Stream of consciousness

La cosa verde e me

Ogni tanto capita. Dentro c’è un affollarsi di pensieri, un tourbillon di idee. Ci sono i libri letti e i libri da leggere. I film, le canzoni. Ci sono le cose da raccontare, quelle da criticare, quelle da accarezzare colle parole. Ma non arrivano, le parole.

Proprio come in quest’istante. Stringo tra le mani l’oggettino verde. Di plastica, verde scuro. A forma di farfalla, nel cuore una piccola indispensabile molla. A guardarlo da un’altra angolazione può ricordare la bocca di un drago, ancor di più vista la presenza di 9 dentini. È lì, serve per catturare i capelli. Capelli lunghi di donna. Mi viene “PICCHIO”. Un picchio, sì, ma è una scorciatoia pseudodialettale, una via sbrigativa. Mi viene “FERMAGLIO”, ma poi penso a una cartoleria e a dei fogli da mettere in ordine. “PINZA”, “PINZETTA” no, è lessico da ferramenta. Mi viene “FERMACAPELLI” ma cosa volete che fermi…

Insomma. C’è. Lo tengo. Lo stringo. Ma non lo so dire. Questo è.

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Res cogitans

È Natale… post banale

La signora costretta dai tentacoli del rito ha impacchettato i biscotti fatti in casa e ha imboccato il corridoio che separa il suo appartamento dal mio. Suonato il campanello, varcata la soglia, si è imbattuta nei sorrisi delle due bambine ospiti. Una faceva e disfaceva il puzzle di Ratatouille, l’altra eseguiva brani con lo xilofono di Winnie the Pooh. Entrambe amorevolmente – seppur casualmente: potevo non essere in casa – assistite dal sottoscritto. Un piccolo allegro quadretto, insomma, ma di nient’altro c’è stato bisogno. La signora, che da mesi accudisce il marito al capezzale di una vecchiaia che umilia e tortura, si è messa a piangere, ha riaugurato quello che si deve augurare ed ha imboccato mestamente la via del ritorno.

D’accordo: abolirlo è troppo da massimalisti, ma ce lo diciamo in faccia che non esiste nulla di più crudele del Natale? Che la rossa festicciola porta gioia a chi ne ha già e incrementa i pesi di tutti i sofferenti? Suvvia, confessiamolo.

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Le storie di Scuolamagia, Soletta

La grande notte del Teatro

Domani sera a Scuolamagia: i Teletubbies (tutti e 6), l’Ammazzavecchiette, le vecchiette (4 normali, una ninja, una supersexy), il cowboy Arturo, gli indiani, uno che è innamorato di Gina, un Virus, un Antivirus, l’Aggiornamento di un Antivirus, Word e Paint, quelli di High School Musical, Sammy & Sasha & Samu (Sammy sarei io), 4 migranti nel Mediterraneo per buttarla come ogni anno in tragedia.

C’è bisogno di MERDA

MERDAMERDA

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Fiori di Biblioteca, Le storie di Scuolamagia, Res cogitans, Soletta, Tutte queste cose passare

Il punto

C’è un altro anno che finisce. C’è un nuovo articolo sulla biblioteca da scrivere. Sembra quasi di rispondere a una domanda: come sta la biblioteca? Bene, grazie. Non ci si può lamentare. Certo, sì, qualche malanno di stagione: un po’ di disordine, qualche libro non restituito. Ma davvero: bene grazie. Le stanze sono belle piene di ragazzi, i ragazzi di Forni Avoltri. Da quelli dell’88 (W L’88!), che una volta arrivavano in bici e oggi parcheggiano un’automobile, a quelli del ‘96 (W IL 96!), che hanno appena cominciato a frequentare la Secondaria di primo grado. E in mezzo tutti gli altri: W 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, e ho quasi finito la vernice. Arrivano e parlano, raccontano, si raccontano, navigano su Internet, vanno su YouTube, organizzano il Fantacalcio (comprano Quagliarella, vendono Camoranesi…), suonano la chitarra, scherzano, scrivono e disegnano sul quaderno delle presenze, quando non sono tristi – raramente, ma capita di esserlo – ridono, ridono tanto, prendono accordi in vista di nuovi incontri. Leggere non leggeranno tantissimo, ma ci sono, e lì dentro sono i colori. Tutti i colori. A leggere ci pensano gli assidui, quegli adulti curiosi che fanno finta ci sia silenzio per immergersi nella contemplazione degli scaffali, e cercano e scavano e riemergono soddisfatti con la pubblicazione sui Cosacchi o con il dizionario delle erbette balsamiche. Poi ci sono i bimbi che spalancano gli occhioni impauriti e non sanno che libro scegliere. Quelli si tratta di aiutarli, di prenderli per mano.

Bene, quindi, dicevamo. E poi ci sono gli armadi nuovi, montati dai ragazzi, anche se lo spazio non è mai abbastanza. Presto arriveranno pure un bel po’ di libri nuovi nuovissimi,  per non dire di quelli donati, che di arrivare non hanno mai smesso.

Insomma, bene, e intanto sono già passati 5 anni. Se non dalla riapertura ufficiale della biblioteca – per quell’anniversario occorre aspettare il 21 marzo 2008 – almeno dall’idea di Barbara e dal lavoro progettato e svolto con 11 alunni di quella che allora si chiamava Scuola Media.

Rischio di ripetermi, ma la biblioteca gode davvero di buona salute. Le manca una cosa, però, a dirla tutta. Una cosa che non costa niente ma può valere tantissimo. Le manca un nome, un nome che non sia generico. Capaci tutte, le biblioteche, di esser “civiche”, di esser “comunali”. Ci vuole un nome, ci vuole un’intitolazione. Ci vuole una bella targa. Sì, una targa chiara. Sobria. Una targa di legno. E il nome? Quale nome? Ci penso ogni venerdì, a qual è il nome giusto da onorare con il battesimo della biblioteca di Forni Avoltri. Mi fermo davanti alla porta d’ingresso, un istante prima di inserire la chiave nella toppa, e recito un nome e un cognome. “Biblioteca comunale Sandro Pertini, …Eugenio Montale, …Lorenzo Milani”. Poi penso che quelli sono nomi illustri, ma adatti ad una biblioteca “normale”. So anche che non occorre andare lontano per incontrare personalità di prestigio che hanno dato lustro alla Val Degano e al comune di Forni Avoltri, personalità che meritano di essere celebrate e ricordate. Però sono anche convinto che serva il coraggio di guardare più lontano, che si tratti di “sconfinare”. Il nobile gesto di preservare la propria identità non viene contraddetto – anzi, viene amplificato – nell’aprirsi alle culture degli altri.

Dipendesse soltanto da me (mi guardo bene da tale arroganza), intitolerei la biblioteca di Forni Avoltri ad Anpalagan Ganeshu. Chi è Anpalagan Ganeshu? Chi era, Anpalagan Ganeshu. Era un ragazzo di 17 anni nel 1996 (W IL 79!), quando ha lasciato lo Sri Lanka alla volta dell’Europa. Alle spalle, nel suo paese, la vita difficile di chi appartiene all’etnia tamil, minoranza ferocemente aggredita, ma nel cuore il sogno grande di raggiungere l’Inghilterra e una laurea in ingegneria informatica. Era uno studente modello, Anpalagan, morto e dimenticato in fondo al mare nostrum, a poche miglia dalle coste siciliane. Solo uno tra i tanti, uno tra le centinaia di migranti che ogni anno spariscono inghiottiti dal Mediterraneo. Uno per ricordarli tutti. Certo, i fenomeni migratori sono faccende complicate che affondano le radici nel passato e si innestano con forza nelle visioni del futuro. Qui si tratta solo di ricordare ciò che è stato e riconoscere ciò che quotidianamente continua ad accadere. E farlo a Forni Avoltri – agli antipodi del mare, a tasso di immigrazione zero – forse sarebbe ancora più importante. Lancio questa semplice proposta all’Amministrazione Comunale e a tutti gli abitanti, frequentatori della biblioteca o meno. Ignoro cosa comporti, in termini di burocrazia, l’intitolazione di un luogo pubblico. Dipendesse anche questo da me, sarebbero sufficienti un chiodo, un pezzo di cartone e un robusto pennarello. Questa è la mia proposta, mi piacerebbe foste d’accordo con me. Ma non sarei dispiaciuto qualora ne giungessero di altre.

Come sta la biblioteca? Bene, grazie. Dentro si fan tante cose, e il tempo ti passa come niente, ha affermato un giorno Nicola. Lo scrittore Gian Luca Favetto, a ottobre nostro graditissimo ospite, si è permesso di contraddirlo dandogli ragione: “Mi piacerebbe che lì dentro, per te, il pomeriggio non passasse come niente, ma passasse come se fosse tutto, pienissimo e indimenticabile”.      

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Le storie di Scuolamagia, Res cogitans

Lezioni di femminismo

Le lezioni sono sempre diverse, non ce n’è una che somigli all’altra. Però ce ne sono alcune che diventano come dei piccoli riti. Come la prima lezione sulla poesia. Anche se cade inesorabile nel corso del secondo quadrimestre, mi è venuta in mente oggi leggendo il saggio neofemminista di Loredana Lipperini, dove l’autrice fa notare come i libri in adozione nelle scuole italiane siano infarciti di luoghi comuni, cliché e immaginari sessisti.

Le antologie pullulano di storie con bambini che scoprono il mondo attraverso i loro giochi ingegnosi e di bambine indifese abbracciate all’immancabile bambola; di mamme che spignattano e accudiscono i figli mentre i padri quando va male si limitano a salvare il pianeta.

La prima lezione sulla poesia® nasce molto prima dell’agile saggio in questione, ma fila diritta verso le medesime conclusioni. Funziona pressappoco così.

·       Si fa aprire l’antologia a pag. 469;

·       Si dice ai ragazzi di guardare attentamente l’immagine posta sotto il titolo: Parole in versi;

poesia

·       Si chiede loro di riprodurre fedelmente, sul quaderno, il medesimo disegno (non è difficile, fa davvero cagare e alcuni addirittura lo migliorano…);

·       Si invita ad impugnare un pennarello, il più feroce;

·       Si detta, lentamente, dopo aver raccomandato l’enormità dello stampatello: “LA POESIA NON È RECITARE DEI VERSI ALLA MOROSA (RIGOROSAMENTE BIONDA) AL TRAMONTO IN RIVA A UN LAGO”;

·       Far guarnire con punti esclamativi (quanti dipende dal carattere e dalla sensibilità del singolo cucciolo…).

 

Poi basta. Forse come lezione c’è addirittura troppa carne al fuoco.

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Baci d’acciaio

La volta che in bicicletta, davanti al capannone dell’acciaieria, si è aperto l’immenso portone di lamiera e sono usciti suoni d’inferno, e metri di scintille, e tonnellate di fiamme. Che poi mi sono guardato le mani e le loro macchie di pennarello. Quella mattina avevo aiutato due occhioni di ragazza a colorare una madonna con bambino ed era anche quello – nonostante mi paresse assurdo – un lavoro ed era pure il mio pane guadagnato. La volta con Piumetta, al cinema di Topolò, che davano il film cinese sull’acciaieria in via di dismissione, e l’infinito piano sequenza percorreva il perimetro dell’immensa fabbrica e non finiva davvero mai. Come il dolore degli uomini che ci lavoravano. La volta di quella macchia viola, buco profondo sulla pelle bianca del polso, la volta di quelle ciniche parole di operaio: “…non è niente, è soltanto il bacio dell’acciaio”.

La volta che sarà domani e voglio parlare ai cuccioli di acciaio e di persone che si fanno baciare a morte. Ma è difficile.

C’è una canzone nuova, semplice, presto la ascolteremo tutti, presto apparterrà a tutti. «L’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente». Lo schiocco che fanno i baci d’acciaio lo dobbiamo sentire ancora.

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Le storie di Scuolamagia

Sulla casa dei sacerdoti cadranno gatti e cani

Quelli della Terza C, Yuri Agata Nicola Nicky, mi hanno fatto un regalo bellissimo. L’hanno fatto sbucare all’improvviso, oggi, nella pausa tra l’ora di storia e quella di italiano. L’hanno appoggiato sulla cattedra e poi hanno fatto play. Play è il tasto rosso di un datato giocattolone marca Chicco. Un registratore a cassetta con microfono penzolante. Un apparecchio le cui batterie funzionano e  non fuoriescono soltanto perché ad impedirlo ci pensa un bel giro di scotch. È questa schifezza, il regalo? No, il regalo sono le loro voci. Le loro voci a 7, 8 anni, nemmeno se lo ricordano con precisione. La testimonianza di certi pomeriggi impressi sul nastro di una cassetta grazie a quell’apparecchio ormai superato, ma per loro – è evidente – proprio insuperabile. Così mi sono messo ad ascoltare… Le risate, settantacinquemilioni di risate, un vero e proprio rumore di fondo. Nicky che imita Berlusconi (!!!). L’intervista ad una giacca indispettita dalla puzza dell’ascella che sta avvolgendo. Le prime confidenze con alcune parolacce,  “va a cagare” su tutte. E a farla da padrona la strepitosa fantasia di Yuri, che soltanto oggi sul quaderno scriveva COMUNCUÈ, ma che vede e riesce a farci vedere ogni giorno cose che noi umani…

(Il titolo del post credo di averlo ascoltato proprio dalla voce di Yuri all’interno di una buffissima rubrica dedicata alla metereologia…)      

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Appena in tempo

Di solito arrivo sulla porta della notte fustigandomi per non aver letto questo o quell’editoriale, inchiesta, commento, elzeviro, reportage, ecc. Le notizie del giorno dopo sono già nelle rotative e anche mettere da parte il quotidiano diventa spesso un gesto inutile. Il giorno dopo quelle pagine mi sembreranno (a torto) ammuffite. Oggi per la prima volta mi è accaduto il contrario. C’è l’interesse per l’argomento, dispongo del tempo e delle energie per affrontarlo ma mi fermo, freno bruscamente.

Ingrid Betancourt ha scritto una lettera alla madre Yolanda.

Le dice che il momento è particolarmente difficile. Le dice «non mangio, non ho fame, mi cadono molti capelli». Le dice «non ho voglia di niente, è meglio non avere voglia di nulla ed essere almeno libera dai desideri».

Poi mi fermo, non leggo più. C’è qualcosa che non va. Risalgo con gli occhi alla breve introduzione in corsivo che prima ho saltato per tuffarmi prima nelle parole della prigioniera. Dice che “il testo è stato diffuso dalle autorità colombiane contro la volontà della famiglia che, ieri, ha protestato definendo la diffusione della lettera una violazione dell’intimità”.

Appunto, e allora?

Perché la pubblicate? Perché è qui davanti a me, a pag. 12 di “Repubblica”? È il dovere di informare, no? Deontologia, certo… Non c’è un altro modo, per informarmi? Perché non ne parlate anche domani, allora, della Colombia? E dopodomani ancora.

Io mi sono fermato alla riga 12. Appena in tempo. Ma la lettera compare anche on line, e quella richiesta di riserbo sarà già stata violata migliaia di volte…

Oggi la carta del mio giornale odora di merda.

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