Le storie di Scuolamagia

Se sulla punta della lingua non c’è Sanaa e non c’è nessun’altra ragazza che viene dall’Africa

Dentro un racconto, il secondo giorno di scuola, c’erano il bambino Marco e il bambino Abdullah. Era una lettura semplice e immediata per dire fin da subito le sperequazioni del mondo. Una storiella alla Giorgio Gaber con una mamma coccolona italiana che consegna al suo cucciolo che va a scuola un Bacio Perugina e una mamma nordafricana che consegna al suo cucciolo che va a scuola un bacio, (pausa) …e basta.
Una storia che funziona, che i ragazzini colgono e apprezzano. Come accade spesso non si tirano indietro quando dico: “adesso rilegge qualcuno di voi”. E subito: “chi fa Marco? Chi fa Abdullah?”.
Però in classe ci sono le Debore e le Camille, le Ilarie e le Anne, ecc., e se il “Marco” del racconto può diventare una “Maria” o una “Mirella”, “Abdullah” può cambiare sesso e diventare…
Eh, diventare…

Saranno 10 i secondi di memoria brancolante nel buio, sarà breve questo istante di amnesia onomastica, ma c’è. In me prima di tutti. È concreto, si tocca. Mettersi in bocca un nome femminile di provenienza diciamo – semplificando – africana è più difficile che battezzare, sia pure banalmente, un maschietto dalla medesima provenienza.
Poi ci soccorre, al solito, la cronaca, che ci presenta dopo poche ore il viso di Sanaa. Era così difficile, il giorno prima? Marco e Abdullah – Maria e … Sanaa.
Il viso di un’uccisa, come era già stato per Hamina. Com’era già stato per delle condannate a morte, ricordate? Safiah, Amina.
Certe tragedie dettano alle comunità umane disperati appelli al progresso e alla lotta contro la barbarie. Istituzioni e religioni chiamate in causa da vicende come quella di Sanaa è necessario raccolgano sulle spalle pesanti matasse da sbrogliare.
Noi, dalla nostra riva apparentemente lontana da quelle tempeste, però, sarebbe bello imparassimo almeno qualche nome. Femminile.

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Prendere fischi per fasci

Per dire quanto sono ingenuo. E interamente foderato di prosciutto. E perso, nel paese delle meraviglie. E non vaccinato, contro le brutture del mondo. E scemo, va da sé. Solo per dire. “Sfoglio” il sito di “Repubblica” e leggo un titolo riferito alle dichiarazioni del ministro che dirige il comparto di cui faccio parte.

«GELMINI: TETTO AGLI ALUNNI STRANIERI».

Giuro: ho pensato – vabbé, per 12 secondi – che si riferisse ai bambini africani e asiatici che vivono in un vecchio stabile occupato clandestinamente e vanno a nanna sopra un materasso puzzolente. Ai bambini Rom ammassati in qualche roulotte incagliata nel fango. Ho pensato a vite nuove senza più ratti attorno, a risvegli in calde camerette riscaldate.

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“Nonno Andrea, ma te sei Pozzanghera?”

C’è un’intervista piena di vento e di mare, su “La Repubblica” di oggi. L’ha concessa a Maurizio Crosetti il commissario tecnico della nazionale italiana ed è una chiacchierata distesa, a 360°, lontana da contingenze e quotidiane spine. Davanti a un mare di settembre burbero e inquieto, l’allenatore butta lì una confidenza, un piccolo retroscena familiare, direttamente da un mondo evidentemente tenuto al riparo dai clamori mediatici. Si parla di Lorenzo, suo nipote.

«Quando aveva quattro anni un giorno venne e mi chiese: “Nonno Lello, ma te sei Lippi?”…».

Nemmeno ultimata la lettura dell’articolo, ho iniziato a rimaneggiare quella domanda facendola indossare ad altri nipotini, qua e là nel tempo e nello spazio…

 

“Nonno Silvio, ma te sei Papi?”

“Nonno Barack, ma te sei Obama?”

“Nonno Gianfranco, ma te sei il compagno Fini?”

“Nonno Usain, ma te sei Bolt?”

“Nonna Elisabetta, ma te sei La Canalis?”

 

[…]

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Sara e Olive

Cara Sara*,

comincia la scuola e con la scuola che comincia i miei occhi ti incontreranno di nuovo ogni mattina, sulla patina di un manifesto che piano si consuma e invecchia, sul muro vicino alla lavagna, quasi fosse un essere umano. Certo che mi sei mancata quest’estate, e come al solito periodicamente ho cercato su internet notizie di te. Devo confessarti che, purtroppo, mentre fino ad un annetto fa Google si dimostrava un ottimo strumento per focalizzare l’attenzione dei naviganti sul tuo caso sfortunato, oggi confonde la tua storia con le tante Sara che spartiscono con te quel cognome ispanico decisamente comune. Tante Sara utenti di Facebook e Myspace, Flick e Netlog. Ragazze che aderiscono a qualche gruppo in onore di Ricky Martin o linkano la nuova canzone di Leona Lewis. Continuo ad essere convinto che tu stia benissimo, che la tua vita proceda a gonfie vele e non mi lascio impressionare da quelle storiacce di bambine americane cresciute e diventate adulte nelle mani di perversi aguzzini. No, il tuo è senz’altro un destino di libertà, e per te Stoccolma non è una sindrome ma soltanto una città nordica da visitare un giorno con curiosità e interesse.

Mi sei venuta in mente poco fa mentre leggevo Olive Kitteridge, il bellissimo romanzo di Elizabeth Strouth. Un libro con la porta stretta, si fa sempre un po’ fatica ad entrare nelle sue tante storie, man mano che iniziano. I luoghi sono descritti con precisione, e pure i gesti e i movimenti impercettibili. La sensazione è quella di essere un computer non abbastanza potente per sostenere la funzionalità di software avanzatissimo. Poi, però, una volta entrati sembra di conoscere i personaggi da una vita, di averli accompagnati a spasso per gli anni mentre perdevano figli, fede, fiducia nel domani. E ognuno di loro va a finire che si imbatte in questa donnona, Olive Kitteridge, che ha il potere di salvare in qualche modo gli altri. Magari solo un po’, li salva, ma questo suo dono di natura è comunque speciale.

Ecco, mi piacerebbe che nelle pagine che mancano alla fine del libro la Sig.ra Kitteridge incontrasse anche te e mettesse ordine con le sue parole nei tuoi pensieri di fuggiasca, prendesse in mano anche i fili della tua piccola vita.

A presto…

 

* : Sara M., entra a Scuolamagia nel gennaio del 2007. La sua immagine è stampata su un manifesto bianco trovato da un alunno in un’isola dell’arcipelago delle Canarie. C’è scritto “DESAPARECIDA”, e al ragazzo in vacanza con la famiglia la parola rievocava certe lezioni del sottoscritto a proposito della dittatura militare in Argentina. La storia di Sara, scomparsa in circostanze misteriose nel luglio del 2006, colpisce e commuove. Anche se tutti sono assolutamente sicuri del fatto che Sara, un bel giorno, tornerà.  

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Il giorno primo della felicità

Il mio primo giorno da prof non era un primo giorno di scuola. Era un giorno di gennaio, di sole basso che abbaglia senza scaldare. Quindi non vale.

Il mio secondo primo giorno di scuola da prof. non era neanche quello un primo giorno di scuola, ma ci andava vicino. Quel 29 settembre l’alunna dell’anno prima mi aveva stretto la mano e aveva detto “non ci speravo più”. Quattro parole più importanti della mia firma sul contratto a tempo determinato. Era determinato il contratto, ma anch’io non scherzavo in quanto a determinazione.

Poi c’è stato il primo giorno in cui un cucciolo di 1ª si è presentato e nel giro di pochi istanti si è fatto male. Incespicando sul pallone è caduto riuscendo nel simpatico gioco di conficcarsi l’apparecchio ai denti nel labbro superiore. Alla faccia del problem solving. Come si scioglie il nodo gordiano di un labbro sanguinante diventato un tutt’uno col lavoro di un dentista? Fortuna volle che la mamma del bimbo fosse nei paraggi, e soprattutto che fosse un’operatrice sanitaria. Serviva in fondo un gesto netto, quel nodo si scioglie con la spada, niente più di uno strappo, e la genialità di attuarlo guardando negli occhi intensamente il paziente e dicendo – a mo’ di anestesia, un secondo prima della drastica manovra: “amore…”.

Ci sono le volte che sono entrato dicendo eccovi un foglio, piegatelo in due, poi ancora in due, poi ancora in due. E se lo piegaste 32 volte? Secondo voi quanto sarebbe alla fine lo spessore del foglio? Un metro, due metri trenta metri cento metri. Sbagliato, e via a dimostrare agli alunni con la calcolatrice che lo spessore del foglio risulterebbe pari a due volte e mezza la distanza tra la terra e la luna. Il tutto per alludere al fatto che anche l’anno in partenza avrebbe mantenuto più di quello che prometteva. Che avrebbe sorpreso, spiazzato, e chissà se a giugno qualcuno ha mai pensato di essere andato un paio di volte sulla luna.

C’è la volta che ci siamo divertiti con un gioco fatto apposta per imparare i nomi, ma visto che i nostri nomi li sapevamo già abbiamo deciso di cambiarli. E Ilaria era diventata Gioia, e Camilla era diventata Giada, e Riccardo era diventato Alberigo… Gli altri Bernardo, alias io, proprio non se li ricorda, ma le risate e quel clima sì.

C’è stata la volta che ho detto prendete un foglio e scrivete a matita con uno stampatello anonimo e neutrale alcune righe che vi descrivano: gusti, passioni, cose che sapete fare, sogni, ecc. Poi mettiamo tutto in una scatola, io pesco a sorte, leggo e vediamo se riconoscete l’autore. Non funzionò, quell’attività. Poco entusiasmo, poca suspense. Salvo trasformarsi, ripescati quei fogli casualmente dopo 3 anni e riletti ad alta voce davanti alle stesse persone munite di protobaffetti, formosità e licenza media, in un’esperienza da lacrimuccia, roba da psicanalisti. Io ero quella? Io ero quello lì? Maddai!

Ci sono state le volte con il teatro, quelle con il computer, quelle brillanti e quelle fiappette.

Si avvicina il 14 settembre, non ci speravo più.

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Banda assassina

12, 14, 19, 38, 41, 45. Belli ed evidenti in sovraimpressione. Spalmati su una banda orizzontale onnipresente. Ok, il SuperEnalotto è lo sport nazionale, l’unica tassa che pagano quasi tutti, il sogno dei senza sogni, il calcolo di chi calcolare non sa: mentre il giornalista li sta leggendo, è giusto che i numeri appaiano e supportino gli anziani con la matitina e le mogli che dettano a dita incrociate. Poi però basta, Tg1. E invece no, e anche se so benissimo che sono io che per una volta ti guardo quello che potrebbe essere altrove, non riesco a non provare un fortissimo sdegno per quei numeri fuori posto. Si parla di Israele, del rischio di un attentato e davanti alle immagini ci sono ancora loro: 12, 14, 19, 38, 41, 45. Il vecchietto ha già scritto, non servono più. Rimangono lì. C’è la disoccupazione ed un numero con la virgola – 9,5 – spaventoso e preoccupante, ma loro sono più forti e lo oscurano: 12, 14, 19, 38, 41, 45. C’è l’influenza e la paura di una pandemia, beccatevi il numero Jolly: 31. C’è la malasanità e una bambina: muore per il cancro al cervello che ben quattro medici non hanno saputo diagnosticare. Sono capricci infantili, hanno detto, e la voglia di attirare l’attenzione. Il numero da ricordare sarebbe 11: anni spezzati. Ma la TV di Stato davanti c’ha messo un bel 28: numero Super Star.

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Paolo è stato un mio alunno dal 29 settembre 2001 (come faccio a ricordarmelo? Beh, era il primo – insperato – giorno di scuola del mio secondo anno da prof., era il giorno dell’articolo sul “Corriere” di Oriana Fallaci, quello post 11 settembre…) al 21 giugno 2004. Forse era il 22, qui i miei riferimenti sono meno precisi.

A 5 anni dal suo esserne stato licenziato dopo un contributo essenziale di simpatia e originalità, ha deciso di fare della sua vecchia scuoletta (il suo portone, la colonna, il recinto del cantiere per l’impianto a biomasse…) il set per uno dei suoi video in cui si esibisce nell’arte (?) del (della?) Jumpstyle. Non so altro di questa pratica (moda? tendenza? stile di vita? religione? filosofia?) se non quello che dicono i piccoli e armonici balzi eseguiti con maestria da Paolo. La novità dell’operazione, che spero venga subissata di click da parte del popolo di YouTube, è lo scenario. Immagino che i pionieri del Jumpstyle abbiano fondato e sperimentato la loro creatura sullo sfondo di paesaggi metropolitani, tra i cavalcavia e i sottopassaggi pedonali, tra parcheggi marciapiedi e tombini. Nel grigio, comunque. Paolo ci mette panorami di vette, alberi verdeggianti e ruscelli di montagna: decisamente più originale e, mi sbilancio, quasi rilassante.

Il primo sasso nella piccionaia di Scuolamagia, quest’anno, l’ha lanciato Paolo. Che sia l’anno del Jumpstyle?

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Feccia tricolore

Quando chiuderanno la mia e molte altre scuolette, in nome di salutari politiche di contenimento della spesa pubblica, so per certo che una sana e dignitosa malinconia cederà il passo al rabbioso conto degli sprechi veri, degli sciali reali che gridan vendetta. I cavalcavia che si interrompono come terrazze sul vuoto, gli ospedali mai portati a termine, le opere incompiute tutte; gli eserciti di assunti per nullafare e nullaprodurre; i soldi del canone televisivo bruciati in spettacoli da voltastomaco. Eccetera. Ma in cima alla lista mi verrà in mente la gloriosa e patriottica pattuglia acrobatica (e sempre di bandiere finiamo a parlare…) che presto onorerà l’amico tiranno. Sperando che non gli faccia volar via la mirabile tenda.

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Sbandierare il mondo è possibile

Il nero è la sofferenza del passato, il giallo è il sole che sorge, verde vuol dire speranza. È presto spiegata la bandiera della Giamaica che sventola sul cielo sopra Berlino. Ma l’atletica che dà spettacolo in occasione dei mondiali tedeschi non è forse la dimostrazione che quei rettangoli di stoffa – lanciati dagli spalti in direzione degli atleti vincitori, issati sui pennacchi durante l’esecuzione degli inni – potrebbero essere finalmente banditi?

Oppure, meglio: potremo finalmente deciderci ad amarle tutte le bandiere, soprattutto quelle altrui, esattamente come invitava a fare Alex Langer, indimenticato costruttore di ponti. Siamo tutti berlinesi, in fondo, e non possiamo non dirci giamaicani, soprattutto dopo che un fulmine giallo nero e verde ci ha fatti sobbalzare sul divano. Ma siamo anche un po’ russi, ammettiamolo, basta che una saltatrice con l’asta di quella nazione si metta a piangere come una bimba davanti al suo giocattolo rotto. Siamo etiopi, almeno un pizzico, durante un cinquemila che ci fa sentire profumo di altipiani. Siamo americani – certo, lo siamo spesso per mille altre cose – quando un centometrista fa la faccia triste perché più di così lui non riesce proprio a correre e quel suo sforzo sovrumano non è servito a niente. Siamo croati davanti alla cavalletta che ha ricominciato a danzare, dopo che per un anno a ballare sono stati solo i suoi nervi. Per un attimo stiamo per dirci tedeschi in onore del muscolosissimo discobolo biondo che si strappa la canottiera e gioca a fare l’incredibile Hulk… poi lo immaginiamo con stivaloni nazi e la sua esultanza ci sembra molto meno divertente di mezzo sorriso giamaicano… ma poi ci giriamo dall’altra parte e abbracciamo di tifo la saltatrice crucca e un po’ punk che corre ad abbracciare l’avversaria da cui è stata sconfitta e subito la incita mentre tenta il record del mondo.

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Sotto gli occhi dei bambini

Due notizie che si guardano allo specchio: accade spesso.

 

Italia, esami di stato conclusivi al termine del primo ciclo di istruzione, gli esami di terza media, insomma, e in particolare la Prova Nazionale nuova fiammante, quella oggettiva, quella uniforme, quella che fa statistica e che fa classifica. Qual è la notizia? Semplice, si tirano le somme e si scopre che in tantissime, in troppe scuole si è giocato sporco, si è barato: gli insegnanti hanno indicato la casellina giusta da crocettare, o hanno permesso che gli studenti crocettassero in gruppo, unendo le forze. Importanti sociologi dicono che in fondo è normale e che si poteva prevedere: è l’atavica ritrosia degli insegnanti nel farsi giudicare. E un alunno asino non può che segnalare la presenza di un docente asino. Ottimisti, i sociologi: sarebbe come a dire che l’elevato numero di trasgressori dei limiti di velocità sia indicativo del desiderio degli automobilisti di non passare per ritardatari.

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Cina, concorso pubblico. In una grande aula i banchi sono riempiti da colletti bianchi: impiegati statali che mirano ad una promozione. Ad un progresso nella loro carriera, ad un passo avanti. A controllarli c’è un piccolo battaglione di bambini delle scuole elementari. Solerti e impeccabili sanzionatori: i 18 cuccioli rileveranno in sole due ore 25 infrazioni.

 

Chissà perché i bimbi. Che gli adulti si sentano moralmente colpevoli nel commettere imbrogli davanti a testimoni innocenti per natura? Che i piccoli risultino impermeabili ai tentativi di corruzione? O sarà per il baricentro basso e per la vista più fresca, utili nell’individuare le manovre dei trasgressori… Chi lo sa…

 

Nessuna lezione, sia chiaro. Anche perché la Cina in fatto di corruzione non è certo il pulpito migliore da cui far partire una predica. Però le due notizie stridono ugualmente. I grandi che insegnano ai piccoli la corruzione – i piccoli che insegnano ai grandi l’onestà.

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Maestra Suor Amaranta

«Ieri in classe i bambini erano pochi, e d’improvviso mi sembravano tutti più alti di qualche mese fa, quando li ho visti per la prima volta. Più alti e già un po’ più seri, indaffarati nelle loro cose, un castello, un foglio da colorare, pupazzi da animare. Gabriele giocava con tre dinosauri, papà, mamma e figlio, mi ha detto. Li strofinava tra loro, poi li faceva azzannare, uno cadeva riverso sul pavimento, gli altri lo prendevano a zampate, poi si baciavano tutti con quei musi e quei dentacci, si mettevano a letto: fanno la nanna perché sono tanto stanchi, diceva. È vero che non esistono più i dinosauri? Mi ha domandato dopo un poco. Si sono estinti, Gabriele. Estinti, vero? Significa che non ci sono più, Gabriele. Stanno in cielo con nonna, vero?

Ho immaginato un cielo pieno di tirannosauri e nonni morti, una vallata antica.

Martina teneva in braccio una bambola senza una gamba, la cullava e le cantava piano una ninna nanna. Non dorme, diceva, io sono una brava mamma ma lei non dorme. Non mangia nemmeno. Io la imbocco e lei sputa tutto. Ogni tanto le baciava la testa clava, e la bambola mandava un singulto di pile mezze scariche.

Coraggio, ho detto, adesso incrociate tutti le braccia sul banco e poggiateci sopra le testoline, chiudete gli occhi e dormite un poco. Ho abbassato gli avvolgibili mentre i bambini si sistemavano. Lo stanzone è calato in una penombra serena, traversata appena da sottili lame di luce, da una polvere dorata. Dopo pochi minuti erano altrove, nel sonno che pulisce.

Eppure anche dormendo qualcuno si muoveva un poco, e mugolava, e diceva no e di più e mamma. Nemmeno laggiù la vita li lasciava in pace, entrava nelle pieghe della mente e scuoteva quei piccoli corpi. Ognuno ha dentro di sé la propria dannazione, più cerchi di distanziarla più quella ti si aggrappa addosso. Bevi, viaggi, preghi, cambi nome, posto, pensieri, compagni ma lei non ti molla. E non cambia mai, è sempre la stessa da quando sei bambino, sempre intera e presente, come un cane in una gabbia che non si apre.

Solo Luca non dorme mai. Gli altri bambini stanno col capo reclinato tra le braccia, ma lui sta dritto, i palmi aperti poggiati sul banco, e lo sguardo grande e vuoto.

Ieri però non c’era, in questi ultimi giorni manca sempre più spesso. Avrei voluto dirgli sono pronta, tutto accadrà domani che è domenica. Ma forse lui già lo sa».

 

Marco Lodoli, Sorella, Einaudi

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Le lacrime di San Lorenzo e le lacrime di Sant’Anna

santanna

La madre di Chiara Poggi parla sottovoce e soltanto al citofono. Il giornalista è aitante e non sembra dolersene, ad andare in onda saranno la sua camicia e i suoi riccioli chinati sul piccolo altoparlante sopra il campanello. La madre del ragazzo precipitato con l’elicottero a New York ha lacrime da vendere e la Tv si vede che muore dalla voglia di raccoglierle. La telecamera si avvicina fin troppo, quasi deforma, quasi tocca. Le lacrime dei superstiti di Sant’Anna sono le uniche che vorrei vedere, le uniche che avrebbe senso mostrare a tutti. Anche se è Ferragosto, questa specie di natale al caldo, solo un po’ più silenzioso. Penso al signor Enrico Pieri e al suo peso sull’anima, alla fatica di questo dodici agosto e a quella del dodici agosto che sarà domani, e via col prossimo, dopodomani.

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Andare a Erenhot

In edicola da oggi, il nuovo numero di “Diario” è un ottimo compagno di viaggio. Per chi va in vacanza e per chi – fortuna sua – riesce a viaggiare anche con la mente per sintonizzarsi con le cose che succedono nel mondo. Quelle che succedono davvero e che lasciano tracce.

A pagina 120, ad esempio, Piumetta racconta di un suo viaggio coraggioso in una città cinese di confine. Un luogo pazzesco, che sembra nato dalla fantasia di uno scrittore. E invece no, sta lì e brulica di personaggi. Veri, verissimi. Leggere il reportage è come conquistare un luogo prima d’ora inesplorato – hic sunt leones!!! – e metterci una personale bandierina di conoscenza.

diario2

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Prof.ssa Militello, prenda pure una cadrèga…

Prendessero davvero alla lettera, i tanti colleghi meridionali, i diktat del Carroccio zoticone… Aggiungessero ai loro piani di lavoro testi in dialetto e nelle lingue minoritarie dei luoghi dove sono chiamati ad insegnare. Si divertirebbero un sacco e soprattutto contribuirebbero a sfornare generazioni di ragazzi immuni da virus xenofobi, strenui oppositori di partiti territoriali dalla vista corta e dalla pancia rumoreggiante. Sì, perché le opere dialettali (o in lingua, nel caso ad esempio del friulano) veicolano da sempre (ed evidentemente all’insaputa della Lega…) contenuti radicali e progressisti, insegnano tolleranza e spalancano mondi. Aiutassero davvero, i tanti colleghi meridionali, i leghisti a darsi la zappa sui piedi.

 

Al ven su l’aiar pe strade

te memorie, malade

dai vecjos tornâts fruts

ven su l’aiar

feroz ch’a nol à pôre di nessun

al ven, al tire

adun

fueis, ideis

sul barcon ch’a tu mi âs

sierât in muse

cence dî nuie

aiar di ploie

e nûi môi, come bombâs

aiar ch’a nol tâs

e al sivile, al tormente

si incazze desperât

aiarat

ch’al rive di lontan

Maistrâl, Sclâf, Tramontan

aiar tzigan ch’al mene semencis di tale

di orâr

aiar peçotâr

contadin

imigrât clandestin

aiar Garbin, Scjafoiaç

aiar di burlaç

Zefir, Gurizan

Aiar rosean, disminteât

aiar frêt di Cividât

Buere

odôr di tiere

sparide tal ciment

aiar content

ch’al cen su pe strade

te memorie, malade

dai vecjos tornâts fruts

sierâts tal ospedâl

aiar spaziâl, di Bielestele

aiar ch’al sberghele

ch’al vai

rincoionît

aiar smavît

ch’al çuete tal vignâl

aiar ch’al stâ mâl

ch’al vuarìs

si ferme, al partìs

al va, al torne

aiar ch’al duârm

te gorne

partiere

tes velis di une nâf

aiar blâf

zâl, ros, miscliç

fi metiç dal marimont infinît

aiar ch’al rît

 

 

Maurizio Mattiuzza, Aiar

 

[Vento

Viene su il vento per la strada / nella memoria, malata / dei vecchi tornati bambini / vien su il vento / feroce / che non ha paura di nessun / viene a raccogliere / foglie, idee / sul balcone che mi hai / chiuso in faccia / senza dire nulla / vento di pioggia / e nubi molli, come bambagia / vento che non tace / e fischia, tormenta / s’incazza disperato / vento forte / che arriva da lontano / Maestrale, Salvo, Tramontana / vento tzigano / che porta sementi di tarassaco / di alloro / vento stracciaio / contadino / immigrato clandestino / vento di Libeccio, afa  / vento di bufera / Zefiro, Goriziano / vento resiano, dimenticato / vento freddo di Cividale / Bora / odore di terra / sparita nel cemento / vento contento / che vien su per la strada / nella memoria, malata / dei vecchi tornati bambini / chiusi in ospedale / vento spaziale, di venere / vento che grida / che piange / rincoglionito / vento sbiadito / che zoppica nel vigneto / vento che sta male / che guarisce / si ferma, parte / va, ritorna / vento che dorme / nella gronda / per terra / nelle vele di una nave / vento blu / giallo, rosso, mescolamento / figlio meticcio dell’universo infinito / vento che ride]

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Stanno meglio quelli che stanno peggio

Un corpo d’ebano ricoperto di collanine, pendagli, braccialetti. Sulla testa un cappello di paglia con sopra un cappello di paglia con sopra un cappello di paglia ecc.: merce esposta. Ai piedi – piedi che han camminato tanto e si vede – sandali consumati. In faccia pace e sorriso. Nessuna inquietudine, nonostante alcuni suoi colleghi siano bloccati all’ingresso del piccolo parco da un carabiniere spaesato che aspetta rinforzi. Pace e sorriso di un corpo d’ebano ricoperto di colori. E gli affari vanno, la gente tratta e lui si finge inflessibile, poi dice “vabè” con una “b” sola e accetta gli euro di chi è convinto di averlo fregato. Pace e sorriso basterebbero, ma lui, che è senegalese e a dirmelo è il ciondolo a forma di bandiera attorno al collo, ha anche qualcosa in più. Ha anche l’ironia. L’ironia che davanti a due clienti che lo hanno illuso di voler comprare di tutto e che alla fine non comprano niente gli fa esclamare, mentre si allontana dinoccolato: “MANNAGGIA LA NIGERIA…”.

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