Soletta, Stream of consciousness

Chi ti manda, Chimamanda?

Che i due libri preferiti di questo mio 2014 siano entrambi scritti da donne certo non mi sorprende. Che le due autrici si chiamino Auður Ava Ólafsdóttir e Chimamanda Ngozi Adichie mi fa sorridere e ringraziare il presente dei libri acquistati on line, con un clic, senza dover passare per una libraia od un libraio davanti ai quali incartarsi: “avete mica l’ultimo di… ehm… ecco… l’ho scritto qui, sul bigliettino…”.

Americanah è un romanzo strepitoso. Riempie i giorni, e li cambia. Anche se lui è rimasto buono buono sul comodino, finisce che ti ritrovi a sorvolare la Nigeria con Google Earth mentre sei in un’altra stanza per fare altro. Il fatto è che vuoi vedere le strade polverose di Lagos e le automobili che le percorrono, i grattacieli, e le università. Anche se sei fuori casa e l’Einaudi bianco è a chilometri da te, ti ritrovi su YouTube, col telefono, ad ascoltare la canzone (stupidina) che sentono in macchina i due protagonisti appena si rincontrano dopo molti anni di lontananza.

Americanah è bellissimo perché ha tante facce come un diamante. Mille temi universali intrecciati ad arte che mai disturbano lo scorrere della storia d’amore, quella della canzone stupidina, al centro delle vicende narrate.

Dentro Americanah ci sono la Storia e la Geografia, il colonialismo e Barack Obama. Leggi Americanah e capisci il clima di Ferguson-Missouri, capisci perché un africano, anche benestante, non può non voler partire per qualche altrove.

E poi c’è l’amore, dentro Americanah, quello che fa rimanere due persone  unite nella distanza, invulnerabili dinanzi allo scorrere del tempo, “allacciate in un cerchio di completezza”.

 

 

«Le sue parole erano come musica, e si sentì respirare in modo sconnesso, inghiottendo l’aria. Non voleva piangere, era ridicolo piangere dopo tanto tempo, ma i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime e sentiva un macigno nel petto e la gola le pungeva. Le lacrime le facevano prudere il viso. Non fece rumore. Lui le prese la mano nella sua, entrambe strette sul tavolo, e tra loro crebbe il silenzio, un antico silenzio che antrambi conoscevano. Lei era dentro quel silenzio e stava al sicuro».

Chimamanda Ngozi Adichie, Americanah

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Il tuffo di Brittany

Brittany ha un appuntamento con la morte. È fissato per sabato. No, non si tratta di un tragico destino pronto a pioverle addosso, a sua insaputa. La data l’ha scelta lei, agenda alla mano, come si fa con la revisione dell’auto o la messa in piega dal parrucchiere.

Il cancro che ha nel cappello è troppo forte e cattivo, non si tratta di un portafortuna e Brittany è lì tranquilla mentre il mondo sta girando pieno di fretta.

Si è trasferita da San Francisco fino nell’Oregon, dove morire, in un caso come il suo, si può. Per me – ceo della Ignoranti Corporation – l’Oregon significa due cose soltanto: la storia di Brittany e lo scrittore Chuck Palahniuk, che a occhio ne saprebbe trarre un travolgente racconto.

In Italia in molti hanno scritto della scelta di Brittany, in maniera preziosa alcune donne (Chiara Lalli, Daria Bignardi e oggi Emanuela Audisio…) e chissà se è soltanto un caso.

Però dubito se ne parli granchè, nei tinelli italiani in questa fine ottobre di gettoni e manganelli. Peccato, perché ci riguarda un bel po’. Metti che un giorno s’arrivi anche noi sulla soglia di quel diritto…

Scrive oggi l’inviata di “Repubblica”:

«Sarebbe bello non giudicare Brittany, non dividersi, non polemizzare. Quanti di noi alle prese con un tuffo difficile da una scogliera, dicono all’amico: guardami. Perché se tu mi vedi io avrò meno paura. E oggi ci si può far tenere la mano anche online».

Assistere al tuffo di Brittany si può. Basta andare su questo sito e spedirle una sorta di “cartolina”. E pazienza per la retorica e la guerra sporca tra le associazioni pro e quelle contro.

Sulla scogliera si sente soltanto un gran rumore di onde e di vento.

Aggiornamento: Brittany sembra abbia deciso di rimandare il suo appuntamento. Un gesto di libertà che si somma a quello di cui ho parlato nel post.

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E improvvisamente produrre il nuovo disco di Giua

Era la primavera del 2007 e stavo guardando svogliatamente un Tg3 del pomeriggio. L’ultimo servizio, in quota cultura, mostrava una cantautrice coi capelli rossi appollaiata sopra uno sgabello. Cantava e suonava, a margine di qualche festival tenuto chissàdove. Dopo meno di dieci minuti una mail di conferma confermava con fermezza l’avvenuto acquisto di un CD.

Ne sono passate di canzoni sotto i ponti delle chitarre, ma quelle di Giua continuo a cantarle a squarciagola. Perché sono oggetti preziosi, perfetti, prismi con tante facce, facce che riflettono sempre qualcosa di nuovo.

Poi Giua ho avuto la fortuna di conoscerla davvero. L’ho ascoltata ai piedi di vari palchi, ma anche nel corso di esibizioni postprandiali improvvise come urgenze, in osservanza al pervasivo demone della musica.

Un giorno la mia alunna Ilaria ha orecchiato una sua canzone nella mia macchina, durante un breve e casuale tragitto. Conseguenze: amore a prima vista e un messaggio spedito dalla Carnia alla Liguria, complice Facebook.

Un anno e mezzo dopo, Ilaria si “laureava” in terza media con una tesi sulla sua cantautrice preferita, eseguendone un brano dal vivo preparato via Skype, discettando di scuola genovese e di quante cose ci siano in Via del Campo.

Per tutto questo penso a Giua come ad una persona molto, molto generosa.

Oggi, però, è la cantautrice a chiedere a tutti un gesto di generosità e di fiducia, dopo aver lanciato un finanziamento collettivo per la realizzazione del suo terzo album.

Andando qui, tutto è spiegato con chiarezza.

Si tratta si una sorta di patto da stringere, con l’arte e con la bellezza.

Stringiamolo.

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I miei magnifici 11

Raccolgo la sfida lanciatami su Facebook e stilo la mia personale formazione di libri che cambiano la vita. L’espediente calcistico mi permette l’aggiunta di un undicesimo titolo, dopo che fin troppo dolorosa è stata l’esclusione del dodicesmo, del tredicesimo, del quattordicesimo, ecc.

Il numero di maglia corrisponde al ruolo da interpretare sul campo, secondo l’antica scienza numerologica calcistica, per chi la conosca e ne sappia svelare gli arcani.

Pronti, attenti, via.

1. Portiere

Alexander Langer, Il viaggiatore leggero

Perché se anche solo un uomo politico su dieci perseguisse le sue idee, il mondo avrebbe risolto ogni suo problema. Perché Alex aveva irrimediabilmente sempre ragione.

2. Terzino destro

Domenico Starnone, Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso

Perché il primo giorno che sono entrato in classe mi sono comportato come sta scritto lì dentro, e forse anche nei giorni successivi…

3. Terzino sinistro

Goliarda Sapienza, L’arte della gioia

La storia di una donna, che tutte le donne dovrebbero aver letto…

4. Mediano di spinta

Luigi Meneghello, Libera nos a malo

Il libro meno provinciale che ci sia, scritto in provincia della provincia della provincia che sta più in provincia.

5. Stopper

Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto

La scrittura più limpida, rotonda, perfetta. Un punto fermo.

 

6. Libero

Adriano Sofri, Piccola Posta

Perché di uomini più liberi di lui non ne conosco.

 

7. Ala destra

Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Portopalo

Mi ha fatto capire qual è LA questione del tempo in cui mi è capitato di vivere. Non solo, mi ha fatto capire anche di aver avuto un amico che si chiamava Anpalagan Ganeshu.

 

8. Mezzala destra

Elsa Morante, La Storia

Perché il bambino Useppe da solo meriterebbe la maglia da titolare. Poi ci sono tutti gli altri personaggi.

 

9. Centravanti

Antonia Pozzi, Parole

La poesia segna più della prosa. Antonia è anche il capitano della squadra.

 

10. Mezzala sinistra (regista)

Andrea Pazienza, Perché Pippo sembra uno sballato

In quel ruolo ci vuole per forza un genio.

 

11. Ala sinistra

Arundhati Roy, Il dio delle piccole cose

Perché l’autrice, tra le mille invenzioni, s’inventa il plurale di pelle d’oca (“6 pelledoche”). E poi ti porta in India, e ti ci fa accomodare.

 

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Buona scuola a tutti

 

Che cosa c’è dentro le vostre teste, bambini?

Che cosa c’era dentro la mia?

Il sandalo sporcato nella polvere,

il passo leggero del lupo

il sasso che spacca la bottiglia

l’aria pulita nel cerchio delle pupille

nel declinare del sole

la figura di un biplano rampante,

che cosa c’era dentro la mia?

 

Sono qui, con voi, perché sia voce

la mia dentro le vostre

voce dimenticata

e l’assolata fantasia dei vostri anni

la forza che reclama da ogni radice il frutto

salvata intatta nel vostro guardare di uomini,

che cosa posso perché voi possiate,

che cosa posso io, a voi che tutto potete

a voi che guardate le cose che vi daranno lo sguardo

che cosa posso, bambini?

 

Pierluigi Cappello

 

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Italy in a day (è un giorno in Italia, anche questo, in un parcheggio in cima al mondo…)

 

Cara 3ª C,

ormai ex 3ª C, ed è già quasi ora di farvi l’inboccaallupo per quando diventerete 1ª qualcheccosa, sparsi qua e là tra le scuole superiori. Ma non oggi, oggi guardo indietro e vi chiedo se vi ricordate di quel giorno, era il 26 ottobre 2013, in cui siamo usciti dall’aula per girare quei due piccoli video. Vi ricordate?

Nel primo, uno di voi se ne stava seduto sul banco per scrivere un tema, con penna, astuccio e vocabolario. Soltanto che il banco l’avevamo piazzato in mezzo al cortile, e subito cominciava una partita di calcio che di quell’oggetto se ne fregava, faceva finta che non ci fosse. Chi scriveva guardava nel vuoto, come chi pensa profondo, e mordeva il tappo. Gli altri stoppavano e crossavano, passavano, tiravano e paravano. Contemporaneamente.

Per girare il secondo ci eravamo spostati sulla Gomba, il punto panoramico di Forni Avoltri, da dove la scuola diventa piccola piccola, come tutto il resto, e soltanto il fiume sembra paradossalmente diventare più grande, mostrando con chiarezza il suo fare a fette il paese. Lassù prima guardavate in camera, sorridenti e un po’ misteriosi, poi facevate un urlo potente affacciati sul vuoto, in direzione delle case. Una parola sola dicevate al mondo, e non era nemmeno importante che fosse quella, la parola, il bello stava tutto nel fatto di dirla. Il bello stava negli altri paesani che lì sotto l’avrebbero sentita, chiedendosi a quale nuovo gioco stessimo giocando in quella mattina di ottobre.

Oggi a Venezia il regista Gabriele Salvatores, quello che doveva mettere insieme i pezzi, ha presentato il suo lavoro. Pezzi ne ha raccolti 44.000.

Voi non ci siete, ve lo posso assicurare anche se non ho visto il film. Siete minorenni, e se avessero scelto le vostre facce mi avrebbero chiesto le autorizzazioni delle famiglie, quelle che si chiamano “liberatorie”. Non l’hanno fatto, anche se per tutta l’estate ho sognato di rispondere al telefonino e dire “Ah, ciao Gabriele, certo, ok, vedrò cosa posso fare…”.

Non credo non siate piaciuti a Salvatores, nel trailer ci sono scene nemmeno troppo diverse e vi confesso che nelle “situazioni” che abbiamo rappresentato c’avevo infilato qualche piccola citazione dei suoi film… (per esempio, lui una volta s’è inventato una partita a pallone nel deserto che un po’ somigliava al nostro tema calcistico…).

Piuttosto la qualità delle immagini non era all’altezza, i nostri mezzi erano quello che erano e il sottoscritto valeva come mezzo cameraman.

È andata così, però io di quel giorno ho un bellissimo ricordo e quei due “filmati” li guarderò quando mi mancherete un bel po’, forse ma forse.

 

Il 27 settembre Italy in a day andrà in onda su Rai3. Io sarò davanti alla Tv, non si sa mai. Magari un frammentino senza facce, un fotogramma del paese visto dall’alto, il sonoro del vostro urlo… Insomma, e se…

 

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Caro Guido Baldoni

 

Caro Guido Baldoni,

il primo giorno di settembre dell’anno 2004-2005 è iniziato nella mia piccola scuola con le parole di tuo padre. Le sue “Disposizioni per un saluto” hanno colpito moltissimo i miei alunni di 12, 13, 14 anni. Avevano tutte le caratteristiche per rimanere impresse in quella tipologia di lettore.

Prima di tutto finivano con un “Ma fate voi, cazzo mi frega”. Musica per quelle orecchie.

Poi trattavano di balli, alcoolici e sveltine.

Soprattutto, però, esplodevano di vita e di libertà.

Un funerale tutto da ridere: roba mai vista.

Le parole di Enzo, i suoi reportage, sono entrati in classe tante altre volte, da allora, e mi hanno aiutato tantissimo nella mission impossible di raccontare questo mondaccio andando oltre l’elencazione di tropici e fiumi, capitali e regimi. Mettevano al centro prima di tutto le persone e le loro storie. Erano perfetti, quindi.

Confesso così di essermi rattristato nel veder scivolare questo decimo anniversario lungo una china così poco baldoniana.

Non mi permetto nemmeno di sfiorare il dolore tuo e della tua famiglia, capitolo aperto e destinato a rimanere tale, né tantomeno di muoverti alcun rilievo (non ne ho motivo), ma ti prego di seguirmi.

C’è stato un tuo scontro con Christian Rocca, uno di quelli come ce ne sono tanti. È andato com’è andato: tu l’hai criticato, lui t’ha messo alla porta. Le vostre posizioni sono con tutta evidenza molto poco conciliabili. Rocca ti ha intimato di “smammare”, così come accade spessissimo su Twitter. Ti ha chiamato “Troll”, termine anch’esso quasi abusato in epoca di grillinismo.

Escludo che tu ritenga di godere di una posizione privilegiata in nome della tragedia che hai vissuto. Certo, la vita ti ha posto tuo malgrado in un punto di osservazione privilegiato su certe faccende, e pensi giustamente di avere molto da dire. Ma quando ci si scontra dialetticamente tu puoi dire “troll”, “incompetente”, “cialtrone” e “in malafede” esattamente come quegli epiteti ti possono piovere addosso in quanto Guido e basta, giovane italiano che si indigna e lotta con le sue idee per un mondo migliore.

Il fatto è che il tuo litigio con Rocca ha fatto venir giù un muro e le schifezze che nascondeva alle sue spalle.

Rocca è uno che ha incrociato la penna con un sacco di colleghi, li ha criticati, sfidati e sfottuti. Rocca – in questo andazzo tutto italiano che immagino facesse schifo a tuo padre – “indossa una maglia” (lanciato da Giuliano Ferrara, già giornalista al “Foglio”, da sempre irremovibile filoisraeliano, in forza al “Sole24ore”). Sicuro che chi ti ha difeso non l’abbia fatto anche per approfittare del passo falso di un nemico storico? Sicuro che tutti quelli che han cominciato a seguirti e ti hanno espresso la loro solidarietà in queste ore avessero e abbiano a cuore la memoria di tuo padre e la nobile difesa di suo figlio? Io ho dei dubbi. Mi piacerebbe crederci, ma leggendo tweet e post rimango perplesso.

Stessa cosa con Guia Soncini. Dal suo profilo Twitter molla frustate a destra e a manca, fa girare ogni giorno vagonate di coglioni, fa ribollire la bile di attori e cantanti, giornalisti e uomini politici. Il mondo dei cinguettii funziona anche così, e – forse lo ammetterai anche tu – ci piace anche per questo.

Se leggi il modo in cui è stata attaccata, ti accorgerai di come tantissimi si sono “presi la rivincita” approfittando del tuo legittimo litigare con lei di ieri. In tanti, feroci. Famosi e non. Non sono arrivati. Erano già lì, stavano aspettando.

Davvero non me ne frega niente di chi avesse ragione sul pezzo di Zakaria, dico soltanto che forse tuo padre (qui mi tremano un po’ le parole che sto digitando, pensando a chi sia il loro destinatario) vi avrebbe guardato scazzottarvi di geopolitica, avrebbe fatto il tifo per te (perché sei tu e per le idee che aveva) e alla fine vi avrebbe offerto una birra. Ti avrebbe sussurrato all’orecchio “Quel Rocca con capisce un cazzo…”, ma basta, punto… Di tutto l’odio e di tutta la rabbia dei tuoi “difensori”, a lui “cazzo gli frega?”.  

E se avesse visto un tweet come questo… 

 

Sarebbe diventato subito rocchiano di ferro, Enzo. Seduto comodo comodo dalla parte del torto. Perché nel pandemonio di ieri è successo anche quello che ha descritto bene Luca Sofri in questo breve post, con un azzeccato esempio finale.

(A proposito di cinguettii, c’hai pensato anche tu, vero, a che strepitoso utente di Twitter sarebbe stato?).

Sono sicuro che oggi, a margine di questa querelle che finirà presto nel dimenticatoio, ci sarà stato per te il tempo di “musiche allegre, violini, sax e fisarmoniche”. Scusami quindi per i minuti che ti ho rubato, e per essermi permesso di parlare di tuo padre, che ho conosciuto ahimè soltanto nelle pagine dei giornali.

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Para la memoria

La notizia ha un paio di giorni e l’hanno sentita tutti.

Succede ancora, fino al momento in cui non succederà più.

Un altro nipote riabbracciato dalla legittima nonna.

Un bambino rubato al corpo ammazzato di una giovane madre. Il figlio di una “sovversiva” riciclato impunemente dai carnefici dei genitori naturali, nella notte buia dell’Argentina.

Un incubo lungo una mezza vita, una vita da Ignacio, riscattato da un esercito di nonne coraggio che mettono il tuo passato in una centrifuga e te lo restituiscono con un’etichetta diversa, che se la leggi dice Guido, non Ignacio, Guido Carlotto, origini italiane, figlio di Laura, imprigionata, colpevole di aver partecipato alla vita politica del proprio paese, uccisa a 23 anni poco dopo il parto. Desaparecida no, le sue spoglie furono riconsegnate alla famiglia. Quel bimbo sì, scomparso, come molti altri.

E la notizia, quel piccolo capolavoro di giustizia, l’han sentita già tutti.

Non hanno sentito tutti – invece, forse – la canzone “Para la memoria”, che Ignacio/Guido, musicista cantautore, ha scritto, interpretato (fisarmonica e voce) e dedicato a questa storia. Proprio lui, il bimbo rubato, quell’esistenza uscita come un maglione rovesciato dalla lavatrice della Storia.

Si sa che i cantautori spesso raccontano di sé nelle canzoni. A differenza dei semplici interpreti, capita che si emozionino in maniera particolare, rivivendo spesso all’infinito, nel corso della carriera, i sentimenti fissati nei versi e nelle note.

Ecco, se tale luogo comune corrisponde al vero, da quale tornado sarà percorsa la pelle di Guido Carlotto mentre esegue “Para la memoria”?

 

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Zeza e Giorgia

Mica per buttarla in politica, ché non ha senso.

Svegliarmi ieri mattina, però, e scoprire da Facebook come due vecchi frequentatori delle mie classi (“diplomati” a Scuolamagia tra il 2007 e il 2008) hanno percorso le strade del loro paese nel giorno topico della sagra – storia e radici, tradizioni e gastronomia – mi ha messo proprio di buonumore.

L’ironia è sicuramente un tratto distintivo nella personalità dei due giovini, che già ai tempi delle Medie nelle ore di teatro gigioneggiavano spavaldi, ma non posso non pensare come il loro rimanga un piccolo paese di provincia, dentro una nazione che si spaventa e traballa perché qualcuno mette un tanga e un boa di struzzo attorno alle sue statue più mascoline e virili.

Ignoro se si trattasse per loro di saldare il debito di una scommessa, se fosse stato indetto (dubito) qualche concorso per maschere o gara di camuffamento, se abbiano semplicemente voluto giocare un gioco nuovo. Non importa, quello che importa è che: belli, belli, belli!

 

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Ho scritto a Scarlett Johansson

 

Cara Scarlett Johansson,

qualche giorno fa ho finito il romanzo di Grégoire Delacourt che ti ha fatta molto arrabbiare, o forse ha fatto molto arrabbiare i tuoi avvocati e coloro che si occupano della tua immagine.

La causa intentata verso l’editore francese del libro si è conclusa in tuo favore, nonostante la cifra del risarcimento che ti verrà corrisposto sia decisamente ridicola: 2.500 euro. Non ti accuso certo di aver voluto monetizzare la faccenda, lungi da me, e ti credo invece affezionata alla sottostante controversa questione di principio. Uno scrittore ha preso la tua vita, non la mia, e l’ha fatta diventare protagonista di una storia che poi prende certe sue affascinanti e autonome strade.

Io non ti conosco particolarmente bene, e i film in cui ti ho vista recitare si contano su una zampa di gallina. In Lost in Translation mi avevi colpito moltissimo, ma senza nulla voler togliere al tuo talento me l’ero spiegato più con la magia soffusa messa in piedi dalla regista e dal direttore della fotografia, con lo zampino della stessa Tokyo. A volte sei spuntata nelle chiacchiere serie e meno serie che si fanno a scuola. Mi è capitato di citarti in quanto donna ebrea, per allontanare dalle menti degli alunni qualche immagine datata e soprattutto stereotipata.

Per i ragazzini di oggi sei soprattutto l’emblema della bellezza, il paradigma della “diva”. Mica per niente l’autore di La prima cosa che guardo ha scelto te e non un’altra per il suo esperimento letterario.

Il fatto è che il romanzo gli è uscito davvero carino. Dentro ci sei tu, ma ci sono anche alcuni snodi di una dolcezza sfacciata, ci sono un sacco di dolori taglienti che si spingono molto oltre la problematica dell’ “essere/somigliare a Scarlett Johansonn”. Ci sono tematiche, nel libro, davanti alle quali anche tu, che sei tu, passi in secondo piano. C’è anche molta ironia e c’è tra i capitoli, a cucirli insieme, un’aria fresca e leggera. Leggera come l’allusione del titolo, chiaramente riferito ad una dote tua diciamo… non proprio spirituale. Una lunga scena di sesso accompagna il lettore per molte pagine verso il finale, ma sembra uscita dal genio di Jean Luc Godard: accadono molte cose su quel talamo, ma hanno più a che fare con la storia dell’arte, della letteratura e del cinema.

Ecco, arrivo al motivo di questa lettera.

Incassa i 2.500 euro. La legge è legge. Voi Star in genere devolvete in beneficienza i guadagni delle cause vinte e tu sarai impeccabile anche in questo. Poi, però: telefona a Delacourt e chiedigli di trasformare il suo romanzo nella sceneggiatura di un film. Una pellicola che altrimenti sarebbe irrealizzabile: dove la trovi un’attrice che impersoni Scarlett Johansson senza esserlo? Impossibile, finirebbe come coi i film sul ciclismo, con attori che nonostante le diete mai e poi mai avranno il fisico asciutto e spigoloso degli assi delle due ruote a pedali.

Tu, invece, saresti perfetta. Il lungometraggio risulterebbe raffinato, ma nel contempo sufficientemente pop.

Insomma, un trionfo al botteghino.

Senza contare – scusami se è poco – che ti leveresti di torno quella fastidiosa patina d’antipatia che unge le celebrità troppo permalose, trasformandola nel suo esatto contrario.

 

«Mia madre diceva che ero una neonata splendida. Poi una bambina incantevole. Il sindaco voleva creare un concorso di Miss solo per me. Una bambina incantevole. La cosa ha causato dei fastidi con il mio patrigno. Faccende sgradevoli. Che ti fanno venir voglia di andartene. Come Jean Seberg nella sua automobile. Poi mia madre ha smesso di trovarmi bella. Ha smesso di parlarmi. Non so che cosa ne sia stato di lei. Ho vissuto con mia zia. Setta anni fa il mondo ha scoperto il mio viso in Lost in Translation. Dal giorno in cui è uscito, il 29 agosto 2003, odio la mia faccia. La odio ogni minuto, ogni secondo. Tutte le volte che una ragazza mi guarda chiedendosi cos’ho io più di lei. Ogni volta che un tizio mi fissa e io mi domando se mi abborderà, mi toccherà, tirerà fuori un coltello, un taglierino, pretenderà un pompino o somplicemente mi chiederà un autografo. Forse solo un caffè. Soltanto un caffè. Ma non succede mai. Non è me che guarda. Non è me che reputa bella. Non sono io.

Il mio corpo è la mia prigione. Non ne uscirò mai da viva.»

 

Cara Scarlett,

nella speranza che tu non faccia causa anche a me (per così poco…), ti saluto e ti auguro tutto il bene possibile.

 

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La domenica dei papà (che puzzano)

Il fine settimana sportivo va in archivio con le sue belle imprese frutto di talento e tenacia, classe e coraggio, ma può essere guardato anche sotto la lente della paternità.

C’erano le gemelline di Federer ad assistere alla rimonta del papà nella finale di Wimbledon, sconfitto da un Djokovic pronto a dedicare la vittoria alla compagna e al frugoletto che porta in grembo.

C’era Vincenzo Nibali in maglia gialla con una frase bellissima sulla sua nuova condizione di padre oltre che di campione: «…non è cambiato niente, sono sempre quello. Sono solo più felice…».

E c’era una bimba riccia in braccio al suo eroe arancione (il centravanti olandese Robin Van Persie), appena sbarcato in semifinale nel mondiale brasiliano.

Lui rispondeva ai giornalisti, ancora con il fiatone. Lei, Dina, si inseriva nell’intervista con un meraviglioso:

«Ma quanto puzzi, papà!»

 

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Happy a Scuolamagia

 

Il piccolo festival del cinema indipendente di Forni Avoltri continua (e si conclude) con il cortometraggio delle ragazze: Irene, Nicole, Evelyn e Rebby.

Non chiamate “disimpegno” la cifra stilistica della loro opera. Vi assicuro che per raggiungere l’obiettivo di spassarsela al massimo ce l’hanno messa davvero tutta, sottoponendo il paese intero ad una sorta di invasione barbarica a colpi di balli, strilli e risate.

Buona visione.

(Piuttosto agghiacciante scoprire che nelle settimane di lavorazione analoga impresa di abbinare allegre movenze a quella musica così globalmente popolare era tentata anche da un gruppo di giovani adulti di Teheran, con la differenza che i malcapitati – in realtà molto più composti delle quattro tredicenni italiane – hanno scontato con il carcere la colpa di essersi dichiarati nientepopodimeno che felici).

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Cartolina di Forni Avoltri

 

Marcello, Cristiano e Thomas hanno raccontato con un video il loro paese, che è poi quello in cui ha sede Scuolamagia e in cui mi reco ogni giorno a bordo della mia aula, pardon… della mia auto. L’hanno realizzato a scuola e nel corso dei loro pomeriggi, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Ad unire tra loro le varie scene hanno voluto che fossero le biciclette.

Le ricadute sul Pil del comune in cui vivono saranno inevitabili e incalcolabili (incremento dei flussi turistici, commesse industriali…), ma i 3 giovani cineasti hanno agito in maniera del tutto disinteressata, concentrati cioè sulle consegne del profdisint e su null’altro.

Buona visione.

 

Domani tocca al secondo video prodotto dalla 3ª C, quello delle ragazze. Stay tuned.

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To Be Continued 2014: anche noi listening point

TBC...2014flyer

Siamo il paese del #jobsact e della #spendingreview e domani la mia scuola, alias Scuolamagia, diventerà un #listeningpoint.

Dalle 8.00 alle 16.30 chiunque passerà per l’aula polifunzionale (no, non la chiamiamo così, siamo soliti dire “giù dai computer”, anche se ho sognato che quel luogo rimanesse impresso nelle menti come “AULA MAFALDA”, dopo aver commissionato ad alcuni alunni la realizzazione di una bimba argentina da appiccicare al legno della porta…) potrà cogliere nell’aria note provenienti da un sacco di altrove. Domani, infatti, si rinnova il piccolo grande miracolo di To Be Continued, 48 concerti incatenati l’uno all’altro, piccoli anelli di mezzora che andranno ad unire la mezzanotte del 23 marzo con quella del 24. Non ci sarà un ascolto “forzato” e in teoria nessuna lezione del lunedì si svolge solitamente in quegli spazi. Tuttavia, capita che ognuno ci passi più di una volta, per recuperare la riga da 60 cm o un barattolo di tempera blu, per stampare una cartina del Congo o per cercare il tappo di un evidenziatore volato giù dal piano superiore. Sarebbe bello che studenti e insegnanti si chiedessero anche solo se i suoni a quell’ora scendono da Mosca o risalgono dalla Nuova Zelanda, se piovono dall’Irlanda o riaffiorano dai cantoni svizzeri, oppure se lo strumento che sta sfornando note è un sitar, una balalaika o un asciugacapelli impiegato in modo strambo.

A fianco del computer ci sarà una stampa della locandina dell’iniziativa, un disegno strepitoso di Cosimo Miorelli. Ci fosse un prezzo del biglietto – ma ovviamente non c’è – la locandina da sola lo varrebbe.

Un punto di domanda: la primavera è cominciata da 3 giorni, i miei alunni vengono da una settimana in cui hanno giocato a calcio durante l’intervallo in canottiera e pantaloni corti e il meteo nella notte prevede nevicate oltre i 500 metri. Con le nuvole gonfie di neve, la banda già non molto larga di Scuolamagia si fa strettissima, un vero collo di bottiglia. Mannaggia.

(Eventualmente ci si stringerà tutti attorno al mio cell., ma non sarà la stessa cosa…)

 

Per ascoltare To Be Continued, nella giornata di lunedì 24:

CLICCA QUI

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Non dirmi che hai paura

Preso da una strana euforia, l’8 agosto del 2008 ho pubblicato un post con un elenco di persone importanti, e mi ci sono infilato. In comune quegli umani avevano soltanto il fatto di trovarsi contemporaneamente nella stessa gigantesca città. L’8 agosto 2008 a Pechino cominciavano i giochi della XXIX Olimpiade. Ricordo le grandi manovre davanti a quello stadio pazzesco, a due giorni dal via. Ricordo i bambini cinesi che sbucavano dai vicoli per abbracciarti e augurarti il benvenuto in città. Ricordo la cerimonia d’apertura vista alla Tv cinese, accompagnata da un primitivo liveblogging. Ricordo tanto, è una mia caratteristica, ma non ricordo Samia. Eppure Samia c’era ed era bellissima, avvolta negli abiti tradizionali del suo paese, la Somalia, dentro una delegazione sparuta e spaurita. Da qualche giorno, da qualche ora, mangiava come mai aveva mangiato e come mai più avrebbe fatto, e dormiva per la prima volta su di un letto degno di quel nome.

La sua storia l’ho conosciuta per la prima volta nel 2012, in un pezzo della scrittrice Igiaba Sciego, ed ora – romanzata senza stravolgimenti – è finita nel libro di Giuseppe Catozzella. Si legge in un fiato, e il racconto di una vita finisce per somigliare al percorso dei 200 metri piani. Quei giorni a Beijing 2008 stanno sulla curva, prima del rettilineo delle lunghe falcate, prima di dare tutto.

C’eravamo io e George Bush, quel giorno a Pechino. Con noi c’erano Lula e Laure Manadou. C’era anche Putin, e lui ci sarà anche a Sochi, pensa un po’, venerdì. C’erano migliaia di atleti e c’era soprattutto Samia Yusuf Omar.

 

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Soletta, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Due come loro, due come noi

Bari, poliziotti scoprono due campioni al centro accoglienza

A quelli come loro di solito si impedisce di scappare.

In questa storia due di loro più veloce scappano e meglio è.

A quelli come loro di solito si dà un foglio di via.

In questa storia a due come loro si dà semplicemente il via.

A quelli come loro di solito si prendono le impronte digitali.

In questa storia a due come loro si prendono i tempi.

A quelli come loro di solito si tolgono i lacci delle scarpe, per il timore di atti di autolesionismo.

In questa storia a due come loro si fa il groppo alle Asics  e alle Nike nuove fiammanti, leggere e flessibili.

I due come loro, protagonisti di questa storia, si chiamano Abdul e Mussie: uno somalo e l’altro eritreo, rispettivamente 21 e 25 anni, sono rinchiusi nel Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Bari, nell’attesa infinita di un permesso di soggiorno.

I due come noi sono agenti di polizia, si chiamano entrambi Francesco ma per Abdul e Mussie sono più confidenzialmente “my big father” e “my big brother”.

I due colleghi, podisti per hobby, hanno visto la corsa dei due africani e hanno capito di non trovarsi davanti a due runner normali. Per dire, Abdul ha disputato un buon 5.000 metri a Daegu, Corea del Sud, ai mondiali di atletica del 2011. Un posto dove fai la fila per l’antidoping con Usain Bolt.

Poi la vita, soprattutto in certi paesi disgraziati, capita che prenda pieghe tremende e che tu finisca catapultato dai podii internazionali alle carrette che attraversano il Mediterraneo.

Si può storcere il naso, certo, e pensare che i migranti in Italia sono tanti e hanno bisogno di attenzioni più urgenti rispetto a quel borsone di capi tecnici messo a disposizione gratuitamente dai due agenti col pallino della corsa.

Intanto però le nostre forze dell’ordine hanno bisogno di riscatto, e una vicenda come questa rappresenta un esempio decisamente virtuoso. Riflettete, se vi sembra poco: tempo fa si è tenuto in quel centro di accoglienza un “Trofeo del Profugo”, il somalo e l’eritreo hanno stracciato tutti, giocoforza, ma il sovrintendente Francesco Leone, agente di polizia, è fiero di essere arrivato terzo. Per quanti italiani “profugo” è peggio che un insulto?

Francesco e Francesco vedono le cose senza fronzoli e retorica: se uno è nato per correre devi permettergli di correre. A loro sembra assurdo che il destino di Abdul sia così tanto diverso da quello di Bernard Lagat, keniota naturalizzato statunitense, star dell’atletica, soltanto pochi centesimi più veloce del somalo diciottenne, ai tempi di Daegu. Spiegano: “È come se nascosto in quel campo ci fosse stato uno che a 18 anni aveva perso con Federer. E non gli davi più una racchetta in mano”.

È come se in quel campo lavorassero due persone così e non gli dai il Ministero degli Interni. 

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Parola di antonia, Soletta, Stream of consciousness

Blu, una poesia…

 

BLU

 

A sbrissin i vistîts lizêrs

sbregâts, dismembrâts

de aghe sglonfe di otubar

    La tô ultime cjase:

    ramaçs secs

    e alighis di roie

e un cûr sul cuel

e un e cuarde ator dal cuel

e vergulis blu

i toi ultins vistîts lizêrs

    Un cuarp pûr

    sporcjât dal flât di chei oms

    che no domandavin nancje il to non

    La ultime olme

    des lôr scarpis pesantis

    sul to cûr

                 e vergulis blu

                        e lavris blu

                 e muse cence voi

                 e aghe, aghe

                 i toi ultins vistîts lizêrs.

 

Lucia Gazzino, Babel. Oms, feminis e cantonîrs, La Vita Felice.

 

 

BLU*

Scivolano gli abiti leggeri / strappati, smembrati / dall’acqua gonfia di ottobre / Rami secchi /alghe di torrente / la tua ultima casa / un cuore al collo un laccio al collo / e lividi blu i tuoi ultimi / vestiti leggeri / un corpo puro/ lordato da uomini /che non chiedevano / neppure un nome / L’ultima impronta / delle loro scarpe pesanti / sul tuo cuore / e lividi blu / e labbra blu / e viso senz’occhi / e acqua, acqua / i tuoi ultimi vestiti leggeri

 

 

Udine, 11 Ottobre 2004. Una prostituta è trovata strangolata ed affogata nella roggia fuori città

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Piccola posta, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Machiavelli, Tupac e la Principessa

 

Sta parlando di Machiavelli, Adriano Sofri nel suo ultimo libro, quando la mia matita ha un sussulto: standing sottolineation.

 

«E  infine, è povero, e deve arrabattarsi. Non vuole essere povero, ma poi rompe le righe, ed è il suo vanto: “che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere”.

I suoi interlocutori, anche quando la disgrazia li ha sfiorati, non sono poveri. È stato il loro privilegio. Sono attenti a non farlo pesare, i migliori, ma non ci riescono: i ricchi, anche quando hanno le migliori intenzioni, non riescono mai a non farti pesare la loro inferiorità».

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Baby box. Quello che metterei nella scatola di un bimbo italiano

Äitiyspakkaus. Letta da qui la parola ha il suono aggressivo di una minaccia. In realtà si tratta soltanto di una scatola, quella che lo stato finlandese , per tramite del suo ente di previdenza sociale, fa recapitare a tutte le donne in dolce attesa.

Äitiyspakkaus ospita trapuntine e cuffiette, forbicine per le unghie e bavaglini, giochi, libri ed altro ancora. Svuotata del suo contenuto si trasforma in una culla, spartana ma accogliente. Dal 1938 i finlandesi ci dormono e ci fanno allegramente pupù. Anche oggi, nell’epoca delle scelte funzionali e della personalizzazione di ogni oggetto, solo un’esigua minoranza rinuncia alla babybox e richiede il corrispettivo in denaro: 140 euro. A testimonianza del fatto che il cadeau dello stato, etico e ostetrico, conserva la sua forte carica simbolica.

Quando va bene una mamma italiana riceve un molto meno poetico “bonus bebè”, comunque meglio di un pugno sul naso; quando va benissimo non le è toccato di firmare una lettera di dimissioni in bianco.

Enrica, la blogger finita nella pozzanghera qualche post fa, si è divertita a stilare il suo elenco di cosucce da infilare nella scatola in versione Made in Italy, ad uso dei vari Matteorenzi (oh, babbo, piglia la s’atola del sinda’o), Beppegrillo (un pacco vuoto, all’interno soltanto l’eco di un vaffanculoooo…), ecc…, invitando i visitatori del suo diario a fare altrettanto.

Dopo lunghe riflessioni ho ammucchiato per ora questi accessori destinati ad un neonato italiano da attrezzare in vista della felicità, venuto al mondo oggi, 17 dicembre 2013.

  

Le Favole di Andrea Pazienza, per imparare prima possibile che al Gran Maestro dei Grigi bisogna fare Perepè.

 

Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante.

 

Tutte le bandiere del mondo, in una sorta di mazzo di carte, tranne quella Italiana.

 

Una matita 2B, giusto compromesso tra precisione e tenerezza.

 

Una chiave a brugola n° 5 (la bici per ogni nuovo nato condurrebbe la nazione al default, ma fornire lo strumento che manca ogni qual volta si tratta di alzare una sella o un manubrio mi pare un trionfo della realpolitik).

 

Un planisfero “down under”, quello con l’Australia al posto del Mediterraneo, lo stivale a testa in giù e le Falkland al posto dell’Alaska. Un’individualità egocentrica si sviluppa anche a partire dalla geografia.

 

L’uovo di legno per rammendare le calze. (Confesso, l’ha citato una volta Adriano Sofri in una lista neanche troppo differente da questa e ho sempre sognato di poterlo scrivere anch’io…).

 

Una scatola di pennarelli di qualità.

 

Un plettro morbido (idem come per la brugola… una chitarra a cranio farebbe sforare il budget).

 

Una chiavetta USB, un pezzo di antiquariato non stona.

 

Una puntata di Giatrus e una di Astroboy.

 

Una confezione di Lego (generalista, però, non “costruisci il Burj Khalifa di Dubai”…).

 

Un poster di Rémy écoutant la mer di Boubat.

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