Soletta, Stream of consciousness

Professione di intenti mancati

Appena tornato da un incontro pubblico con Umberto Ambrosoli. La normalità del bene, e un racconto tanto civile da non sembrare quasi italiano. Vorrei scrivere e dilungarmi, ma non so perché non ci riesco. Penso valga tacere e buttarsi a capofitto nella lettura. Quella del suo libro, ad esempio. Ma ho voglia di entrare, ad esempio, anche nella Patria di Enrico Deaglio. Un migliaio di pagine dove nascondermi e stare un po’ zitto, ché la pozzanghera c’è e mi saprà aspettare.

Oggi mentre pedalavo in salita pensavo a un bel post sulla Cina, la mia Cina di un anno fa (non quella di 3 anni fa). Poi, no. Poi mi sono detto: un’altra volta. Al concerto di Madonna – ebbenesì – avrei voluto avere il computer appresso per raccontare tutto quel mondo che non riusciva proprio a stare fermo. Dal concerto di Fossati, ad Aquileia, avrei riportato emozioni e musica vera, quella sì. Gianmaria Testa a Cividale – è un tempo di concerti, I know – mi ha graffiato come sempre con la sua voce, ma anche di lui non voglio scrivere.

A Topolò per la seconda volta, un pezzo minimalista per il blog mi è venuto incontro nelle sembianze di un cane. Proprio lui, lo stesso dell’incontro con Gian Luca Favetto. Si era seduto al mio fianco allora, si è seduto al mio fianco ieri, anche se il luogo del paese era un altro e nonostante ci fossero altre 70 persone. No, lui viene vicino a me.

Però non ne voglio scrivere e non ne scrivo. Pazienza.

Verrà il tempo.

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Diane corre

Gli articoli dei quotidiani diventano ogni giorno più sintetici. A volte è un bene, non servono 300 righe per dire di un’orgia a casa del Primo Ministro. A volte è un male, e le storie stanno strette dentro abiti small, traboccano come i litri dentro le tazzine da caffè. Capita anche oggi, a pag. 34 di “Repubblica”. Metà pagina per la pubblicità, una foto brutta ma necessaria, uno schema cervellotico, il titolo impreciso come sanno essere i titoli. L’articolo: la superficie di due scontrini fiscali. Per fortuna che esistono altri mezzi, altre vie. La storia di Diane Van Deren ha bisogno di fiato, ha bisogno di andare a capo spesso come ha fatto spesso la sua vita. Diane è una madre ed è anche una donna da sempre molto sportiva. Un giorno si ammala, una forma di epilessia, una forma grave. La operano, le asportano una parte del cervello. Via un pezzo di lobo temporale destro e con lui via la memoria e il senso dell’orientamento. Non la memoria dei giorni prima di quello dell’operazione, la memoria sempre. Del tipo: “Buongiorno, oggi è il 13 gennaio e io sono tuo marito, questi sono i tuoi figli, questa è casa tua e questo è un tuo giorno”. In questo senso, la memoria sempre. E l’orientamento, perde, anche se a questo punto vi sarà sembrato il male minore. Ma non lo è, perché Diane corre. Corre e ama correre in condizioni estreme. Vince gare a 44 gradi sotto zero, corre di notte con una lampada in fronte. Nello zaino tutto il necessario, soprattutto le istruzioni per l’uso: “questa è acqua, bevila spesso…”. Andare di qua, a destra; andare di là, a sinistra: concetti fuori dalla portata di Diane. Parti, corri, ecco una strada. Questo sì, questo si può fare e Diane lo fa. Ogni tanto non ritorna, passano 5 ore e i familiari se la vanno a riprendere.  

 

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Le tre domande

Mi è già capitato di rubare a larghe mani da questo blog. A volte è davvero più forte di me.

 

 

“Qual è il tuo piatto preferito, quello che mangi quando sei triste o felice?”

 “Latte e biscotti”.

 

“Cosa fai quando sei triste o felice?”

“Scrivo”.

 

“E dimmi: a cosa o a chi pensi quando sei triste o felice?”

 

Lei sorride, arrossisce, abbassa leggermente gli occhi, e lui la anticipa.

 

“Pensi che vorresti mangiare tanti biscotti con il latte?”

E con una battuta rispetta il suo segreto.

 

“È una cosa tua, ma la risposta ce l’hai, si è visto nel tuo viso. Immediata. Quindi sai tutto di te. Noi siamo in queste semplici risposte. Tre. Da nessun’altra parte. Siamo quello che mangiamo e desideriamo, siamo quello che facciamo, siamo quello a cui pensiamo quando siamo tristi o felici. Sono le cose che amiamo a pelle e dobbiamo volerle per non tradire noi stessi”.

E aggiunge: “In quelle tre risposte ti sei illuminata, eri certa, non capita a tutti. Sono le tre cose della tua vita. Sei tu. Non cercare da altre parti, perdi solo tanto tempo per accorgerti poi, troppo tardi, che alla fine approdi sempre lì, in quelle tre cose. E se è troppo tardi quelle cose non ci sono più e ci puoi approdare solo con il rimpianto. E, credimi, non è la stessa cosa immaginare di mangiare i biscotti zuppi di latte, meglio assaporarli veramente. Ricordando di togliersi, prima, i guanti di scena”.



(Dialogo tra il signor Giovanni, 87 anni, e Chiara, 35)

 

E poi bisogna pure rispondere.

Quindi:

 

QUALCOSA CON LA VANIGLIA

 

CANTO

 

[…]

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Chi guarda Topolò sappia che Topolò

Metti una sera non qualsiasi, a Topolò. C’è uno scrittore che parla, che racconta. C’è un cielo che sfoglia la margherita e fa “piove o non piove”. (Non pioverà.) Ci sono poche panche, ma la possibilità di sedersi per terra, o sul muretto. E rimanere in piedi, certo, si può. In fondo è in piedi anche lo scrittore e in piedi comincia a parlare sopra una musica di fisarmonica. Quello che la suona è seduto su una vecchia sedia di legno. I libri da cui leggere e attorno ai quali tessere trame sono due. A turno, mentre uno è nelle mani dell’autore, l’altro è appoggiato sull’erba, a faccia in giù. Uno – grigio chiaro – c’è il rischio che si sporchi, anche se ovviamente non sarebbe un problema, l’altro ha la copertina verde e  il rischio è quello di perderlo tra i ciuffi di prato.

C’è un cane, sicuro che c’è anche un cane. Cammina un po’ tra le gambe di chi ascolta finché si sdraia su un fianco e rimane lì, nel suono della voce dello scrittore, proprio come ci fossero solo lui e la voce dello scrittore.

C’è una mamma che è anche una poetessa e ad un certo punto si alza e se ne va sul più bello. Ma cosa c’è di più bello di una mamma poetessa che riappare con una maglia da appoggiare sulle spalle della figlia rimasta in ascolto, ché nel frattempo s’è alzata un’arietta pungente?

Ci sono una vecchia nave di cui smaltire i metalli, c’è Sarajevo, c’è una macchina fotografica, un campo di basket, la Sicilia e un pugno di vite vissute: tutta roba portata dallo scrittore.    

C’è una sera non qualsiasi, una sera così, a Topolò. Nei prossimi giorni ce ne saranno altre e mai “soletta” è stata più sincera.

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Il disprezzo

Si torna all’amaca di Michele Serra, a volte, come ad una passeggiata all’aria aperta dopo un mese di su e giù dai mezzi pubblici nel caos metropolitano. A differenza dei blog, che ti accolgono ma ti mandano subito via sulle tracce di qualche link che dovrebbe fungere da approfondimento, ma più spesso finisce per deviare l’attenzione verso altro, il trafiletto quotidiano lo puoi leggere e rileggere, puoi assaporarne il ritmo, la scelta delle parole.

Non è facile essere freschi e originali una volta al giorno, trecentosessantacinque volte all’anno, e a volte mi succede pure di abbandonarlo dopo 4 righe, il mini corsivo quotidiano. Ma quando è come quello di oggi, vale la pena impararlo a memoria.

 

«Decisamente simpatico, e ancora un gran bell’uomo, l’ex playboy Gigi Rizzi ha raccontato da Bruno Vespa il suo antico flirt con Brigitte Bardot. La rievocazione ha avuto accenti perfino teneri, con qualche divagazione diciamo storica sugli anni ruggenti di Saint Tropez e sull’impenitente tirar mattina di quel mondo svagato, benestante e allegramente pirla. Ma nel carattere maschile italiano, purtroppo, è parte fondante quel genere di vanteria che tiene in gran conto il palmares, e in nessun conto, ahimè, la discrezione. Assistito con gongolante complicità da Paolo Limiti e Bruno Vespa (in rappresentanza dei non playboy), Rizzi ha tenuto a enumerare, con finta nonchalance, il numero delle trombate giornaliere con una delle ragazze più belle degli ultimi diecimila anni. Non rendendosi conto che il dettaglio, non richiesto, aggiungeva pochissimo al fascino di quella storia, e toglieva a Bardot, che è una signora, il diritto di non sentirsi esibita come un trofeo sessuale.

Ogni rilievo in questo senso è comunque inutile. Il coro italiano ama definire “invidia” ogni possibile richiamo alla misura. Altri e più celebri vantoni nazionali ce lo insegnano: attribuiscono all’invidia degli inferiori tutto ciò che li supera per buon gusto».

 

Aveva capito tutto, Jean Luc Godard, quando nel Disprezzo faceva pronunciare a BB una sfilza di volgarità gratuite senza che in nulla fosse intaccata l’eleganza del film, senza che il quadro generale scadesse, senza oltraggiare il gusto. Ed è facile capire oggi come tre signori per bene (Vespa, Limiti e il Playboy per antonomasia), eleganti e moderati, possano sulle loro bianche poltrone vomitare tutta la volgarità di questo paese.

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Mozione Michael Jackson

C’è stato un tempo – era la seconda metà degli anni ’80, erano gli anni delle mie scuole medie – in cui si trattava di scegliere, di schierarsi. O con Madonna o con Michael Jackson. Bipartitismo perfetto, nessun outsider, per le altre pop star la soglia di sbarramento era altissima. Era il sistema maggioritario applicato alla musica leggera, col proporzionale di oggi qualunque Rihanna col suo 2% ottiene un seggio in parlamento. Allora no, o stavi di qua o stavi di là. E io avevo scelto Madonna. Rappresentava un po’ il nuovo che avanzava, Louise Veronica Ciccone, e tutto il resto noi fan lo consideravamo un avanzo rancido sulla tavola della musica commerciale. Era nuova e trasgressiva, scherzava coi  santi e cambiava look a ogni batter di ciglia. La mia militanza ruotava attorno a tante audiocassettine messe in fila sulla scrivania (alcune originali, tutte consumatissime), ad un poster altare appiccicato sopra il letto e all’idea che Michael Jackson fosse un buffone.

Non ci accorgevamo certo, noi madonnari, del fatto che il nostro idolo fosse sprovvisto di una voce, che le sue doti di ballerina fossero a dir poco approssimative. Non ci facevamo sedurre dal moonwalk e convergevamo compatti verso una che in abiti da maschiaccio si metteva le mani sul pacco. Cedevamo all’inganno di quell’enorme ambizione che poco aveva a che spartire con l’arte e  che probabilmente avrebbe cambiato definitivamente, in peggio, la musica leggera. Chiudevamo un occhio sul talento che soccombeva sopraffatto dal marketing. Votavamo Madonna e non sapevamo di votare per la destra più spregiudicata.

Poi, il resto dei pensieri somiglia parecchio a quello che ho letto qui, e che io così bene non so dire, anche se ricordo le 200 lire nel Juke box e anche se la canzone che mettevo io era un’altra.  

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“Niente” da leggere

I sociologi parlano di “effetto clessidra”. L’idea che sempre più spesso, al mondo, si vada assottigliando il numero degli appartenenti alla cosiddetta “classe media”, in favore di chi sta in alto (i ricchi) e a discapito di chi sta in basso (i poveri). L’antropologo Alberto Salza concorda in linea di massima con la tesi, la trova sostanzialmente efficace, ma decide di cambiare metafora: quella non è una clessidra, quello è un cesso. Sì, perché quelli che sono in alto possono sentire l’aria e vedere la luce, ma a quelli che stanno in basso tocca nuotare nella merda.

È cinico e raffinato, ironico e provocatorio, Niente (Come si vive quando manca tutto, antropologia della povertà estrema, Sperling e Kupfer). E sconvolge e prende a sberle, anche se come me uno ne ha lette per ora soltanto le prime 70 pagine. Ma d’un fiato.

Colpiscono le parole – sentenze – di quelli che non hanno niente, a parte una smisurata saggezza e una grande dignità. Compaiono qua e là, mescolate a teorie economiche e modelli matematici. Pronunciate da pescatori di laghi asciutti e da pastori del deserto.

“I soldi non danno la felicità, figuratevi la miseria…”.

“Lava, lava, tanto non diventerai mai nero come me…”, rivolto all’autore che si toglie di dosso la polvere di un viaggio, nell’Africa dove il bianco è il colore dello sporco.

“Occorre camminare cinque mesi nei sandali degli altri, prima di capire se stessi”.

“Essere poveri è come essere vecchi”.

“Essere poveri significa non avere nessuno con cui vivere”.

“I poveri sono coloro che non hanno accesso alla scuola”.

Frasi così, pronunciate da chi non ha niente ma anche quando parla di miseria non allude mai alla miseria materiale.

Frasi così, dentro un libro con una strepitosa foto in copertina.

Coverbook

 

Oggi è un giorno di scoperte. C’è anche, infatti, questo giovane e bravissimo fotografo.  

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La coppia

Li mettono lungo le strade quando ci sono dei lavori in corso, un tubo da aggiustare, una fibra ottica da sotterrare. Semafori con le ruote. Fratelli minori di quelli che regolano gli incroci, surrogati precari, messi un giorno qua e un giorno là. Usati e caricati in fretta su un camion, sempre in coppia, uno a valle e uno a monte di un senso unico alternato.

Ce n’erano 2 abbandonati, sul ciglio della strada, con i tre occhi puntati sul letto di un fiume di montagna. Erano le 7 di mattina e l’aria era frizzante. Il lavoro sull’asfalto non era più in corso e sembrava anzi che l’avesse già fatto, il suo corso. E loro stavano, lì, uno di fianco all’altro, puntati verso lo stesso niente. Ma accesi, perfettamente funzionanti. E complementari. Uno rosso, il disco più grande, l’altro verde, il disco in basso. Poi viceversa, poi di nuovo. Certo che erano una metafora. Ma di cosa? Oggi ci penso… (della fedeltà? della tristezza? …)

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Pensando a I.

I giorni degli esami non hanno mai molto di magico. C’è sempre qualcuno che va in crisi, che non ricorda, che quella è proprio l’unica cosa che non ha studiato. Capita che scorrano lacrime e finisce che uno se ne senta l’impresario, l’organizzatore. Anche se non è, ma tant’è. I temi scritti all’esame sono spesso di rara bruttezza, anche se a scriverli è un ragazzino o una ragazzina a cui durante l’anno avresti consegnato il Nobel per la letteratura.

Ili

Oggi, mentre vegliavo su equazioni e piani cartesiani, pensavo forte all’alunna I., libera da prove d’esame perché troppo piccola, ma non abbastanza piccola per sfuggire a prove ben più faticose. Un lutto in famiglia, qualcuno che viene a mancare palesemente troppo presto e con modalità che interrogano più di tutte le commissioni esaminatrici che la Gelmini possa mettere in campo.

La piccola I. che non ho mai visto piangere (forse una volta, ma era un ginocchio sbucciato: un altro paio di maniche e di lacrime…), la piccola I. che temevo potesse soffrire la scomparsa del cane Marley, nel libro che le ho consigliato e che ostinatamente, capitolo dopo capitolo, sta cercando di ultimare. La piccola I., forse oggi un po’ meno piccola.

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Il clic prima del clic (ancora su Tiananmen)

Ragazzo

E tutti a chiedersi che fine abbia fatto il ragazzo. Un anno dopo. A cinque anni da. A dieci anni da. A vent’anni da: l’altro giorno. Il ragazzo con le sporte di plastica e la schiena dritta, quello coi capelli neri nel posto dove tutti hanno i capelli neri. L’avranno catturato, l’avranno torturato, sarà fuggito negli Usa, sarà protetto, vivrà sotto mentite spoglie: la solita girandola di ipotesi. E l’ossessione per il dopo, per il “come sarà andata a finire?”.

Ma chi si chiede mai come sia andata a cominciare?

Io sono rimasto colpito questa foto che racconta il prima. Il poco prima, l’attimo prima. Bisogna aguzzare la vista, bisogna “fare caso” tra i due alberi, a sinistra della colonna. La colonna di pietra, non la colonna di carrarmati, pur presente all’orizzonte della piazza. Era già tutto scritto. Il gesto, intendo. Era pensato, ci saranno almeno 200 metri per cambiare idea e l’idea non cambierà, rimarrà la stessa, in quella che non era una farsa (era una tragedia, infatti…) e lo si legge nello sguardo di chi scappa, a piedi o in bicicletta.

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Il mio cantante preferito



Di solito prima degli spettacoli teatrali scrivo MERDA MERDA MERDA. Questa volta lascio che lo scriviate voi… Per quel che mi compete, ovviamente, dopo che avrete ascoltato la canzone che getto nella Pozzanghera… Non certo per il mio compare che ha una voce stupenda ed è stupendo tutto, quando si vede che ha una voglia matta di cantare e gli sembra la cosa più scontata del mondo farlo nell’ora di geografia. Una cosa spontanea, come uno sbadiglio, un dito nel naso, l’aggiustarsi un ricciolo dietro l’orecchio. Chi è Hassiba Boulmerka, la mezzofondista algerina vittima del fondamentalismo raccontata dalla canzone, a lui non importa, e nemmeno chi sia Andrea Mirò che il pezzo l’ha scritto e interpretato.

A lui basta cantare e che io la smetta di provarci inutilmente a suonare contemporaneamente – e male – armonica e chitarra. All’armonica ci pensa lui, dice. Tempo due giorni e le note sono lì, in ordine come i suoi capelli non saranno mai.

Domani forse cantiamo per l’ultima volta davanti ad un pubblico. Io ho appena ripassato il testo, inutile dire che non me lo ricorderò mai. È bellissimo essere sicuro che lui, il mio cantante, sta sicuramente pensando ad altro e non si addormenterà mezzo secondo dopo a causa di una canzone, di una sera di giugno, di una donna che correva contro al vento.

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Prese di posizione

Qualora qualcuno si stesse chiedendo quale sia la posizione ufficiale della Pozzanghera in merito alle circolari ministeriali che trasformeranno i temutissimi 5 in pagella in evanescenti 6 politici, con il conseguente crollo delle speranze dei fautori del pugno di ferro educativo, con il trionfo dei docenti innocentisti, con il dibattito e le lettere ai giornali, con le urla di “allora è tutta una farsa” ecc., il titolare della medesima pozza d’acqua esprime tutta la sua preoccupazione trovandosi sprovvisto di un telo azzurro (al limite blu, 2 x 2 metri) ad uso oceano in una scena dello spettacolo di martedì sera.

Ah, non è tutto. Deve pure ricordarsi di comperare in cartoleria lo scotch biadesivo ché quello della scuola è finito sul più bello.

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Tiananmen e il giorno che metteranno una pezza in piazza

4771b18b2dcd83b5f59e9e3b21051bb2Io in piazza Tiananmen ci son stato 5 volte. In due occasioni era la meta, nelle altre andava soltanto attraversata, come si attraversa un luogo che sta un po’ nel mezzo e ti tocca passarci per forza.

Leggo le testimonianze di chi c’era nel 1989 e mi vengono in mente soltanto le mie impressioni grandi una sciocchezza: gli aquiloni regali pilotati con maestria, i militari di guardia – molto più possenti e accigliati di quelli visti altrove a Pechino, quasi che stare lì fosse il vertice di una carriera di vigilantes – le bottigliette di plastica vuote, per terra, e i vecchietti dalla pelle bruciata dal sole che le raccolgono solerti e quello è il loro lavoro, la faccia grande del timoniere, le statue degli eroi del popolo, la bandiera, l’enorme palazzone del potere, la strada a 12 corsie, la puzza di smog, il  rumore, le vibrazioni al passaggio della metropolitana.

E l’impressione che quello non potrà mai più essere un posto normale, nonostante gli sforzi di normalizzazione, nonostante ai giovani cinesi sia da mesi impedito l’accesso a YouTube e da sempre quello alla verità. Ci vorrebbe forse una di quelle pezze che si mettono in democrazia, un marmo freddo che ricordi: “qui furono barbaramente trucidati…”. Uno di quei gesti contraddittori che accendono i riflettori sulla debolezza dell’uomo e del suo potere, come quando il nostro Stato commemora in uno spaesato cortocircuito le vittime delle tante, delle troppe Stragi di Stato.

Questa sera in cui rivedo gli aquiloni, le statue e le bottiglie vuote di quella grande macchia grigia sulla buccia del mondo, immagino il giorno in cui i cinesi ci metteranno una pezza. Ammettendo ciò che è giusto ammettere e consentendo alla memoria di mettersi in moto con i suoi complicati ingranaggi. Sarà soltanto una pezza, e scusate se non sarà poco. Una pezza in piazza.   

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Madonna Ingenuità

Impazzisco per l’ingenuità, la colleziono nelle parole di chi ne porta quotidianamente il vessillo: le piccole persone, i ragazzi più che i bambini, ché da bambini è facile essere ingenui e limpidi, è a 11 anni che essere ingenui diventa un sottile gioco di equilibrio, uno scialo prezioso di vita, un rischio e un lusso da centellinare.

Alla fermata della corriera la ragazzina si guarda attorno ingannando l’attesa. Ride e gioca, canta e salta, un po’ picchia un coetaneo felice di farsi picchiare. Quel luogo di salite e discese da pesanti automezzi blu non lo conosce bene e si vede, ma non per questo vengono meno il sorriso serafico e la calma olimpica, i suoi tratti distintivi. La corriera giusta ed il suo orario li devo conoscere io, il prof., e anche individuare la fermata in cui scendere sarà compito mio, così gli occhi possono guardare ancora un po’ attorno. Fino a fermarsi sulla scritta nera sul foglio A4 bianco sulla bacheca di legno. Roba anonima in un paesaggio tutto sommato anonimo. Ma Ingenuità vuole sapere, Ingenuità vuole capire. Cosa le è vietato, cosa le sue mani, o forse le sue gambe o forse la sua voce, potrebbero guastare in quel piccolo luogo di attesa per i passeggeri.

«Prof., cosa vuol dire “AFFISSIONE”?».

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Lavori (teatrali) in corso

Le abbiamo già ribattezzate Federica e Laure, nel senso di Federica Pellegrini e Laure Manaudou. Quest’ultima qualcuno la chiama già “la francesina”, confermando atavici pregiudizi che portano ogni giorno, grazie a Google, una decina di visitatori a questo blog.

In realtà sono state costruite circumnavigando con le matite i corpi un tantino più acerbi di Ilaria e Debora, 11 anni, distese a pancia in giù sopra un grande foglio di cartone. Adesso si tratta di dar loro spessore con nastro adesivo, pagine di quotidiano e tanta, tanta colla vinilica.

Nuoteranno nello spettacolo teatrale che stiamo allestendo e che proprio come 4 anni fa (era il 3 giugno 2005) consisterà in una specialissima edizione delle Olimpiadi.

In quale sorta di piscina gareggeranno le due fanciulle di cartapesta rimane un segreto; a Scuolamagia circolano da giorni, però, svariate paia di guanti blu e questo vorrà pur dire qualcosa…

 

Manca una musica, un sottofondo, un suono che sia acqua dolce, note che gocciolino sui corpi in movimento.

Le parole, invece, potrebbero essere quelle di Cecilia Camellini, giovanissima regina del nuoto paralimpico…

 

«L’acqua dipende da te: tutte le volte la senti in modo diverso e anche il colore cambia. Quando ti senti forte e hai voglia di nuotare l’acqua è rossa. Quando sei tranquillo è più azzurra. Ma quando sei stanco allora è nera e diventa durissima, ostile quasi».

 

Mumble mumble mumble.

 

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Una poesia di GLF

Ieri mi hanno regalato un’armonica

a bocca, mi hanno regalato una bocca,

un suono, un respiro con mille spifferi dentro,

una piantagione di spifferi che fa il vento,

e decido, portando le labbra sul ferro

passando sulle finestre scure, di mettermi in armonia

con la sua voce – lo chiamo ritmo.

Balla sui denti come una foresta a notte

che sale e scende le colline.

Dove abiti, non so se vedi le colline

o se la città per te è tutto. Pensa a un’armonica,

un pezzo di legno viti e metallo

che squarcia il mondo, indica l’uscita e l’abbraccia,

perché non te ne vada. Voltati di spalle,

inumidisci le labbra e ascolta.

È made in China la mia armonica,

un passaggio sulla carne come un’impennata di spruzzi

sulla pancia del mare,

è made madre lontana dall’Oriente, porta l’odore

di sandalo, profumo d’arie incrociate sugli oceani,

e di sale, poi scende a cavallo di un destriero,

ventre alla steppa, solletica con la saliva,

i cieli come corridoi di casa. E correndo canta.

 

Gian Luca Favetto

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