Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

L’arte tutta femminile di incastrare le corriere

 

Immaginavo fosse dura leggere di un Tour de France senza la penna di Gianni Mura, la sua passione per le storie incastonate come perle dentro la cronaca, le sue sublimi divagazioni, ma così è davvero troppo. La Grande Boucle si apre con una tappa pasticcio, un inconveniente dietro l’altro, e un episodio tra i tanti riconcilia teneramente con la fallacia degli umani. Un superpullman guidato da un superautista (uomo) si incaglia maldestramente sotto l’arco del traguardo montato da tecnici (uomini, con tutta probabilità) nell’ambito di una corsa di corridori (uomini) organizzata e diretta da importanti personalità (uomini) del ciclismo francese, prima di venir soccorso da una provvidenziale squadra di pompieri (uomini). Il tutto davanti a qualche centinaio di milioni di telespettatori (per gran parte uomini) sparsi per il mondo.

Ecco la cronaca dell’inviato (uomo) di “Repubblica”.

 

«Il genio al volante (c’è un filmato già cult) alza gli occhi e,

come vostra moglie al parcheggio dell’ipermercato,

decide che sì, lì ci passa».

 

Chiudo il giornale, se non ora quando?

 

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Res cogitans, Stream of consciousness, Tutte queste cose passare

Due vite in una

 

Ho notato uno strano pudore nei ricordi commossi del calciatore Stefano Borgonovo. È stato giustamente messo in luce il suo coraggio, è stata con forza raccontata l’impari sfida alla malattia che ne ha fatto un eroe. Si è detto dell’infinita dignità e della generosità.

Il pudore che non comprendo riguarda il prima. Perché non ricordare anche l’atleta nel pieno della forma, perché non mostrare in Tv gli stacchi imperiosi, le rovesciate acrobatiche, gli slalom tra i difensori avversari… Come se la seconda vita di Borgonovo avesse in qualche modo oscurato e vanificato la prima, come se tra quelle due esistenze ci fosse un’incompatibilità di fatto. Essere stato l’emblema della vigoria fisica a mio avviso non ostacola e anzi sublima la successiva struggente testimonianza di quell’uomo che della vita ha bevuto davvero tutto il succo.

Ci pensavo, ieri sera, e mi è venuto in mente un pomeriggio allo stadio. La squadra di casa, a rischio retrocessione, offriva biglietti a prezzi stracciati per richiamare in curva sostenitori depressi. Una delle tre partite a cui ho assistito dal vivo, tutte da adolescente o poco più. Udinese-Cremonese 3-3. Con doppietta di un elegantissimo, regale, felpato Stefano Borgonovo. 

 

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Le storie di Scuolamagia, Soletta, Stream of consciousness

La verità di Alice

Le avventure di "Alice in Newland".
 
No. Io non sono una bambina affettuosa.
Non nell’accezione che di solito si dà ai bambini affettuosi.
Se mi chiedi un bacino non te lo darò mai.
Neanche se sei mia madre, mio padre, mia nonna, la mia migliore amica. 
Neanche se sono mesi che non ci vediamo. 
Mai.
 

 

Questo post è stato pubblicato il giorno in cui a scuola cominciavano gli esami. Fuori tempo massimo, quindi, per entrare a far parte dell’Antologia dei miei alunni. Da qualche anno, infatti, ho smesso di affidarmi ad una raccolta ufficiale di testi letterari. Ho detto basta con quel gran calderone messo insieme da un arbitrio che non era il mio, in cui magari i curatori pensavan bene (maleee!!!) di ammazzare i brani con qualche domandina “Invalsi style”, per allenare i ragazzi alla comprensione di ciò che gli adulti desiderano con intransigenza essi comprendano.

Così, l’Antologia nasce giorno per giorno nelle mani degli alunni, attraverso fogli stampati o fotocopiati che si accomodano nelle bustine traparenti di un quaderno ad anelli o in quello che tecnicamente si chiama “portalistino” e viene via a pochi euro in qualsiasi cartoleria. Il numero esiguo di alunni non mi fa nemmeno sentire troppo in colpa per lo scialo – davvero minimo – di fotocopie.

Per rendere più gradevole l’oggetto, ogni tanto ci concediamo un foglio colorato o la stampa di una bella immagine; ognuno poi è libero di inserire disegni e di personalizzare la copertina.

Ma torniamo al post di cui sopra, tratto da un blog di cui ho già scritto e che “a volte ritorna” nell’Antologia di Scuolamagia. Senza che nessuno studente si sia mai lamentato, senza che nessun dodicenne maschio abbia mai sollevato sospetti di cicciopucciosità da ragazzine.

No, ad Alice si sono affezionati tutti, e chi rimane assente il giorno in cui leggiamo un post reclama quando torna la fotocopia mancante. Un gesto che viola e contraddice ogni statuto di vita studentesca. 

Il perché di questo successo?

Credo abbia a che fare con il fatto che quella bimba esiste davvero. E che quelle pagine trasudano verità. Tutta la verità, nient’altro che la verità. E tutto questo – com’è giusto – Alice non lo sa. 

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Un poeta

 

Quando ho sentito nominare Andrea Pazienza per la prima volta, lui era già morto da qualche anno. Non è passato moltissimo tempo, ma abbastanza sì perché ancora non ci fosse internet, e nella mia cittadina non c’erano e non ci sono mai state le fumetterie, e di libri patinati all’epoca manco parlarne. Per dire che tutto è cominciato con un giornalino consumato, saranno state 15 pagine, sfogliato sotto il banco nell’ora di latino. Non era nemmeno proprietà di quell’amico vicino di banco: infatti, non poté neppure prestarmelo. Solo 5 minuti per innamorarmi senza capire, anche se, ma questa convinzione è venuta dopo, non c’era proprio niente da capire.

Non me n’è mai fregato del ’77 bolognese e di quegli anni. Massimo rispetto, ma io “non c’ero”. Io sono arrivato dopo e il mio dovere è soltanto quello di studiarlo, quel tempo saltato in padella. Mi hanno sempre infastidito le interpretazioni sociologiche attorno al mio mito coi pennarelli. Tutti pronti a fargli indossare una maglietta, a farlo entrare in un movimento, in una generazione, in una consorteria storica già ricca di gesta, personaggi e interpreti. C’ero io quella volta e con me c’era anche Andrea Pazienza. Ecco, così non vale. Perché quell’uomo non apparteneva a nessuno. Mentre a lui – è molto diverso – apparteneva tutto. E quindi anche i cortei, le battaglie, le radio libere. Ma esattamente come l’orma di un cane, il ramo spezzato di un albero, tua cugina che certe sere si fa prendere da una feroce nostalgia.

Sostiene Moreno, a cui Andrea mise le stelle sulla faccia, che è prima di tutto di un poeta che stiamo parlando. “Scrivere di Andrea Pazienza e la poesia, significa guardare con diffidenza a quell’e di mezzo”.

Un suo bellissimo ricordo di Paz continua così, e mi permetto di citarlo in questa domenica lontana 25 anni da un altro giorno di giugno.

 

«Alcuni anni fa, mia figlia Cora nel tema “Cosa vorresti da Babbo Natale?”, chiese che gli insetti potessero vivere anche d’inverno. Andrea avrebbe condiviso; non aveva bisogno di “capire” i bambini. Come loro lui viveva fuori da sé. Sapeva benissimo che extra-Io c’è un paese bellissimo. Andando a zonzo per le campagne era là, dove si posava lo sguardo. I bambini e gli animali fanno così.

Andrea Pazienza è stato tutta la sua vita e anche quella di chi incrociava.

Ne incrociò parecchi. Una volta capitò a un istrice che agonizzava in un fosso con zampe anteriori maciullate da una macchina. Andrea fu anche quell’istrice, quella macchina e la frenata.

È dispendioso essere tutto ciò che si incontra ma dentro di sé, lui, doveva ben sentire che, alla fine dei propri giorni, ognuno reca con sé solo ciò che ha donato» 

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Soletta, Stream of consciousness

Aspettando chi non può tornare

A 24 anni scrivevo la tesi di laurea e in biblioteca stavo quartid’ora a fissare le “Opere di Piero Gobetti”, due metri e mezzo di libri nello scaffale in alto a sinistra. Da qualche tempo sapevo che lui era morto a 25. Di cose sue avevo letto praticamente nulla, ma due metri e mezzo di articoli e saggi cozzavano parecchio duro con le mie 250 pagine in corpo 12, margini generosi, interlinea estrema.

Un piccolo romanzo racconta gli ultimi giorni del mio mito con gli occhialini e il ciuffo ribelle. Da un mese lo leggo e rileggo, aprendo a caso, come si fa – almeno credo – con una bibbia.  

 

«…la lettera di una moglie che non ha raggiunto in tempo Parigi, c’era una foto di lei con il bambino, è la prima, Non lasciarla troppo alla luce, perché non è ancora fissata e svanisce; e sentire di non avere fatto abbastanza per evitare ciò che comunque non è possibile evitare, avere per un minuto, all’improvviso, la sensazione che non sia accaduto niente, che si può aspettare anche chi non può tornare, che si possa fare soltanto questo: aspettare, nelle stanze rimaste vuote, intoccabili, congelate, fino a che piomba in un’ora del pomeriggio tutto insieme il peso dell’assenza – devastante, lugubre, senza speranza – o dentro notti infinite, tormentate e nere come questo inchiostro, fino a che con ogni atomo di noi, a una profondità che ci toglie il respiro, sentiamo l’irrimediabile, e che tutto questo è reale, reale come la vita che continua, mentre di un uomo si è costretti a dire che era, è scomparso – e una parte di noi con lui.»

 

Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli.

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Aria che cambia aria

Aria è stata una delle mie prime alunne. Son passati dieci anni, ma sembra ieri. Era una ragazzina entusiasta e volitiva… No, fermo subito le parole astratte, sto parlando in “pagellese”, che in questi giorni – purtroppo – scatta di default. Proviamo così: era la prima ballerina nei miei spettacoli, costruiva gigantesche mummie con la carta igienica e la colla vinilica, portava a scuola – e mi convinceva a farceli rimanere! – gattini trovatelli con la tosse. Ecco, così la descrizione è più concreta e va decisamente meglio.

Una volta abbiamo litigato e sul suo quaderno, il giorno dopo, ho trovato al posto del tema domestico una frase: “Lei capisce sempre e solo quello che vuole”. Ripetuta 30 volte, il contrario di quello che una volta facevano fare i maestri e i prof. (“Ho dimenticato il libro a casa. Ho dimenticato il libro a casa, ho dimenti…”). In calce, tuttavia, c’era scritto anche “…però adesso basta litigare, ché domani è un altro giorno”. È fatta così, la ragazza.

Aria, con la sua calligrafia piena ci curve e tornanti, inseriva nei suoi quaderni riflessioni spiazzanti. Come lei stessa ricorda, non tutti i giorni erano ugualmente ispirati e buoni per la scrittura, ma quando capitava che lo fossero dalle righe nascevano pensieri difficili da dimenticare: “riuscirò a raggiungere i 18 anni?”.

Beh, c’è riuscita. E poi si è pure laureata. E poi? E poi – complice quest’Italia che lasciamo perdere… – ha deciso che il suo futuro andava almeno momentaneamente ricercato altrove. Da qualche settimana, infatti, Aria vive ad Ankara, e lavora nell’ambito di un progetto di volontariato. Ovviamente non conosce la lingua turca e i suoi colleghi, a quanto pare, non masticano granché l’inglese. Insomma, ci vuole un bel coraggio. E, di questi tempi, ci vuole anche un bel blog per raccontare tutto a chi è rimasto qui sotto questa mezzaluna senza stelle.

Manco a farlo apposta, appena atterrata sul suolo turco, il paese che la giovane ha scelto per trascorre il prossimo anno della sua vita s’è incendiato come un mucchietto di foglie secche approntate d’autunno da un metodico contadino.

Insomma, Aria ha cambiato aria, nonostante Aria non sia cambiata.

 

(Da oggi il blog Ariaditurchia lo trovate tra i link della Pozzanghera)

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