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Avere gli anni di una carezza, di un pianto leggero

La sera in cui per la prima volta ho visto Federico Tavan ero seduto in quarta fila. Uno scrittore di fama (prima che si riciclasse come sabotatore di cantieri…) e un grande fotografo stavano presentando un volume realizzato a quattro mani”. Spiegavano il perché di quell’impresa, la natura del loro rapporto, le dinamiche di una fruttuosa collaborazione. Spiegavano, ma nessuno poteva ascoltare. Tavan, infatti, camminava inquieto in fondo alla sala. Parlava a voce alta, infervorato, teatrale, imprigionato da una vitalità ingestibile, travolgente. Io non sapevo chi fosse, quell’uomo, e ovviamente mi sembrava strano che nessuno intervenisse censurandolo, invitandolo ad uscire. Gli organizzatori di quell’evento, ad esempio. Niente, tutti zitti con gli occhi rivolti ad uno scrittore muto e gli orecchi ricolmi delle parole incomprensibili di un matto.

Poi ho capito che quell’uomo era un poeta, uno dei più grandi. E che tutte quelle persone, silenziose e rispettose, conoscevano i suoi versi.

 

No stéi domandâme ce tanç ans che ài

 

Ài i ans

de Pasolini e Leopardi

del passero solitario

e de Silvia

dei fugulins

ch’i no clarìs pì

al cjant dei crics.

Ài i ans

de un nin

che la mestra

à trat davour la lavagna

parceche al era

cjatif e brut.

Ài i ans

de un Jesu Crist

ch’a no’l puarta

nissun lare

in paradis

de una carecja

de un vaî sutil

de un acuilon

sbregât dal vint.

Ài i ans

di una riduda

de un gjat

pecjacât

dai compagns de zouc

d’un ospedâl

a catordes ans

e d’una mare

ch’a resist

de un par cui nasce

al éis comunque biel.

 

[Non chiedetemi quanti anni ho. Ho gli anni di Pasolini e di Leopardi, del passero solitario e di Silvia, delle lucciole che non rischiarano più il canto dei grilli. Ho gli anni di un bambino che la maestra ha cacciato dietro la lavagna perché era brutto e cattivo. Ho gli anni di un Gesù Cristo che non porta nessun ladro con sé in paradiso, di una carezza, di un pianto leggero, di un aquilone strappato dal vento. Ho gli anni di un sorriso, di un gatto preso a calci dai compagni di gioco, di un ospedale a quattordici anni e di una madre che resiste, di uno per cui nascere è comunque bello.]

 

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Letteratura leggera

Capita spesso, ormai. Chiudere il librino e riporlo sotto il lume, prima della nanna, pensando “bah, tutto qui? E Einaudi (o Feltrinelli, o Bompiani, o Sellerio…) si è ridotta a pubblicare ‘sti romazetti sciapi? Facevo meglio a leggere qualcosa su internet…”.

Perché davvero il divario tra ciò che se ne sta inscatolato sotto nobili insegne editoriali, avvolto da altisonanti fascette rigorosamente gialle, prefato da autorevoli padrini letterari e ciò che nasce su un banale foglio di Word per essere copiincollato su una bacheca di WordPress e reso pubblico dopo una mezza rilettura al volo… si sta assottigliando.

L’ho constatato anche stamattina alle 5:30, mezzoretta prima di partire per il lavoro, dopo essermi imbattuto in un nuovo fulminante post di Enrica.

Io Enrica non la conosco. Io mi relaziono soltanto con il personaggio del suo blog, i cui destini ho mille motivi di pensare siano aderentissimi a quelli dell’autrice, ma non è questo il punto, perché le riflessioni che la verità vi spiego sull’amore mi regala, e lo fa spesso, diventano immediatamente mie. Esattamente come quelle scovate dentro ai libri che – al momento di riporli sul comodino – ti fanno dire “apperò” al posto di “bah, tutto qui?”.

Prima o poi l’amore arriva…, recita il sottititolo del blog, e già senti aria di famiglia, e ti viene in mente un vecchio librino di fantasiose poesie, quand’eri un adolescente o poco più. Soltanto che l’amore… ecco… capita sia un filino privo di scrupoli, succede che non ti guardi proprio dritto dritto negli occhi e proceda – mettiamola così – per vie tra(per)verse. Nasce da un dolore grande, il blog con i caratteri più grandi (e siano benedetti dal dio degl’orbi!) del Web. Nasce dalla rabbia, dal rancore e da mille cocci di vita infranta. Ha voglia di rivincita, però, e di aggrapparsi all’inventario infinito delle cose belle: un vecchio film, una canzone, il disegno di un bambino, un gioco di parole, un gioco di parolacce. E ai figli, si aggrappa. E anche qui si potrebbe divagare sulle mamme nella blogosfera, nel giorno in cui mi scopro anch’io gelosissimo del primo amore di un’altra bambina virtuale ma non troppo, l’Alice che porto in classe in fotocopia per la gioia dei miei alunni…

Il blog di Enrica mette nere su bianco, letteralmente, un sacco di faccende terribilmente serie, e diresti che ti fa piangere se contemporaneamente non ti facesse anche molto ridere; quindi ti disorienti e alla fine ti vien da dirle solamente grazie, come diresti a uno di quelli che per strada ti vengono incontro con un cartello di cartone e una scritta senza senso: free hugs.

No, non ho scritto che i blog sono meglio dei libri. Anche perché ho il sospetto di aver pescato i libri sbagliati, ultimamente. Però mi piace chiamare questa piccola miniera di storie reperibili in rete – basta un po’ di fiuto, e tanta santa pazienza: “letteratura leggera”. Proprio come la musica con quell’aggettivo lì.

È tutta letteratura leggera – si potrebbe dire parafrasando quello… – ma come vedi la dobbiamo leggere.  È tutta letteratura leggera ma la dobbiamo imparare.

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A day

Era finito il gomasio, e il gomasio dalle mie parti lo vendono soltanto lì.

Così stamattina sono entrato come faccio sempre e sempre con quell’unico scopo, ma in quel negozio non era un sabato come gli altri. Era l’ultimo. Il foglio appeso al vetro (lunedì non riapriamo) parlava chiaro, ma meno delle facce. Non solo quelle delle lavoratrici, tutte donne, i volti tirati e gli occhi lucidi. Anche quella della signora più affezionata ma anche più ignara di me, passata di lì a fare scorta di farro e yogurt biologici. Le veniva da piangere e chiedeva del domani. La sua interlocutrice era rassicurante e relativizzava in prima persona (“io per fortuna ho mio marito…”), ma lasciava trapelare un salto nel vuoto per colleghe e colleghi.

Con i miei alunni ho scelto di partecipare a Italy in a day. Siamo saliti sul punto panoramico che domina il paese di Scuolamagia e abbiamo fatto – e ripreso – un urlo. Prima avevamo filmato con il tablet una partita di calcio con in mezzo al campo una ragazza che scriveva un tema, con tanto di foglio di protocollo e Zingarelli d’ordinanza. Non ci sceglieranno mai, Salvatores si coprirà gli occhi con la mano, ma è stato divertente.

La scena giusta per raccontare il paese, però, era senz’altro quella che ho visto entrando in quel negozio, tra gli scaffali semivuoti e quella gente ferita. Prima di recuperare 3 barattoli di gomasio e venire a scrivere questo post.

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Se 14 euro ci sembran pochi

Basta un rapido sguardo alle prime pagine dei giornali di oggi per fare i conti con un’evidenza: 14 euro al mese ci sembran pochi. L’occhiata fugace a un paio di talk politici, ieri sera, regalava la medesima impressione: risatine, sfottò, benaltrismi. Critiche feroci alla legge di stabilità e alle sue magre iniezioni alle buste paga sono arrivate da destra e da sinistra, da leader politici ed economisti, da osservatori stranieri e casalinghedivoghera.

La Pozzanghera è perfettamente consapevole di come molti cittadini italiani fatichino nel quotidiano campare e non ha quindi bisogno di particolari approfondimenti per chiamare “buffetto” quello che avrebbe dovuto essere uno “gancio sinistro” in faccia alla povertà.

Tuttavia, in tanti hanno un filo esagerato nell’ironizzare su quelle 14 monetine messe una sull’altra. 14 dischetti di metallo pur sempre in grado di sfondare una tasca, far traboccare un pugno, sbancare una macchinetta del caffè.

Se quindi quella tintinnante pochezza finisce per offenderci, se risulta inutile ai fini del rilancio dei consumi…

…perché non regalarla alla causa dei migranti che arrivano dal mare?

Con serietà e rigidi controlli, s’intende.

Perché non consegnare quell’obolo irrisorio, anche quello di un mese soltanto, a chi ne ha di gran lunga più bisogno?

Ai bimbi migranti, orfani di padre di madre e di tutto, in prima pagina sui quotidiani di oggi, appena sotto lo scherzetto democristiano delle 14 monetine.

Moltiplichiamo quel niente per… che so… 4 milioni. 56 milioni di euro che potrebbero diventare soccorso più pronto e accoglienza più calda, letti più comodi e mediatori culturali.

Alcuni di quei bambini soli, arrivati rocambolescamente in Italia e spariti nel nulla, potrebbero essere tolti dalla strada su cui ogni giorno mendicano una moneta.

Una al massimo.

Si è mai visto qualcuno che ne depositi 14 in un piccolo palmo?

Una, una, ché son pur sempre 2000 lire…

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Quando eravamo giovinetti

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Prima di tuffarci nei meandri del fiume della Storia, spesso a inizio anno a Scuolamagia ci dedichiamo alla storia minuscola delle pareti e dei pavimenti che ci ospitano. Come piccoli Champollion decifriamo incisioni sul legno di certe finestre, datiamo antichissimi “W Inter”, ci chiediamo il perché di misteriose scritte avvitate alle porte: “App. tecniche maschili”, saranno mica parenti delle app sul display dei nostri cell.? Complici vicende davvero notevoli legate alla nascita dell’edificio oggetto di studio, l’attività capita che appassioni un bel po’, specie nelle sue fasi dinamiche di “caccia all’indizio” storico, su e giù per le scale, chi qua e chi là e che vinca il migliore.

Le ricerche odierne hanno portato al rinvenimento di alcuni interessanti documenti cartacei. Un foglietto volante arancione, perso dentro un vecchio registro, non era altro che il decreto di un’espulsione. Il 29 gennaio 1969 la Prof. Taldeitali presenta a carico del giovinetto (avete letto bene: GIOVINETTO) Tizio Caio il seguente rapporto disciplinare: scarsa applicazione (ancora queste app… n.d.r.) e contegno scorretto. Va da sé: c’era stato il ’68 anche nelle scuolette di montagna. Quella specie di multa, in copia, doveva essere esposta all’albo ed inserita nella cartella personale dell’alunno, che avrebbe avuto la fedina penale sporca alla faccia del garante della privacy.

Altro documento ingiallito, sfogliato in una nuvola di polvere: una raccolta di temi risalenti all’anno scolastico ‘73-’74. Tracce brevi, piuttosto sul vago. Una mi colpisce. Parla di cosa trovi profondamente ingiusto. Da quella e da altre tracce sparse tra i fogli di protocollo deduco un profilo di insegnante sinistrorso, illuminato e forte dei suoi valori. Di altra estrazione l’autore del tema, a occhio. Il suo pensiero, esposto con elementare efficacia, in soldoni: chi ammazza una persona dev’essere condannato all’ergastolo; chi ne ammazza due merita la pena di morte. In proporzione diretta al numero delle vittime, la pena capitale vedrà incrementare l’atrocità della sua esecuzione. Immagino l’inchiostro rosso del collega bollire nella plastica della Bic. Proseguendo, altra grave ingiustizia: la fame nel mondo. E come dare torto al giovinetto? Che continua: mi chiedo perché si siano spesi tutti quei soldi per il referendum; uno solo di quei miliardi sarebbe bastato per aiutare tutti gli uomini affamati ed assetati del pianeta. Spietato, come si evince dall’immagine, il commento dell’insegnante.

Una chiosa in rosso appare anche a margine della chiusa. “I politici inoltre sanno soltanto parlare, ma non agire”. Il Prof., in corsivo nervoso: “da approfondire…”.

Si può star sicuri che hanno approfondito, i politici.

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La fantasia al palo

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Durante le vacanze le loro fantasie mi sono mancate un sacco.

Ed è come se si inaridisse anche la mia, in assenza delle loro.

Sono stato un’ora davanti alla pagina vuota di word, prima di ideare l’ultimo “tema” da svolgere a casa. Ho appallottolato decine di idee prima di ripiegare su un banale giochino suggeritomi direttamente dall’oggetto su cui stavo picchiando le dita.

Prendete 15 lettere dell’alfabeto, in stampatello maiuscolo, e ditemi cosa ci vedete dentro. Anzi, oltre. Partite da lì e tornate il più tardi possibile. Buon lavoro.

E sono andati.

E hanno visto.

Mont(A)gne innevate e farfalle (B) di profilo, posate su un ramo di ciliegio.

Chiavi a pappagallo (F) del papà, mani abbraccianti di mamma (C).

Facce di bambini con il termometro in bocca, indiani con frecce conficcate sulla faccia, topolini con la codina visti da dietro mentre scappano da un gatto: tutto in una semplice (Q).

Ali da angelo (W), fischietti da arbitro (P, ruotata di 90°).

Navi sul pelo dell’acqua (Z).

E altro, molto altro.

Compresa una (I) che – premessa: prof. non è la prima cosa che mi è venuta in mente – diventa un palo da lap dance.

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Bramare di bramire

 

Non il solito sabato sera.

Ce l’avete tutti il concetto di “non il solito sabato sera”, vero?

Il centro del vostro finesettimana quando non somiglia a nessun altro di quelli precedenti, è più unico che raro, irripetibile, grazie ad un incontro, grazie ad un’emozione, grazie a qualcosa che sembra accadere soltanto per regalarvi sorpresa e benessere.

Ecco, non ci siamo. Dovete aggiornarvi. Dovete aggiornare il concetto di “non il solito sabato sera”.

Sabato 21 settembre accadra di più, sabato 21 settembre accadrà di meglio.

I membri di una giovanissima associazione sportiva e naturalistica vi aspettano alle 17.00 in località Pierabech, a Forni Avoltri, per raggiungere in notturna l’oasi di Bordaglia. In notturna e in incognito, perché l’obiettivo è quello di ascoltare – meravigliosamente soltanto ascoltare – i bramiti dei cervi. Un gesto soltanto all’apparenza passivo, in realtà attivissimo, pieno forza e di rispetto. Una piccola innocente intrusione in un altrove riconciliante. Un modo per sentirsi ospiti e non padroni, attori che abbandonano le velleità da registi e si accontentano di recitare la parte più difficile: il silenzio.

 

È il caso di dirlo: accorrete silenziosi!

 

P.s.: l’associazione Trôis richiede un’iscrizione di 10 euro, a sostegno di future iniziative, raccomanda inoltre di dotarsi di una torcia e di eventuale binocolo. 

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1, 10, 100 COSTECONCORDIE

Alang

Pronti? Allora: si va su Google, come immagino facciate altre 57 volte, chi nel corso dell’intera giornata, chi tra le 8.00 e le 8.30 del mattino. Infilate nel motore di ricerca queste cinque letterine: alang. Fatto? Cliccate ora su Maps. Alang è infatti un luogo. Finirete in India, nella regione del Gujarat, e quello che vedrete – sotto una nebbiolina che sembra messa lì apposta da un genio del male, o da me che vi sto guidando – vi farà rimanere di stucco. Altro che Costa Concordia. Altro che PARBUCKLING, benvenuti nel mondo dello SHIP BREAKING.

Niente martinetti, niente cassoni che si riempiono d’acqua. Solo fiamme ossidriche e martelli, tenaglie e forbicione. Niente commissari e superingegneri. Soltanto ragazzini seminudi con la pelle scura. Piccole termiti a scavare il ferro di navi provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Operazioni di dismissione clandestina vietatissime, ma realizzabili con la semplice manomissione di qualche documento, e un furbo cambio di bandiera all’imbarcazione da rottamare.

Me l’ha ricordato Adriano Sofri su Repubblica di oggi, che dopo gli umani stupori nella notte del Giglio era il caso di fare una capatina ad Alang, come abbiamo fatto spesso a scuola negli ultimi anni, per recuperare il senso delle (s)proporzioni.

Io metto la foto, ma voi andateci. Volare così non costa niente. Scendete col tastino + . Aspettate che l’immagine si metta a fuoco.

Oltre la spiaggia, oltre la nebbia, il mare è di un bell’azzurro anche lì. 

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Balene

Cercavo un libro che mi insegnasse cose che non sapevo. Fatti e idee che proprio ignorassi, non le diverse declinazioni di un fenomeno che mi fosse già noto.

Così ho comprato un libro che parla di balene.

Ho quindi scoperto che un tempo solcavano gli oceani creature a dir poco pazzesche. Testimonianze storiche molteplici e circostanziate – purtroppo antecedenti l’evo videofotografico – riportano avvistamenti di animali giganteschi, serpenti marini lunghi cinquanta metri, capaci di spezzare a morsi imbarcazioni poderose.

Ho imparato che in fondo al mare può nuotare ancora oggi, grazie ad una straordinaria longevità, qualche balena coetanea di Moby Dick (data di pubblicazione: 1851).

Ho scoperto che l’ambra grigia – sostanza rarissima pescata in mare e usata dai migliori produttori di profumi per la qualità di inglobare trattenendole le altre essenze – non è che cacca solidificata di immenso cetaceo. Non lo sapevano neanche i produttori di profumi, all’inizio, e posso solo immaginare l’imbarazzo al momento di accogliere la nuova nozione elargita gratuitamente dalla scienza.

Ho imparato che le balene non sono solo natura – cosa più di questo mammifero può essere associato alla vita selvaggia?! – ma sono anche cultura. Per via culturale i cuccioli apprendono comportamenti e tecniche di sopravvivenza. Per via culturale – altro che istinto – imparano a soccorrersi e a rispettarsi. Con lo sterminio sistematico l’uomo cacciatore non ha posto fine soltanto all’esistenza di milioni di individui della specie, ma anche ad elaborazioni collettive che possono essersi estinte in seguito al calo demografico.

Ho scoperto – ma lo sapevo già perché me l’aveva raccontato uno scrittore – che le balene lasciano impronte. Sì, sull’acqua. Temporanee, certo, ma nemmeno troppo. L’acqua solcata da una megattera o da un capodoglio non è infatti davvero più la stessa di prima, cambia a livello molecolare, nella forma ma anche nella sostanza.

Ho capito perché da piccolo questo fosse il mio cartone animato preferito, e perché costruissi con i Lego complesse navi baleniere destinate ad attraversare la superficie mossa del parquet, tra la poltrona e la televisione. Per costruire Moby Dick mi mancava il know how. E i mattoncini non sarebbero comunque stati sufficienti. Tuttavia, i miei omini di plastica erano vigili e pronti alla caccia.

 

 

«Una rapida sequenza di stridii. Più che udirli con le orecchie, li sentivo dentro il petto; la mia cassa toracica era diventata una cassa di risonanza. La balena si stava creando un’immagine mentale di me: una scansione dell’intruso in risonanza magnetica nucleare, un profilo dell’alieno invasore.

Sentii il mio corpo rilassarsi e pisciai nell’acqua. Un pensiero ridicolo mi passò per la testa: mi ero presentato senza preavviso, con l’unico risultato di perdere il controllo delle funzioni corporee e orinare sulla soglia di casa del mio anfitrione. Poi, nel momento cruciale, la testa si girò e si chinò impercettibilmente, come mi avesse identificato. Non commestibile. Privo di interesse.

Passai dal puro terrore a qualcosa di diverso. Capii che era una femmina. Una grande madre che fluttuava davanti a me, intensamente viva. Malgrado il suo disinteresse, un invisibile cordone ombelicale sembrava unirci. Da mammifero a mammifero; la sua grigezza senza fine, il mio pallore senza madre. Perso e trovato. Un altro orfano.

Non riuscivo a capacitarmi che qualcosa di così grande fosse così silenzioso. Scansionato dalla carica elettrica del suo sesto senso, mi sentivo insignificante, e tuttavia non del tutto. Ricreato a misura sua e a misura del mare, ero stato assimilato dalla sua alterità, nella sua mente c’era una mia immagine. Mentre la balena mi sfilava davanti, vidi il suo occhio: grigio, velato, senziente, disposto lateralmente, centro della sua coscienza. Dietro, tutto il resto era muscolo, che si muoveva senza sforzo. Quel momento durò per sempre, un’eternità di pochi secondi. Entrambi nella nostra nuda interezza, separati soltanto dall’oceano sconfinato».

 

Philip Hoare, Leviatano ovvero la balena, Einaudi

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A volte ritornano

A Scuolamagia. Succede. A settembre e a ottobre di più. Che tornino. Appena possono. Quando la scuola nuova non è ancora cominciata o quando è chiusa per un santopatrono. Si guardano intorno. Cercano riferimenti nello spazio, mentre sono travolti da quelli nel tempo. Che riaffiorano, crudeli e taglienti. Vedono i nuovi – alle medie da due giorni – muoversi già padroni di tutto. Anche di ciò che era loro, soltanto ieri. Entrano quando vogliono, a Scuolamagia si può. Se ci sono io entrano anche in classe, si siedono per terra, sulla cattedra. Si appoggiano al muro. Protestano: “Ma ‘sto giochino che si vincon le Fonzies con noi non lo facevi…”. Vero, ma l’ho inventato l’altroieri, giuro. Mi giustifico ma arranco: avrei potuto inventarlo prima. Cala un velo di tristezza sottile mentre suona la ricreazione. “I migliori sono i ricordi brutti” – diceva Gassman in quel vecchio film. Quelli belli li pensi e ti accorgi che parlan di cose che non ci sono più. Come la tua vecchia scuola. Come la tua prima adolescenza, che non ha niente a che vedere con la seconda. Come i tuoi 11, 12, 13, 14 anni. Tornate presto, è mio il congedo per loro. Ma lo voglio davvero? Con tutto il male che fa? 

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Le mie 48 ore da Obama

Sono stato Obama per 48 ore. Ho vissuto la mia piccola crisi siriana standomene comodamente in terrazza. Sono stato combattuto tra l’interventismo e la non ingerenza: due istanze opposte che si sono scannate al ritmo dei passi delle mie vecchie ciabatte. Ero in possesso di prove evidenti: l’individuo sospetto era troppo nervoso, decisamente inquieto. E poi era palese la sua intenzione di spiare un orizzonte senza da quell’orizzonte poter essere spiato. Guardava guardingo alla sua destra, ignorando me che dall’alto lo guardavo guardare. Cosa calamitasse i suoi occhi, nel corso di quasi ogni sera nelle ultime due settimane, mi era più difficile stabilirlo. Il supermercato, certo, ma chi? Ma cosa? Ma perché? Il punto, tuttavia, era quell’ansia che lo divorava, quel continuo salire e scendere dalla macchina, il sistemare il berretto sul capo, calando il frontino in direzione degli occhi. Fino a quell’ultima mossa intravista dalla mia postazione di guardia: indossare e togliere un paio di guanti in lattice. La prova regina, anche per uno come me che non frequenta alcun tipo di letteratura gialla e noir. Che fare? Confidare nella favoletta della cittadina tranquilla in cui certe cose non succedono o lasciarsi trasportare dal fiume in piena del sospetto? Mi sono tornate alla mente le tante cronache incrociate sui giornali, inzuppate di sennodipoi, e le tante tragedie che forse “pensando male” si sarebbero potute impedire.

E allora ho preso il telefono e ho sentito dall’altro capo il peso della mia stessa preoccupazione. Solo che era una delle tante, in un mestiere in cui da un pensiero è automatico si scateni un’azione concreta e decisa. Ho sentito quindi  spronare una volante, a cui venivano fornite precise indicazioni logistiche, mentre ancora stavo descrivendo all’operatore quel berretto calato sugli occhi.

Nulla di cruento è seguito. Un goffo tentativo di fuga, un’identificazione, la raccomandazione di tornarsene a casa.

Non sono convinto di aver commesso un errore. Credo che si comporti davvero in quel modo sospetto chi fa la posta ad una ex colpevole di abbandono, un potenziale femminicida. Ma non era questo il caso. Ad altro serviva quell’attesa, ad altro era mirata la protezione di quei guanti. A una balla d’insalata mezza andata. A un pomodoro ammaccato, a quel che resta di una pesca sotto il superficiale strato ammuffito. Ho ostacolato il terribile reato di raspare in un cassonetto, ho impedito l’intercettazione di qualche alimento troppo imperfetto per finire nella sporta di una massaia ma ancora in grado di colmare il vuoto di una fame.

Non riesco a non pensarci, impotente, nel giorno in cui un sacco di persone di buona volontà giocano al digiuno.

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L’amore che c’è dentro, l’amore che c’è fuori

A volte, magari proprio di domenica, capita di leggere quasi integralmente tre quotidiani e un inserto e che la tua sete di storie rimanga a bocca asciutta. Poi a mettere le cose a posto ci pensa una piccola lettera, in quello spazio che spesso e volentieri sorvoli diretto altrove, ché in quelle pagine ci son prima di tutto gli editoriali ed i commenti autorevoli. Ci pensa un lettore con un pensiero controcorrente, con un’osservazione limpida quanto spiazzante.

Amnistia per tutti coloro che – fatti i conti con ovvie e sensate limitazioni – possono beneficiarne, pazienza se ci finisce in mezzo uno che non la meriterebbe.

Amnistia perché l’amore che è dentro possa incontrare l’amore che è fuori.

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“Per capirmi è necessaria la curiosità di Ulisse”

Aveva ragione Samuele Bersani, nella canzone che ha dedicato a Enzo Baldoni. Una cosa che penso ogni anno, ad ogni scoccare di anniversario, riascoltandola nei giorni d’agosto in cui molti ricordano questa particolarissima figura di italiano: uno dei nostri, ma anche uno anni luce più avanti. Uno che aveva capito prima un sacco di cose, ma che sicuramente si sarebbe fermato in fondo alla strada per aspettarci e raccontarci tutto.

Aveva ragione a scegliere una sineddoche, Bersani. Una parte per dire il tutto. Gli occhiali al posto del loro proprietario. Due lenti e una montatura al posto di un omone e del suo nomeecognome.

Come quell’oggetto di uso così comune, anche Enzo Baldoni era estremamente delicato, fragile, sempre a rischio di smarrimento o rottura. Ma come gli occhiali vedeva, metteva a fuoco, scrutava dentro e guardava oltre.

Celebri aihimè sono soprattutto i suoi reportage dai luoghi di guerra, la cui fama – doppio ahimè – è stata purtroppo un frutto postumo.

Baldoni, però, vedeva lungo in un sacco di altre direzioni.

Oggi ho riletto questo pezzo sulla pedofilia. Una testimonianza diretta, intima e vera, senza reticenze, lucida. Niente di specialistico – Baldoni ne sapeva quanto ciascuno di noi che poco abbia studiato e approfondito – piuttosto un mattone concreto messo lì per tutti, generosamente, gratuitamente, perché era giusto e naturale fare così, perché non si sa mai possa servire, nella costruzione di una società migliore.

 

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Niccolò Fabi e la ragazza limone

Chissà se Niccolò Fabi l’ha vista, arrivando al centro commerciale che avrebbe ospitato il suo concerto, la ragazza vestita di giallo vicina a uno degli ingressi. Non era una ragazza vestita di giallo qualsiasi. Il suo lavoro, infatti, consisteva nel protendersi da un chiosco giallo a forma di limone, distribuendo dissetanti bicchieri – gialli, ça va sans dire – rigorosamente a base di quell’agrume.

Il cantautore era reduce con la sua band da un evento particolarissimo ai piedi delle Dolomiti: aveva cantato a 2000 metri sul livello del mare davanti ad un pubblico che si era guadagnato quella musica infilando i passi in un faticoso sentiero di montagna.

Abbia o non abbia intercettato con lo sguardo la ragazza-limone, dopo il terzo brano della sua performance Fabi ha confessato il suo imbarazzo: «Carissimi, ieri ho suonato in paradiso e qui, non posso fingere, è molto più difficile».

Mescolato tra i fan, assisteva al concerto un piccolo popolo di spettatori inconsapevoli, giunti sul posto per accaparrarsi qualche canottiera d’occasione. Le prime file, riservatissime, toccavano di diritto ai fedelissimi aficionados di certi corredi e di certe trapunte, possessori di una preziosa tessera-punti, del tutto ignari dell’opera omnia del cantautore romano.

Lungi da me fare della sociologia d’accatto, e lungi da me colpevolizzare il direttore del centro commerciale casualmente seduto a pochi metri dalla mia sedia – schiumante alle battute del cantautore («Ragazzi, io continuerei a suonare, ma qui ci sono delle regole piuttosto rigide…»). Ho solo intravisto in questo quadretto uno spaccato di quest’epoca fragile e ricca di contraddizioni. Con il Mecenate che invita nel suo palazzo l’Artista che forse più profondamente ha combattuto i suoi valori di riferimento.

 

Prima di partire si dovrebbe essere sicuri

di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri

Allora io propongo per non fare confusione

a chi ha meno di cinquant’anni

di spegnere adesso la televisione 

 

Non si può entrare in un negozio

e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo

se la vita è un’asta sempre aperta

anche i pensieri saranno in offerta

 

Ma le più lunghe passeggiate

le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo

non so dove l’ho comprate

di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta

perché l’argento sai si beve

ma l’oro si aspetta

 

Le canzoni, si sa, sanno scavalcare le contraddizioni, ha chiosato infine il filosofo con la chitarra. E la musica deve andare ovunque, adattandosi pure alla scenografia posticcia di un tempio consacrato allo shopping, proprio come fosse un anfiteatro dolomitico o il più blasonato dei teatri.

E chissà com’erano, i versi di Niccolò, assaporati da dentro il chiosco a forma di limone. E chissà come batteva, il cuore della ragazza vestita di giallo, ospite di un agrume il tempo necessario per pagarsi gli studi, prima di rimettersi a caccia dell’oro tanto aspettato. Giallo anche quello, in fondo.

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I diari della bicicletta

«Prof., guarda lassù, quello è il Monte…»

«No, Marcello, oggi non sono il Prof., oggi sono il Capitano…».

Proprio così, un capitano che non sa la strada, che ignora i dislivelli, le pendenze, la quantità dei tornanti. Non conosce i nomi delle montagne e fatica a distinguere dall’alto i paesi che frequenta abitualmente. Però oggi gira così, in questo giro assurdo di tarda estate, nato per gioco, quasi per caso, da un dialogo via Skype.

Alle nove in punto il mio gregario mi aspetta già in sella ai piedi del Gigante. Dico gregario con grande rispetto, pari almeno all’ironia con cui mi sono definito capitano. Marcello non è uno sportivo in senso stretto, non indossa divise e non porta con sé tessere federali. Corre se c’è da correre, pedala se c’è da pedalare. Calcia per gioco, scia per divertimento. Deve muoversi, glielo impone l’istinto, e lo sa bene chi come me tra pochi giorni tornerà a fargli da carceriere tra le mura di un’aula.

La salita scivola nel bosco morbida e costante. La strada è stretta, il fondo liscio e curato. Il capitano procede composto, sa che va dosata ogni goccia di energia. Il rapporto è agile, la postura di sfinge dipinge traiettorie regolari nemiche di ogni zig zag. Non si alza mai sui pedali e sopporta stoicamente i malesseri del soprassella. Il gregario sale invece brillante e inquieto, tra una mezza impennata e un improvviso cambio di direzione per schivare un grillo. Ha quattordici anni, lo scudiero, e nonostante il parere contrario espresso dal suo superiore, decide di rompere il silenzio dell’ascesa con gli mp3 stivati nel suo cellulare. Mi sembra di bestemmiare quel paesaggio, penso allo sguardo di altri ciclisti puristi incrociati nell’ascesa, ma in fondo anche quelle canzoni han sostenuto questa piccola impresa. Laura Pausini, Ligabue, Il cielo d’Irlanda della Mannoia, i Beatles e una versione a me sconosciuta – e ne conosco tante – dell’Alleluja di Leonard Cohen.

Usciti dal bosco e dalle sue carezze d’ombra, la strada ci ha svelato il suo disegno. Un arabesco di tornanti tatuato sulla schiena verde della montagna. Una roba da sindrome di Stendhal, se non ci fosse il serio rischio di finire stesi dalla fatica. Quindi: testa bassa e pedalare.

Finisce l’asfalto, comincia lo sterrato. All’ansia di non farcela si somma quella di bucare. A scacciare i pensieri neri ci pensa Marcello, insegnandomi nomi di montagne e di versanti, indicandomi falchi e marmotte, lepri e uno stambecco maestoso che ci scruta da un metro sotto il cielo.  «Prof., guarda lassù…». Questa volta, però, a parlare sono io.

La meta di quest’avventura in bicicletta risponde al nome di “Panoramica delle Vette”. Lo sguardo, infatti, riesce ad abbracciare distanze colossali, orizzonti senza limiti. Scendo i sentieri della memoria, fino all’ultima volta davanti ad un’emozione così: in Cina, nel 2006, giocando a rincorrere con gli occhi la Grande Muraglia fin dove andava a perdersi, dentro nebbiose lontananze.

La discesa è insieme una faticaccia e una paura. Solo per me, però: il mio compagno di viaggio, annoiato dalla lentezza che gli ho imposto, battezza traiettorie insensate e appoggia il collo del piede sulla sella, la pianta sul manubrio. Gioca. Lo sgrido, vabbè, ma andiamo davvero piano. Mangiamo fragole di bosco e beviamo altri panorami. Planare sul primo luogo abitato dagli umani, ultima frazione sulla soglia della montagna, è un sapore variegato di gioia e tristezza. Ce l’abbiamo fatta, ma com’è insipido questo asfalto di “pianura”, e come sono già lontane quelle immagini così pure, che a filtrarle con Instagram ti sembra di sottoporre ad un bombardamento nucleare.

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Soletta, Stream of consciousness

Non sapersi

Amore e guerra; amore è guerra. Incauta occupazione di territorio straniero. Dentro di te, nel giorno, nella notte, nelle cose da fare, in tutto. Essere invasa. La resistenza e la resa. Resa ovvero rendimento: si potesse misurare il frutto, il vantaggio, gettando sulla bilancia da una parte sé, dall’altra quanto si offre, quanto si perde e quel che rimane. L’unica certezza il consumo: del pensiero, della ragione, del tempo che evapora in congetture. Se fantastichi ciò che vuoi lo perdi, lo sciupi? O perfezioni e anticipi una possibilità? E poi? Resto o differenza: la differenza con l’altro, l’abisso che separa, attira e chiama, il vallo da colmare, il salto da sé. Lo prendo, mi faccio avanti e prendo ciò che è mio, ciò che non lo è ancora, quello che vorrei e non so, o aspetto che mi venga deposto tra le mani? Prendere o dare? Darsi? Si fa? Stare in punta di divano, le mani ferme in grembo, un vago sorriso in volto, il cuore che si contorce nell’attesa, o sporgersi dalla finestra di notte, indovinando l’ombra nell’ombra? Ciò che si deve e ciò che si vuole. Infine, ciò che si può. Posso qualcosa, io, sola, sola e femmina al mondo, o posso soltanto volere, sperare, e alfine dire sì? Si può dire anche no? Sì la freccia che conduce al futuro, no la pietra che ti trascina a fondo e lì ti lascia, tra le alghe, stordita come morta? Padre, padre, quante cose non mi avete insegnato; siete andato via troppo presto. Accanto a voi avrei saputo distinguere, valutare. Ascoltarmi e infine capire. No, avrei solo interpretato i vostri cenni, avida e curiosa, e mi sarei portata di conseguenza, rinunciando a pensare, a decidere, in facile pace. E sarei stata contenta così. Anche quello, anche il nostro era amore. Ma non è metro che si possa usare ora. O invece mi avreste aiutato a leggermi, con pazienza devota, come decifrando una lingua sconosciuta, in trepida anticipazione del messaggio? Voi, voi che già avevate deciso di lasciarmi andare, prima di tutto, prima di questo strazio. E io ora non so niente. Io non mi so.

 

Beatrice Masini, Tentativi di botanica degli affetti, Bompiani

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Pronto, Yelena? Ti ricordi di me?

La campionessa russa Yelena Isinbayeva ha almeno in parte smentito le atroci dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi a sostegno della legislazione anti gay varata da Mosca. Mi sono esercitato ad immaginare le ragioni del suo dietrofront.

 

Magari è arrivata una telefonata dallo sponsor, timoroso di perdere una fettona di mercato.

 

Magari ha telefonato proprio Putin, dicendo lascia stare Yelena, non son cose per signore, lascia che me le sbrighi io, certe sporche faccende. Tu pensa a portare sempre più in alto il nome della Russia.

 

Magari ha telefonato Silvio, l’amico personale di Putin: “Consentimi di darti un consiglio, Yelenona, fai come faccio sempre io, smentisci tutto, dichiara di essere stata fraintesa… di’ che è tutto un misander… un misundestunting, com’è che dite, voi giramondo… ah, te l’ho raccontata la barzelletta quella dell’asta?”

 

Magari sono state le meravigliose, tante tantissime cacche (con la tastiera :poop: ) che da ventiquattrore hanno cominciato a depositare sulla pagina pubblica dell’atleta russa centinaia di utenti di Facebook. Uno sconfinato tappetone di merda su cui atterrare dopo un salto tutto storto.

 

Magari tutto è partito proprio da una telefonata. Inaspettata. Pronto, Yelena? Ciao, sono Ekaterina, ti ricordi di me? Sì, al liceo. Quella in ultima fila, con la lunga coda di cavallo. No, non eravamo amiche per la pelle, ma qualche bella risata insieme ce la siamo fatta. Eri così bella, non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso. Una volta ti ho anche scritto una lunga lettera, ma il coraggio di fartela leggere non sono proprio riuscita a trovarlo. No, non vivo più a Volgograd; adesso la mia casa è a Stoccolma. Ci vivo con Anna. Ci siamo conosciute a Londra, cinque anni fa, eravamo lì per lavoro… E tu? Dimmi di te… Ma no, dei salti so tutto… dimmi il resto… sei felice?

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Cineserie, Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Quelli che fermano i carrarmati

C’era un ragazzo che come noi amava la vita e la libertà.

Ce lo ricordiamo tutti.

Ci siamo chiesti tutti cosa contenessero le sue borse di plastica.

Ma è passato tanto tempo, e forse qualcuno nemmeno se lo ricorda più, quel ragazzo. È passato talmente tanto tempo che nemmeno le borse di plastica esistono più.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo invece è appena ieri.

Egitto, bulldozer contro i sit-in

Questo è sangue che bisogna ancora lavare, se non verrà coperto da altro sangue.

Immagino che Beppe Grillo abbia a fianco a sé un giovane smanettone, uno che alla bisogna compone i fotomontaggi per il blog più seguito dagli italiani. Ligio ai suoi doveri di attivista, quel ragazzo taglia la testa ad Enrico Letta e la deposita sul corpo di un vampiro, ah ah ah, cose così.

Ieri, Grillo ha commissionato questo.

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Voi che lo votate, un italiano su tre, pensateci a questa perfetta “scelta di tempo” del vostro leader.

Ripetetevi che lui è fatto così, che son fatti così i comici. 

E continuate pure a prepararvi all’autunno.

 

Ah, il ragazzo, quello colle borse e senza Photoshop, si avvicinava al carrarmato fino alle strisce pedonali.

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Res cogitans, Stream of consciousness

Come WU MINGhia parli?

C’è un parlamentare grillino in ferie che sale in cima a una montagna e pensa bene di filmarsi per comunicare con tutto il movimento e tracciare una sorta di bilancio. Sembra un invasato, sarà l’altura, sarà lo scranno che occupa da qualche mese. Parla dei cittadini ancora da conquistare e il suo ragionare è a dir poco tortuoso: “Siate accoglienti con le persone che pensano di pensarla in maniera diversa da noi e invece no”.

 

Sfoglio “Repubblica”, stamattina, e la parola passa al collettivo dei collettivi, interpellato sul significato del concetto di “sinistra”. Un altro soggetto che ama rivolgersi al popolo, alla società e ai suoi movimenti. Sentite qua:

 

«Sinistra è una parola, è una visione del mondo. Non è fatta per un soggetto immaginario, cambia secondo la posizione da cui la dici. Come parola disincarnata è solo un’imperfetta metafora spaziale, bidimensionale, dunque inadeguata perché il mondo è pluridimensionale, e poi ha un sottotesto “parlamentare” che pesa perfino quando la usi in modo extraparlamentare…».

 

Chiaro no?

(Poi dice che uno vota Matteo Renzi…)

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Pensosa sul campo

La lettura di una fotografia può portare ad un numero di interpretazioni pari al numero degli interpreti: a ciascuno la sua. Giusto così. Questa ad esempio, in prima pagina oggi su un quotidiano delle mie parti, nella sua versione online è oggetto di commenti sferzanti: la gente ha bisogno e loro rivolgono lo sguardo dall’altra parte…

Io ho deciso di vederci l’esatto contrario e la faccio rimbalzare nella Pozzanghera come una buona notizia, dal fronte di una politica nuova.

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