Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

La gita, il fuoco, la pioggia

Gita. Ci provano da una vita a rottamare la parola sostituendola con termini più pregni e altisonanti. “Visita”, “viaggio”, “d’istruzione”. Quella tien duro: Gita. Due sillabe che non si schiodano, sono piantate negli immaginari come due querce.

Gita. Domani. 5 giorni (!). Ci saranno un ostello ed un lago, un bel po’ di verde e 13 burfaldini da accudire. Chissà se si lasciano portare a correre prima dell’alba.

 

La Pozzanghera rimane aperta, continuate pure a farci ciaff ciaff a piedi nudi, e già che ci sono ci infilo questa perlina del mio “idolo” pop, a cui qualcuno deve aver detto che, se coverava questa canzone, mi sarei irrimediabilmente sciolto. 

 

Standard
Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Libero sindacato cassiere di periferia

La cassiera di un cinema di periferia. Una di quelle sale che hanno perso la sfida con i mostri a dieci schermi, e allora si sono specializzate in pellicole di qualità, gioielli d’autore.

Le unghie smaltate della donna danno il resto con eleganza: a qualche coppia d’anziani, a qualche signore solitario, a due innamorati che si tengono stretti, ad un’uomo che paga per due ma poi lei all’ultimo non arriva, e il film sarà per forza bruttissimo.

Un piccolo cinema lontano dal centro: un luogo che la domenica pomeriggio si popola di bambini per l’ultima trovata dei maghi dell’animazione.

E lei, la cassiera, stacca il biglietto e guarda, studia. I cuccioli pronti alla magia, ma altrettanto concentrati sulla voglia di infilare la manina in un otre di pop corn. I papà divorziati che si sentono in colpa, il tempo è poco e il film è una strada troppo comoda: neanche quel giorno riusciranno a parlare col figlio. Si accontenteranno di vederlo ridere alle gag di un suricato.

Non è un lavoro duro, quello della cassiera. Certo, gli orari balordi, i sabati e le domeniche, il Natale, la Pasqua. Certo, l’attesa tra il primo e il secondo spettacolo, l’infinito gioco di appiccicare una faccia alle voci degli attori, le battute delle pellicole più proiettate imparate a memoria e il sapere in anticipo se dentro, al buio, le persone rideranno, e quanto. I piccoli riti: appendere le locandine, uscire dal botteghino per sgranchirsi un po’; le piccole scocciature: rispondere alle mamme che chiedono se un film sia proprio adatto…, beccarsi gli improperi di chi una schifezza così non l’aveva mai vista.

Qualche raro grazie, quando i titoli di coda dell’ultimo spettacolo stanno già scorrendo e la cassa è già stata chiusa. Chissà perché, quei grazie, come se fosse stata lei, semplice cassiera, a scegliere quella storia o quel finale o quel bacio o quell’abbraccio o quel semplice sguardo di celluloide.

 

(Venerdì 25 aprile Beppe Grillo ha definito Lilli Gruber, colpevole di aver ospitato nel suo programma alcune opinioni molto critiche verso il M5S, una che “al massimo potrebbe fare la cassiera in un cinema di periferia”). 

Standard
Soletta, Stream of consciousness

Un seme di terra

 

 

E si moriva d’estate in montagna

bella ciao, con un fazzoletto rosso al collo

magari proprio sul più bello

di una vita tutta da desiderare

o tra le lenzuola fresche di una bella mattina

e si moriva d’inverno

nascosti nel fieno di qualche cascina

con una donna mai vista

a fingere d’esser tua madre

o tua moglie

e si moriva d’autunno nei fossi

sorpresi di foglie

come cicale curiose del gelo

e si spariva ragazzi in aprile

d’agosto

fermati e freddati sul posto

o su un vecchio vagone piombato

poi s’è morti di ordigni e di trame

di stragi che adesso chiamiamo di stato

truffandoci la vista

nel linguaggio dolciastro del potere

con cui strisciamo la notizia

della pace armata

e delle bombe intelligenti

che anche oggi, a sorpresa, uccidono qualcuno

e ci chiediamo tutti, teleguidati nei salotti bene di Rai1

che storia sia davvero questa

che non riusciamo più a chiamare nostra

siamo i ribelli della montagna *

l’8 settembre

Ustica

una finestra in questura

da cui si cade e si muore

revisioni, processi

indagini che non portano mai a niente

e tutto il sangue nel sangue

negli occhi stanchi della gente

che ha stretto di lacrime e lavoro

questo suo seme di terra

da cui è nato un paese che ripudia la guerra

 

Maurizio Mattiuzza, Gli alberi di Argan, La vita felice edizioni

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

“Papà, a Scuolamagia ci sono 21 alunni”… “Dove l’hai letta sta cazzata?” … “Sull’Unità…”

 

Come dicevamo, Andrea Satta ha trascorso un paio di giorni in Friuli, ospite della rete di scuole Sbilf. In un baretto anonimo dove ci siamo fermati per un caffè, Andrea è rimasto incantato davanti ad una carta della regione che lo ospitava, una di quelle con le montagne sporgenti, con “i rilievi in rilievo”. Mentre il suo caffè si freddava, ha percorso con il dito valli e pianure, conche e litorali. Ha accarezzato i confini, di cui mi è parso – come dargli torto – particolarmente ghiotto. Il suo mi è sembrato un atto d’amore verso la geografia. Oggi ha scritto di questo suo viaggio – quello concreto o quello col dito? cambia qualcosa? – sull’Unità.

(L’articolo si può leggere nei commenti)

Standard
Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Ah che bell’ò cafè pure a Scuolamagia ‘o sanno fa

Nel primo pomeriggio la porta di Scuolamagia si è riaperta. Il tempo di far entrare un piccolo drappello di studenti in incognito, ben oltre l’orario canonico, contro le regole che gli istituti scolastici si danno per schermarsi da intrusioni e risultare impermeabili una volta che è suonata l’ultima campanella. Sono entrati, quei cuccioli, come cani in chiesa, e a convocarli sono stato io. C’erano da discutere e chiarire alcune faccende rimaste in sospeso, questioni dolorose di rapporti umani ingarbugliati. Questioni che si intonavano ad un pomeriggio di pioggia come quello, e a quelle sedie a cerchio disposte con improvvisazione nell’atrio, solo per non rimanere a parlare in piedi, nella poca luce. Non sono essenziali a questo racconto le frasi pronunciate e i toni accorati, le spiegazioni,  le recriminazioni ed i fatti discussi. Qui conta quello che a un certo punto una voce di dodici anni ha gettato nel cesto delle parole pronunciate, con disarmante naturalezza, quella delle ovvietà e delle cose giuste da dire e fare nel momento giusto.

 

«Prof., faccio il caffè?»

 

«?»

 

Tu. Fai il caffè. Tu. Sai dov’è la moka. E come si accende il fornelletto elettrico. E le dosi giuste, sai. E stringere forte quell’oggetto metallico. Mi chiedi quanti cucchiaini di zucchero, tu, prima di versarmi e di versarti nella tazzina quel liquido scuro che sorseggiamo piano, insieme, per poi riprendere la discussione, per poi rituffarci nel problema che dobbiamo risolvere.

Standard
Res cogitans, Soletta, Stream of consciousness

Andrea Satta e la sindrome dell’altricentrismo

Ho avuto il privilegio di conoscere Andrea Satta, e di accompagnarlo a zonzo per il Friuli con il suo prezioso libro di favole. C’è in lui qualcosa che mi ha sorpreso, che mi ha disorientato, che mi ha alla fine entusiasmato. Ed è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la sua voce, con la sua penna, con il suo lavoro di pediatra di base. È qualcosa di nascosto, in realtà senza esserlo affatto. Si trattava soltanto di unire i puntini, guardare le cose sotto un’altra luce, cambiare il punto di vista. Andrea Satta ha parlato – in meno di 48 ore di permanenza friulana – per tantissimo tempo. Nulla di strano, ci aveva raggiunti per quello. Che fosse un grande affabulatore, inoltre, non mi ha di certo sorpreso. La sorpresa è venuta da un’evidenza raggiunta soltanto ora: Andrea è un uomo senza IO.

Quel pronome non esiste, nelle frasi che pronuncia. Al centro di tutto ciò che dice ci sono sempre gli altri, tantissimi ALTRI, tutti gli altri del mondo. Raccolto in stazione appena sceso dal treno, tempo un minuto e mi stava parlando di Alfredo Martini, grande vecchio del ciclismo italiano. Percorse due rotonde e la sua voce aveva già abbracciato la storia della sua cara amica Margherita Hack. Ma qui potreste pensare che la testa di legno ami vantarsi per le importanti frequentazioni e conoscenze. Macché, c’è davvero posto per tutti e le sue chiacchiere sono invase di persone semplici, quasi sempre distinguibili per una caratteristica originale, per un talento raro, oppure per un tratto di sofferenza indossato con dignità. Il camionista che trasporta mozzarelle, l’insegnante precaria in attesa che il telefono squilli con l’annuncio di una supplenza. E poi l’esercito delle mamme che lo attendono in ambulatorio: le Cerasela dalla Romania, le Kadidja dal Marocco. E poi altri ancora: Concita la giornalista, Sergio la matita che disegna col cuore e senza gli occhi, i musicisti della sua band, i mille compagni di pedalate, il bambino di Tolmezzo che ha raccolto e stringe nel pugnetto un fiore giallo per la mamma e una margherita per la sorella, mezzora dopo averlo incontrato nella sua scuola. Scarto il cd che mi ha regalato Andrea, che riterrei la naturale dimora per l’io di un musicista, e… niente da fare nemmeno lì: trovo invece righe che mi ricordano quanto sia importante abbracciare sempre Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi.

Non riesco a coniare un termine che definisca questa condizione che mi appare come il contrario esatto dell’egocentrismo. “Altricentrismo”? “Egoperiferismo”?

Boh, ci rinuncio. Però mi è sembrata, quella condizione, la panacea di tutti i mali del mondo.

Standard
Soletta, Stream of consciousness

Andrea e Antonio

Ho letto il libro che Andrea Bajani ha dedicato alla memoria di Antonio Tabucchi.

Oggi comanda la matita che sottolinea mentre leggo. A lei la parola, a lei le parole.

 

Il mappamondo svirgolato dei tuoi affetti. (pag. 17)

 

La tua voce saliva su come fumo da un camino,… / … come se non fosse ormai troppo tardi per ogni colpo di tosse già tossito… (pag. 23)

 

Se l’ignoranza fosse un vuoto, mi dicevi, sarebbe facile riempirlo di cose, di cultura, di civiltà. Ma l’ignoranza, caro mio, è un pieno. È un muro, e i muri si possono solo abbattere, oppure scavalcare. (pag. 35)

 

E dentro al telefono la tua voce slabbrata, prossima a sparire. (pag. 39)

 

Era come se mi stessi consegnando le parole, come se mi stessi facendo scivolare attraverso il telefono, dall’altra parte dell’Europa, tutto il vocabolario, per poi dirmi una frase molto semplice Qui dentro c’è tutto quello che ti serve. (pag. 40)

 

Avevo fischiato per chiamarti, in maniera maldestra, troppo forte per quella notte, per qualsiasi notte. (pag. 75)

 

E così eravate rimasti lì, insieme, tuo figlio con in braccio la tua morte appena nata… (pag. 122)

 

Standard