amanda. Lo stimolatore erotico di Amanda. C’è stato anche quello, un tempo, nella borsetta di Amanda. La chitarra di Amanda, per musica dietro le sbarre. Lo swatch di Amanda, sul banco dell’imputata Amanda, a scandire il tempo dell’attesa di Amanda. E il check in, oggi, per la valigia di Amanda. E i passi di Amanda, verso il volo di Amanda. La scaletta, oddio, dell’aereo di Amanda. Il portellone che si chiude, no!, dell’aereo di Amanda.

E noi, da domani, a che cosa giochiamo?  

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