Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

C’è chi in fondo al suo cuore ha una pena

 

Le parole di Jannacci entrano a scuola senza bussare, senza bisogno di chiavi. Nemmeno di chiavi di lettura. Sono una lingua sconosciuta ma non straniera. Stralunate, surreali, divertenti, sono le parole di un nonno un po’ matto che sta dalla tua parte, che ti fa l’occhiolino e pure ti copre se hai combinato qualche guaio.

Forse le ho usate troppo poco, in classe, ecco, questo è il problema. Ma quando è accaduto non mi sono mai chiesto se stessi facendo la cosa giusta. Era evidente che .

Scuolamagia omaggio a Jannacci

(clicca per ascoltare)

 

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Avresti mai pensato di intitolare O TEMPORA, O MORES?

I parlamentari eletti sono “casi psichiatrici”.

Le parlamentari, ma forse anche i colleghi maschi, sono “troie”.

Per Marco Travaglio chi non capisce certe cose evidenti che capisce lui è un “cerebroleso”. Pazienza che il termine faccia riferimento a tutt’altra forma di disabilità, pazienza soprattutto che sia la dolorosa caratteristica di persone che vorrebbero leggere Travaglio senza sentirsi insultate.

Un ottantenne sembra ovvio debba addormentarsi mentre ascolta i discorsi fluenti di un quarantenne.

Il femminicidio diventa l’idea geniale per uno spot.

Chiunque abbia 5 righe di spazio su un giornale o sul web ne usa almeno 3 per ricordare a tutti, e sempre, che Brunetta è prima di tutto un nano.

Un sindacato di polizia contesta una sentenza oltraggiando la madre di una vittima.

Che la diga presentasse svariate crepe ce n’eravamo accorti.

È altrettanto evidente che questi che arrivano a valle non sono soltanto quattro schizzi. Non sono avvisaglie.

Viene giù tutto.

La civiltà, dico.

Dove si scappa? 

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Le storie di Scuolamagia, Stream of consciousness

Nella tasca di un qualunque pomeriggio

Come ogni anno, a primavera, mi occupo di un breve corso di informatica rivolto ai bimbi della scuola primaria, i dirimpettai di Scuolamagia. I pargoli – soltanto 6, a causa di alcune assenze – mi aspettano vicino all’ingresso della loro aula. Per me si tratta di prelevarli ed accompagnarli in aula informatica. Li saluto, alcuni li conosco già, alcuni li ho solo intravisti in altre occasioni: sono 5 maschietti e una femminuccia. Sono sull’attenti, non dico emozionati, ma assolutamente “sul pezzo”. Dico che ci aspetta proprio un bel lavoro e chiedo con una certa enfasi: “siete pronti?”. “Sì!”. Non è propriamente nel mio stile, ma decido di continuare con quell’anda da sergente Hartman. Perciò faccio la faccia seria e squadro il tipetto sveglio apparentemente più rilassato, al centro:

 

“E le mani in tasca?!”

 

Ed ecco che gli altri cinque, con perfetta sincronia, all’unisono, infilano palmi e ditine nei jeans e nelle tute.

(?!?!)

 

Possiamo andare.

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To Be Continued

Anche se non c’è un doodle a ricordarcelo, il 24 marzo cade la giornata mondiale per la lotta alla tubercolosi. Sarei disonesto se vi dicessi che intendo sensibilizzarvi in tal senso. Ne so poco o nulla e, anzi, necessito di urgenti interventi di sensibilizzazione.

Da qualche anno, però, io il 24 marzo spero che piova e che sia domenica. Per 24 ore filate, quel giorno, quelli della Stazione di Topolò radunano il villaggio globale e offrono in streaming audio un ricchissimo menù di musiche, un variegatissimo banchetto con suoni da tutto il mondo. Per dire, mi sono connesso e la musica che mi ha accolto proveniva dalla Nuova Zelanda: un vero concerto con tastiere, altri ammennicoli tecnologici e – soprattutto – il suono che fa la festa di compleanno di una bambina di 5 anni.

Sono uscito cinque minuti per comprare i giornali e ora mi accoglie un bel tappeto sonoro tessuto a Città del Capo, Sudafrica. Un sottofondo di pioggia e il canto di quelli che direi sono pennuti di quelle parti. Alle 9.30 farò un salto in Giappone, dove immagino (adesso: 9.21) si staranno preparando. La Cina me la sono persa, peccato, avrei dovuto svegliarmi alle 4.00. Alle 12.00, per dire, gioca l’Italia con la pianista Alessandra Celletti.

Morale della favola, la mia, in soldoni. Da giorni ci sorbiamo le omelie di quelli che hanno capito il Web, che sanno usare la rete, che con i computer fanno la democrazia come ad Atene. Quelli che erano così connessi che manco si conoscevano. Quella rivoluzione lì, se esiste davvero, se ne sta racchiusa dentro queste 24 ore di arte e creatività dolcemente invadenti, meravigliosamente gratuite.

Mi fermo qui: prima vi connettete meglio è. Buon ascolto!

Cliccate su…

 

ToBe Continued

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Epitassi

Ogni mattina a scuola cadono denti, sanguinano nasi. Tutto si ferma, in quelle giovani esistenze ferite, l’orizzonte si riavvolge attorno a quei canini dondolanti come fosse un filo interdentale. Il sangue, invece, goccia dal naso all’improvviso, macchia il quaderno, la piastrella, la manica della felpa. A 11, 12 anni manca ancora la perizia necessaria (stringi forte le narici con le dita, piega la testa all’insù), ma manca quasi sempre, soprattutto, un fazzoletto. Gli eroi son sempre giovani e belli, e immortali e figurarsi se portano con sé i fazzoletti per il naso. Non bisogna temere la tenerezza, no. Fa tenerezza il naso di una ragazzina, di un ragazzino. Inteneriscono quelle stille impreviste quanto innocue, annullano le distanze.

Anche il naso di Carolina Kostner ha iniziato a gocciolare come quello di un’adolescente nel corridoio di una scuola. Nel bel mezzo di una finale mondiale, per di più, e senza sporcarla nemmeno troppo, dimostrando come possa nascere grazia anche da una piccola fastidiosa disgrazia.

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Soletta, Stream of consciousness

Coi più sfrenati voli, con la più austera passione

È domenica mattina e mi prende il panico. Mi compare davanti agli occhi la pagina del giornale con la foto virata seppia. Era nel giornale di martedì, di mercoledì, o di giovedì? Non ricordo. Ricordo soltanto di essermi ripromesso di leggere a sera quell’inedito nelle pagine culturali.

Al panico segue la ricerca spasmodica. Parte dei quotidiani finisce in un cassetto, carta pronta per accendere il fuoco, al mattino presto. Non è lì. Rovisto quindi nel bidone sul terrazzo – sia lodata la differenziata – e trovo la copia di “Repubblica” del 7 marzo. E pagina 43, quella che cerco.

 

Il mio Avatar sui social network aveva una moglie, bellissima.

Ed ecco il suo inedito, un testo scritto dopo 6 anni di vedovanza. Con tante grazie al fascismobuono

 

«Se la vita non mi avesse ridotta a trent’anni così disperatamente vecchia e sola, se nel mio domani ci fosse ancora la possibilità di una speranza o di un sorriso, oggi vorrei fabbricare, per la mia gioia, qualche impossibile sogno. Ho aperto la finestra: il vicolo era pieno d’ombra ma una diritta lama di sole scintillava sui vetri della casa di fronte: fuori dallo stretto intrico delle viuzze nel viale che porta al mare, indovinavo diffusa la calda luce del novembre; forse sulla spiaggia le donne dei pescatori cantavano riaggiustando le reti, certo sciami di bimbi giocando si sorridevano. Ho desiderato uscire, scuotere dalle spalle questo grigio torpore, ancora cercare ansiosamente un brivido nuovo, ancora tendere le mani. Verso che cosa? Queste mie mani che da troppo tempo non hanno carezze, non sanno più stringersi nel gesto sovrano del prendere, non sanno più schiudersi alla soavità del dare. Ho visto nello specchio il mio volto opaco, senza risalto: ho abbassato gli occhi sul vestituccio di cotonina bigia, ho sentito la disadorna povertà del mio corpo: oh, senza imprecare. Ancora una volta ho piegato la fronte.

Poiché non c’era più sole ho richiuso la finestra: mi sono seduta sulla coperta di cotone a scacchetti bianchi e rossi, sul letto gelido e duro. Ho guardato le cose intorno: la catinella di ferro scrostata, le tendine sudicie sui vetri polverosi, il tavolo consunto e roso dai tarli, le sedie impagliate.

Un piccolo ragno si inerpicava lentamente lungo il muro: l’ho lasciato salire e nascondersi in un angolo, sotto la tappezzeria lacera. Senza ribrezzo, senza timore: perché questa è la realtà.

L’ho tanto cercata la mia realtà: coi più sfrenati voli, con la più austera passione. Senza mai appagarmi. E la realtà è questa: vita che non è vita, morte che non è morte. Grigio che dilaga, dilaga, che non ha fine, che resiste, che dura, che sarà ancora oltre il pulsare malato del mio cuore e delle mie vene.

La stanza è quasi buia: e c’è il silenzio intorno. Presto sarà la notte: e torneranno anche gli altri e dovrò alzarmi, sedere al mio posto nella umiliante promiscuità della tavola comune, aprire la bocca, rispondere alle domande, mangiare.

E poi? Non piango: non debbo pensare a nulla. Domani sarà come oggi. E un altro giorno ancora.

Nulla oltre questo, nulla di diverso da questo. Non chiedo perché. Non mi ribello. Mi piego con [……] anche se la ragione mi è ignota. C’è tanta pace in questa disfatta: me ne lascio penetrare, inerte. Accetto il mio destino, con umiltà».

 

Ada Prospero Gobetti

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L’ora buona delle Fate silenzio

 
– Fate piano!
Maestra, esistono davvero?

– Chi?
le Fate piano…

– Secondo voi bambini?
Per me sì: appoggiano le cose adagio, camminano a rallentatore, non hanno mai fretta e se uno va troppo veloce, con la magia lo fermano per un po’, e salvano le persone che potevano morire alla svelta, invece pianino pianino non sbattono contro le cose.

– Io ho conosciuto le Fate silenzio
Cosa fanno?

– Cercano di far star zitti tutti quelli che urlano o non smettono mai di parlare, e alle volte tolgono i rumori della paura.
E voi bambini sapete cosa sono i rumori della paura?
Io lo so: quando nel buio senti qualcosa che dà i brividi, le Fate silenzio ti aiutano e non li senti più, smetti di tremare e torni a dormire.

– Ci sono solo di notte?
No… un giorno durante un terremoto mia sorella ha sentito come un tuono che non finiva mai, sono arrivate le Fate silenzio e tutto è finito subito.
Una volta io ho visto le Fate così.

– E cosa facevano?
Così

– Così come?
Come dicevano loro: se io dovevo scrivere o disegnare, mi aiutavano a fare così, se dovevo mangiare, lo facevo, così loro erano felici anche per me…

– Ma come sono?
Così

– Così come?
Non so…. come della gente che vola quando è felice, e se non vola scende e guarda cosa può fare per far volare anche gli altri che sono a terra

– Bambini cosa vuol dire essere a terra, qualcuno me lo sa dire?
Mio padre aveva una gomma a terra, sgonfia come un pallone.
Mio fratello aveva un pallone sgonfio ma con un calcio lo ha fatto volare.

– A terra vuol dire anche stanco, malato, triste, giù.
Se mia mamma mi aspetta giù io devo essere triste?

– Se lei è giù devi essere giù anche tu!
Io abito in una casa a tre piani e certe volte uno è giù e gli altri sono tutti su, ma tristi…
Io abito a un piano terra e siamo sempre tutti giù: più giù di così moriamo, ci seppelliscono.

– Adesso bambini andate, fate presto.
Le vedo: andiamo con loro, così non saremo mai più in ritardo.

 

Alessandro Bergonzoni, “il Venerdì”…

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Il concerto del passato che parla del futuro

Todo cambia. La realtà sorprende e spiazza. Succedono cose prima d’ora impensabili. Conforta pensare a qualcosa che stia fermo, rimanga lì, perché quando è nato sembrava perfetto così e così perfetto sembra anche oggi. L’ho pensato davanti alle parole di certi pezzi che ha cantato Claudio Lolli, patrono di questo blog, nel suo concerto di venerdì, a Cervignano. Una serata fuori dal tempo, lontana dal presente, uno spettacolo clamorosamente privo di novità, anzi: compiaciuto per il fatto di somigliare più di sempre alla sua vecchia storica versione. Edito e superedito, senza alcun progetto da vendere, senza alcunché da perseguire sulle strade di iTunes. E tutto ciò, tutto questo miracolo, soltanto grazie ad un libro. Quello ingiallito, con la copertina strappata. Quello che il cantautore stringeva tra le mani, lo scrigno di testi da tempo forse dimenticati, o più probabilmente così rispettati da temere qualsiasi scivolone mnemonico.

Da lì si riparte sempre, dalle parole, dalla poesia.

Uscendo da un concerto di 30 anni fa, il primo marzo 2013, mi è fin troppo chiaro che bisogna sempre andare avanti e che “indietro non si torna neanche per prendere la rincorsa”. Canticchiando arie di sax vien da immaginare un futuro di luce: zingari felici che si rincorrono, compagne che volano sulle pozzanghere e che so… un Papa nero, no… meglio… un Papa donna.

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